Il primo capitolo “Diventare Meridionali”.


Il primo capitolo “Diventare Meridionali”.
Cap. Alessandro Romano

CAPITOLO PRIMO

Diventare Meridionali Io non sapevo che i piemontesi fecero al Sud quello che i nazisti fecero a Marzabotto. Ma tante volte, per anni.E cancellarono per sempre molti paesi, in operazioni “anti-terrorismo”, come i marines in Iraq.Non sapevo che, nelle rappresaglie, si concessero libertà di stupro sulle donne meridionali, come nei Balcani, durante il conflitto etnico; o come i marocchini delle truppe francesi, in Ciociaria, nell’invasione, da Sud, per redimere l’Italia dal fascismo (ogni volta che viene liberato, il Mezzogiorno ci rimette qualcosa).Ignoravo che, in nome dell’Unità nazionale, i fratelli d’Italia ebbero pure diritto di saccheggio delle città meridionali, come i Lanzichenecchi a Roma.E che praticarono la tortura, come i marines ad Abu Ghraib, i francesi in Algeria, Pinochet in Cile. Non sapevo che in Parlamento, a Torino, un deputato ex garibaldino paragonò la ferocia e le stragi piemontesi al Sud a quelle di «Tamerlano, Gengis Khan e Attila». Un altropreferì tacere «rivelazioni di cui l’Europa potrebbe inorridire». E Garibaldi parlò di «cose da cloaca».Né che si incarcerarono i meridionali senza accusa, senza processo e senza condanna, come è accaduto con gl’islamici a Guantánamo. Lì qualche centinaio, terroristi per definizione, perché musulmani; da noi centinaia di migliaia, briganti per definizione, perché meridionali. E, se bambini, briganti precoci; se donne, brigantesse o mogli, figlie, di briganti; o consanguinei di briganti (sino al terzo grado di parentela); o persino solo paesani o sospetti tali. Tutto a norma di legge, si capisce, come in Sudafrica, con l’apartheid.Io credevo che i briganti fossero proprio briganti, non anche ex soldati borbonici e patrioti alla guerriglia per difendere il proprio paese invaso.Non sapevo che il paesaggio del Sud divenne come quello del Kosovo, con fucilazioni in massa, fosse comuni, paesi che bruciavano sulle colline e colonne di decine di migliaiadi profughi in marcia.Non volevo credere che i primi campi di concentramento e sterminio in Europa li istituirono gli italiani del Nord, per tormentare e farvi morire gli italiani del Sud, a migliaia,forse decine di migliaia (non si sa, perché li squagliavano nella calce), come nell’Unione Sovietica di Stalin. Ignoravo che il ministero degli Esteri dell’Italia unita cercò per anni «una landa desolata», fra Patagonia, Borneo e altri sperduti lidi, per deportarvi i meridionali e annientarli lontano da occhi indiscreti.Né sapevo che i fratelli d’Italia arrivati dal Nord svuotarono le ricche banche meridionali, regge, musei, case private (rubando persino le posate), per pagare i debiti del Piemonte e costituire immensi patrimoni privati.E mai avrei immaginato che i Mille fossero quasi tutti avanzi di galera.Non sapevo che, a Italia così unificata, imposero una tassa aggiuntiva ai meridionali, per pagare le spese della guerra di conquista del Sud, fatta senza nemmeno dichiararla.Ignoravo che l’occupazione del Regno delle Due Sicilie fosse stata decisa, progettata, protetta da Inghilterra e Francia, e parzialmente finanziata dalla massoneria (detto da Garibaldi, sino al gran maestro Armando Corona, nel 1988).Né sapevo che il Regno delle Due Sicilie fosse, fino al momento dell’aggressione, uno dei paesi più industrializzati del mondo (terzo, dopo Inghilterra e Francia, prima di essere invaso).E non c’era la “burocrazia borbonica”, intesa quale caotica e inefficiente: lo specialista inviato da Cavour nelle Due Sicilie, per rimettervi ordine, riferì di un «mirabile organismo finanziario» e propose di copiarla, in una relazione che è «una lode sincera e continua». Mentre «il modello che presiede alla nostra amministrazione», dal 1861, «è quello franco-napoleonico, la cui versione sabauda è stata modulata dall’unità in avanti in adesione a una miriade di pressioni localistiche e corporative» (Marco Meriggi, Breve storia dell’Italia settentrionale).Ignoravo che lo stato unitario tassò ferocemente i milioni di disperati meridionali che emigravano in America, per assistere economicamente gli armatori delle navi che li trasportavano e i settentrionali che andavano a “far la stagione”, per qualche mese in Svizzera.Non potevo immaginare che l’Italia unita facesse pagare più tasse a chi stentava e moriva di malaria nelle caverne dei Sassi di Matera, rispetto ai proprietari delle ville sul lago di Como.Avevo già esperienza delle ferrovie peggiori al Sud che al Nord, ma non che, alle soglie del 2000, col resto d’Italia percorso da treni ad alta velocità, il Mezzogiorno avesse quasi mille chilometri di ferrovia in meno che prima della Seconda guerra mondiale (7.958 contro 8.871), quasi sempre ancora a binario unico e con gran parte della rete non elettrificata.Come potevo immaginare che stessimo così male, nell’inferno dei Borbone, che per obbligarci a entrare nel paradiso portatoci dai piemontesi ci vollero orribili rappresaglie, stragi, una dozzina di anni di combattimenti, leggi speciali, stati d’assedio, lager? E che, quando riuscirono a farci smettere di preferire la morte al loro paradiso, scegliemmo piuttosto di emigrare a milioni (e non era mai successo)? Ignoravo che avrei dovuto studiare il francese, per apprendere di essere italiano: «Le Royaume d’Italie est aujourd’hui un fait» annunciò Cavour al Senato. «Le Roi notre auguste Souverain prend pour lui-même et pour ses successeurs le titre de Roi d’Italie.»Credevo al Giosue Carducci delle Letture del Risorgimento italiano: «Né mai unità di nazione fu fatta per aspirazione di più grandi e pure intelligenze, né con sacrifici di più nobili e sante anime, né con maggior libero consentimento di tutte le parti sane del popolo». Affermazione riportata in apertura del libro (Il Risorgimento italiano) distribuito gratuitamente dai Centri di Lettura e Informazione a cura del ministero della Pubblica Istruzione Direzione Generale per l’Educazione Popolare, dal 1964. Il curatore, Alberto M. Ghisalberti, avverte che, «a un secolo di distanza (…), la revisione critica operata dagli storici possa suggerire interpretazioni diversamente meditate (…) della più complessa realtà del “libero consentimento” al quale si riferisce il poeta». Chi sa, capisce; chi non sa, continua a non capire.Scoprirò poi che Carducci, privatamente, scriveva: «A Lei pare una bella cosa questa Italia?»; tanto che, per lui, evitare di parlarne «può anche essere opera di carità». (Storia d’Italia, Einaudi).Io avevo sempre creduto ai libri di storia, alla leggenda di Garibaldi.Non sapevo nemmeno di essere meridionale, nel senso che non avevo mai attribuito alcun valore, positivo o negativo, al fatto di essere nato più a Sud o più a Nord di un altro.Mi ritenevo solo fortunato a essere nato italiano. E fra gl’italiani più fortunati, perché vivevo sul mare. A mano a mano che scoprivo queste cose, ne parlavo. Io stupito; gli ascoltatori increduli. Poi, io furioso; gli ascoltatori seccati: esagerazioni, invenzioni e, se vere, cose vecchie. E mi accorsi che diventavo meridionale, perché, stupidamente, maturavo orgoglio per la geografia di cui, altrettanto stupidamente, Bossi e complici volevano che mi vergognassi.Loro che usano “italiano” come un insulto e abitano la parte della penisola che fu denominata “Italia”, quando Roma riorganizzò l’impero (quella meridionale venne chiamata “Apulia”, dal nome della mia regione. Ma la prima “Italia” della storia fu un pezzo di Calabria sul Tirreno).Si è scritto tanto sul Sud, ma non sembra sia servito a molto, perché «ogni battaglia contro pregiudizi universalmente condivisi è una battaglia persa» dice Nicholas Humphrey (Una storia della mente). «Perché non riprendi una delle tante pubblicazioni meridionaliste di venti, trent’anni fa, e la ristampi tale e quale? Chi si accorgerebbe che del tempo è passato, inutilmente?» suggeriva ottant’anni fa a Piero Gobetti, Tommaso Fiore che poi, per fortuna, scrisse Un popolo di formiche. E oggi, un economista indomito, Gianfranco Viesti (Abolire il Mezzogiorno), allarga le braccia: «Parlare di Mezzogiorno significa parlare del già detto, e del già fallito».Perché tale stato di cose è utile alla parte più forte del paese, anche se si presenta con due nomi diversi: “Questione meridionale”, ovvero dell’aspirazione del Sud a uscire dalla subalternità impostagli; e “Questione settentrionale”, di recente conio, ovvero della volontà del Nord di mantenere la subalternità del Sud e il redditizio vantaggio di potere conquistato con le armi e una legislazione squilibrata.Dopo centocinquant’anni, questo sistema rischia di spezzare il paese. Si sa; e si finge di non saperlo, perché troppi sono gl’interessi che se ne nutrono.Così, accade che la verità venga scritta, ma non sia letta; e se letta, non creduta; e se creduta, non presa in considerazione; e se presa in considerazione, non tanto da cambiare i comportamenti, da indurre ad agire “di conseguenza”.I meridionali si lamentano sempre e i carcerati si dicono tutti innocenti. Il paragone non è casuale; nel bel libro Sull’identità meridionale, Mario Alcaro scrive: «Si può dire che è la difesa di un imputato, di un cittadino del Sud che cerca una risposta alle tante critiche e accuse che gli son piovute addosso». Il pregiudizio (pre, “prima”) è una condanna senza processo. Sospetto che la sua persistenza eviti, a chi lo nutre, un’ammissione di colpa. «L’uomo è un animale mosso in modo determinante dalla colpa» rammenta Luigi Zoja in Storia dell’arroganza. «Un sentimento di colpa può essere spostato, non cancellato.» E il Nord aggressore incolpa l’aggredito delle conseguenze dell’aggressione: rimosso il rimorso, se mai c’è stato.Noi meridionali conosciamo bene tutto questo: non ci indigna nemmeno più; ci stanca: «Senti che la gente ti capisce male, che devi parlare più forte, gridare» spiegava Cˇechov. «E le grida sono ripugnanti. Parli a voce sempre più bassa, forse tra poco tacerai del tutto.» Fra le urla dell’altro, ormai privo del freno della vergogna che lo rendeva civile.Oggi, nuovi fermenti animano una ricerca di verità storica, non solo meridionale, che viene dal basso, più che dalle aule universitarie o dalla politica, dalle istituzioni. Non è facile capire dove questo possa portare; se a un revanscismo uguale e opposto al razzismo nordista di Lega e collaterali, o a una comune crescita di consapevolezza e conoscenza:un nuovo meridionalismo non solo meridionale (e sarebbe un ritorno alle origini, perché nacque nordico, specie lombardo), per ridare un’anima decente a un’Italia che l’hasmarrita, nel fallimento della politica e la sua riduzione a furia predatoria di egoismi personali e territoriali. Temo, per il pessimismo della ragione e perché i segni vanno in quelladirezione, che il peggio prevalga, proprio “per” e non “nonostante” i suoi difetti (è la legge diGreg e Galton, che ricordo in Elogio dell’imbecille). Ma, per l’ottimismo della volontà, spero nel contrario (nemmeno il peggio dura per sempre; e anche i peggiori muoiono). Il Nord, visto da Sud, è Caino: da lì vennero quelli che, dicendosi fratelli, compirono al Sud, a scopo di rapina, il massacro più imponente mai subito da queste regioni (e sì che di barbari ne sono passati). I musei del Risorgimento, nota Mario Isnenghi, nella sua Breve storia dell’Italia unita a uso dei perplessi, sono quasi tutti al Centro o al Nord.Il Nord è dove ho lavorato anni e ho amici, ed è casa mia; come il Sud, dove sono nato; o il Centro, dove abito. Gl’italiani vanno al Nord in cerca di soldi; al Sud in cerca dell’anima.All’estero smettono di essere meridionali o settentrionali e diventano solo italiani (indistintamente, nel pregiudizio altrui, geni e farabutti).Il Sud, visto da Nord, è L’inferno, titolo del libro di Giorgio Bocca che nel 2008 ha scritto sul «Venerdì» di «Repubblica», non so quanto provocatoriamente: «Sì, è vero, sono un antimeridionale… Passo per razzista, e forse lo sono».Nessuno vi trovò da ridire: è o no il Sud, nella geografia, anche morale, il luogo del male? Del male senza possibilità di redenzione: ché questo è l’inferno, congrua immagine del «paradiso abitato da diavoli», secondo l’Alexandre Dumas che accompagnò Garibaldi (e a che prezzo!) alla conquista e al saccheggio.Caino, al contrario, è un’espressione più saggia e attenta alla verità, perché Caino non è perso per sempre, a differenza di chi precipita all’inferno: gli viene offerta una possibilità di riscatto, in un’altra terra. Anche se non la coglie.Né pare vogliano farlo, oggi, tanti che ancora godono del vantaggio ereditato da chi venne a sterminarci. Quando scrivo “i settentrionali”, “i piemontesi”, non intendo generalizzare (come avviene quando si parla di “meridionali”).Alcuni dei più grandi meridionalisti erano del Nord; e gli ascari che in Parlamento votano (dal 1861) contro l’equità per le regioni che li hanno eletti, sono meridionali.Il Sud è stato privato delle sue istituzioni; fu privato delle sue industrie, della sua ricchezza, della capacità di reagire; della sua gente (con una emigrazione indotta o forzata senza pari in Europa); infine, con un’operazione di lobotomia culturale, fu privato della consapevolezza di sé, della memoria.Noi non sappiamo più chi fummo. Ed è accaduto come agli ebrei travolti dall’Olocausto (il paragone non è esagerato: centinaia di migliaia, forse un milione di meridionali furono sterminati dalle truppe sabaude; da tredici a oltre venti milioni, secondo i conteggi, dovettero abbandonare la loro terra, in un secolo): molti scampati ai lager cominciarono a domandarsi se il male che li aveva investiti non fosse in qualche modo meritato. Quando il danno è intollerabile, cercare una colpa, pur assurda, inesistente, che lo renda comprensibile (non giustificabile), diventa una via per non perdere la ragione. Lo storico Ettore Ciccotti parlò di «una specie di antisemitismo italiano» nei confronti degl’italiani del Sud. La Lega, espressione di un nazionalismo locale comico, se non fosse tragico, ne è la manifestazione più sincera.Ed è accaduto che i meridionali abbiano fatto propri i pregiudizi di cui erano oggetto. E che, per un processo d’inversione della colpa, la vittima si sia addossata quella del carnefice. Succede quando il dolore della colpa che ci si attribuisce è più tollerabile del male subìto.Così, la resistenza all’invasore, agli stupri, alla perdita dei beni, della vita, dell’identità, del proprio paese, è divenuta “vergogna”. Solo ora, dopo un secolo e mezzo, le famiglie meridionali che ebbero guerriglieri e patrioti combattenti cominciano a recuperare l’orgoglio dei propri avi, tutti etichettati come “briganti” dall’aggressore (naturalmente, il fenomeno porta all’immeritato riscatto morale pure di chi era brigante e basta. Di malfattori ce ne furono altri: mafiosi arruolati da Garibaldi e piemontesi; ma vennero detti “buoni italiani”. Criminale non è quel che fai, ma per chi lo fai).Un giorno calcolai quanti miei familiari, da parte di padre e di madre, sono emigrati (i pugliesi furono gli ultimi a partire): uno ogni due. Una mia cugina, dopo sei mesi al Nord, tornò per le ferie estive (come alcuni volatili, il periodico riapparire degli emigrati annuncia le stagioni: li chiamavano birds of passage, “uccelli di passaggio”, nell’America del Nord; e golondrinas, “rondini”, in quella del Sud). Era cambiata: vestiva in modo più appariscente, esibiva un accento non suo, roteava stizzosamente le spalle, il mento puntuto e alto. Parlava malissimo dei meridionali, con astio rovente e ridicolo.«Ma cosa fanno di così terribile?» le chiese mia madre, incuriosita.Lei tacque per lo stupore, si guardò intorno, come a cercare una risposta. Era sorpresa, o ci parve, dalla stupidità della domanda: c’era bisogno di una ragione per parlar male dei meridionali? Così, poverina, se ne uscì con una frase, lei settentrionale da sei mesi, che la bollò per sempre, in famiglia: «Sporcano i monumenti».Come i piccioni; ma, per fortuna, non dall’alto.Cosa le fosse accaduto, lo capii molto più tardi. Uno dei miei migliori amici fu tra i primi arrivati della Lega Nord: abbiamo scoperto di avere la stessa passione per la vela, di aver acquistato (prima che ci conoscessimo) le stesse barche, di avere una moglie con lo stesso, non comunissimo nome, e di averla sposata lo stesso giorno.Il mio amico si chiama (nooo!) Remo, i suoi nonni sono di Benevento e di Matera; lui è vissuto a lungo in Argentina, poi è rientrato in Italia. Sua moglie è veneta, emigrata dal Polesine in Francia (l’isola di famiglia, alla foce del Po, finì sommersa, con fattorie e frutteti: da possidenti a naufraghi); poi è tornata in patria, fra Piemonte e Lombardia. Leghisti accesi entrambi, fino a quando il movimento non assunse connotazioni separatiste. «La Lega è piena di meridionali e di figli di meridionali» mi spiegava Remo.«Sono i più convinti.» Anche quella mia cugina è leghista. Perché? Chi emigra, abbandona una comunità e una terra che figurano deboli e perdenti e mira a radicarsi in un altrove che appare forte e vincente: l’emigrato non appartiene più alla sua gente, e non ancora all’altra (così crede). In cerca di identità, non può che scegliere, lui sradicato e sospeso, la più forte. E questa sua nuova appartenenza è tanto più certa, quanto maggiore è la distanza che frappone fra ciò che era e ciò che vuole essere (in La lingua degli emigrati, si legge che essi «rivivono nel paese di arrivo la loro situazione di “dominati” in termini ancor più drammatici»; e vogliono uscirne. Si educano ad altro da quel che sono.Quando il carnefice ti toglie tutto, l’unico punto di riferimento che ti rimane è il carnefice. Lo imiti). Il settentrionale non ha bisogno di essere leghista; il meridionale al Nord non può farne a meno, se di scarsa radice. Ed è il più attivo nel sostenere un’esclusione che non escluda più lui, ma chi è come lui era. I prossimi leghisti saranno i nipoti degli extracomunitari. «Ma dubito» avverte Piero Bocchiaro studioso di comportamenti psico-sociali alla Vrije Universiteit di Amsterdam, «che quel che viene mostrato corrisponda a quel che si è.» Come dire: quello dell’emigrato che sposa nuovi costumi è un fare che non corrisponde all’essere; un vivere doppio; non sempre consapevole.Serve rivangare vecchie storie? Non sono così vecchie da aver smesso di far male e produrre conseguenze: la storia di oggi è ancora quella di ieri. La nostra fu interrotta e si può riannodarla solo nel punto in cui venne spezzata. Non si può scegliere la ripartenza che più conviene.Quel che gli italiani venuti dal Nord ci fecero fu così spaventoso, che ancora oggi lo si tace nei libri di storia e nelle verità ufficiali; si tengono al buio molti documenti che lo raccontano. Una parte dell’Italia, in pieno sviluppo, fu condannata a regredire e depredata dall’altra, che con il bottino finanziò la propria crescita e prese un vantaggio, poi difeso con ogni mezzo, incluse le leggi.La questione meridionale, il ritardo del Sud rispetto al Nord, non resiste “malgrado” la nascita dell’Italia unita, ma sorse da quella e dura tuttora, perché è il motore dell’economia del Nord. Né una sostanziale e improbabile restituzione del maltolto riporterebbe le cose com’erano: perdita di fiducia e civiltà provocata nel Sud dalla potatura dei migliori, con le stragi e l’emigrazione, non è recuperabile in tempi brevi. Certi processi storici e sociali non possono essere invertiti a comando; quello economico forse, sì. Volendo.Ma non si vuole. E i difetti dei meridionali, ne vogliamo parlare? No. Almeno qui, no, visto che del Sud si elencano sempre e solo quelli. Il collega Lino Patruno (Alla riscossa terroni) ne enumera trentadue; ha ragione e credo si possa arrivare a sessantaquattro. Lo scopo di Patruno è onesto: indurre i meridionali alla responsabilità. Ma comincio a temere che su questo si sia tutti d’accordo; mentre i settentrionali si ritengano esentati dal fare altrettanto. Così ho stabilito una personale moratoria: centocinquant’anni bastano;per i prossimi diciannove mesi, anzi ventuno, voglio sentire parlare solo dei difetti dei settentrionali. Perché ogni pecca del Mezzogiorno deve giustificarne la discriminazione, la minorità, e ogni pretesa del Nord, persino sfacciatamente razzista, è intesa come diritto? Perché ogni volta che si parla dell’Italia duale si ignora il meglio del Sud e il peggio del Nord? E dire il meglio del Sud risulta non credibile, dire il peggio del Nord è un affronto? «La memoria è di parte, come parziale è lo sguardo su cui si fonda» rammenta Walter Barberis (Il bisogno di patria). «Ma la truffa Parmalat vale, da sola, più che tutte quelle di Napoli, di tutti i tempi, messe insieme» dice il sindaco che rinnovò Bari, Michele Emiliano. E passano come incidenti di percorso le truffe-latte difese dalla Lega, quelle colossali della sanità lombarda, dai Poggi Longostrevi alle cliniche della morte, gli sfrenati intrecci affaristici di Comunione e Liberazione…«La corruttela politica nostra non è male meridionale più che non sia settentrionale, e non è in essa che si deve cercare il vero carattere distintivo delle opposte parti d’Italia» (Ettore Ciccotti, Mezzogiorno e Settentrione d’Italia, 1898).La Germania Ovest, già nei primi anni di riunificazione con la più povera Germania Est, spese, nei territori orien-tali, «una cifra cinque volte superiore a quella che è costata in questi cinquant’anni la vituperata Cassa per il Mezzogiorno » (Se il Nord, Agazio Loiero); e ogni anno vi investe quanto gli Stati Uniti, con il Piano Marshall, inviarono dopo la guerra, per la ricostruzione dell’intera Europa. Era l’unico modo per far confluire la ricchezza dell’Ovest dall’altra parte, sino a pareggiare il livello, in vent’anni. Lì si volle; e il di più dell’Ovest non era stato rubato all’Est.Quando una differenza dura così a lungo, si rischia di non attribuirne più le ragioni alle cause che l’hanno generata e la mantengono, ma all’insufficienza di chi la patisce.Così, l’ignorante per ignoranza, il colto per cattiva coscienza, il razzista per ignoranza e cattiva coscienza, trovano più comodo spiegare il sottosviluppo economico dei neri con l’inferiorità della “razza”. Lo si diceva dei lombardi, quando la loro regione era tenuta dagli austroungarici solo come area di consumo di beni prodotti altrove. Il Nord era nella condizione di colonia cui fu condannato il Sud dopo l’annessione e il saccheggio: è quel «che l’economia capitalistica fa a’ vinti nella lotta della concorrenza» (ancora Ciccotti).Anche allora si indagò sugli effetti, per non riconoscerne le cause. E si cercò di capire perché il lombardo fosse così incapace, inefficiente, «in una parola, nullo», secondo la sociologa Cristina Belgioioso, autrice dell’indagine sulla pochezza dei «padani» (fra i quali, Cesare Lombroso condusse la ricerca sul «cretinismo perfetto»): i Bossi, i Calderoli e i Gentilini non nascono dal niente. I “Lombardi”, come venivano chiamati tutti gli italiani del Nord, eranogiudicati dai francesi “vigliacchi e incapaci”.La Lombardia «era troppo piccola per alimentare un sufficiente mercato interno di scambio, e troppo debole per praticare una politica di espansione industriale fuori dei suoi confini, qualunque fosse l’aiuto dello stato» scrive Luigi De Rosa, in La rivoluzione industriale in Italia. «Non molto migliori risultavano le condizioni industriali del Veneto, e così quelle della Liguria.»Il Sud fu unito a forza, svuotato dei suoi beni e soggiogato, per consentire lo sviluppo del Nord. Cominciarono allora a sorgere fermenti federalisti lombardi: «Quelli che parlano di uno “stato di Milano”, per contrapporlo al resto d’Italia» avvertiva Ciccotti, fanno l’errore di credere «che Milano sarebbe divenuta qual è senza l’unità d’Italia»; e «hanno bisogno di dissimularsi le vere cagioni del male, per vivere de’ frutti del mal di tutti, facendo della diversa lingua o del diverso dialetto e delle diverse latitudini tante ragioni di dissidi». Vivere de’ frutti del mal di tutti: fare stare tutti peggio, per star meglio soltanto loro, con la scusa delfederalismo.Si chiama rubare. Ed era un secolo fa. Rammento la conversazione con un collega che stimo, milanese pratico e di successo. Il tema, visto da Nord (lui), si riduceva a: «Invece di lamentarsi sempre, i meridionali potrebbero darsi una mossa»; e visto da Sud (me): «Invecedi continuare a spiegarsi il ritardo del Sud con l’insufficienza dei meridionali, il Nord potrebbe interrogarsi un po’ di più sulle cause e non crearne di nuove».Mark Twain diceva che «siamo tutti esseri umani. Non è possibile essere qualcosa di peggio». Da noi, qualche tentativo di dargli torto c’è stato. Salimbene da Parma, ricorda Barberis (Il bisogno di patria), stimava la viltà dei meridionali congenita, perché «homines caccarelli et merdacoli».E per uno dei fondatori del Partito socialista, il bolognese Camillo Prampolini, gli italiani si dividono in «nordici e sudici ». Uno “scienziato”, poi, confermerà la correttezza della definizione, per «questi degenerati che abborrono l’acqua in terra e in mare, che non possono giustificare la loro immensa sporcizia colla immensa miseria in cui il destino li ha fatti nascere». E si capisce che, fosse stato lui il destino, non li avrebbe fatti nascere.Ma il destino non si cambia e persino lo si merita (o no?).Sorge il sospetto che, dopo aver fatto l’Italia con il furto e il sangue, bisognava giustificare il modo. «In quegli anni» leggi in La razza maledetta. Alle origini del pregiudizio antimeridionale, di Vito Teti «il dibattito sulla razza e sull’inferiorità del Mezzogiorno venne condotto in una infinità di saggi, libri, articoli, interventi, a riprova di come esso no rispondesse a una moda, ma a esigenze conoscitive, cariche di un’urgenza politica, sociale, culturale.» La “scienza” lombrosiana (nata da un soggiorno del suo fondatore di soli tre mesi in Calabria: un genio da far impallidire Darwin) avrebbe portato alle attese conclusioni.Così (in ritardo, ché mio padre non mi aveva detto niente: o non se n’era accorto o volle risparmiarmi una vergogna di famiglia), appresi di appartenere a una “razza maledetta”; e seppi che era dimostrata, con «i fatti», l’inferiorità «razziale, fisica e psicologica, sociale e morale degl’italiani del Mezzogiorno, rispetto agli italiani del Settentrione».Facevo veramente schifo e mi era toccato scoprirlo da solo: era meglio quando, con i soldi di tutti, aprivano scuole solo al Nord (l’ha fatto qualcun altro, prima dell’apparente ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini), perché, se i terroni imparano a leggere, possono farsi del male. Che ne sapevo io, di essere, in quanto meridionale, parte di una sottospecie di «degenerati, barbari, degradati, ritardati»?E, in trasferta all’estero, per emigrazione (e che altro, se del Sud?), solo «delinquenti»? Persino in presenza di genio, trattasi di «genialità malata o infeconda» (Pasquale Rossi).E un’intera regione, la Calabria, riassunto di tutto il Sud, poteva essere indicata come «luogo di epilettici-degenerati, di popolazioni superstiziose, tendenzialmente, per caratteri razziali e temperamento etnico, criminali». Come vi sentireste, voi, voi euganei, valdostani o brianzoli, o anche solo marchigiani, persino soltanto molisani, se scopriste una cosa del genere non prima, ma dopo aver sposato una calabrese (ignari di indizi rivelatori, quali «la fronte declive e il diametro bimandibolare accentuato»)? Mettermi in casa una della regione «più odiata d’Italia»! E la poveretta di mia moglie mi avrebbe evitato, se avesse conosciuto lo “studio” che “certificava” (“scientificamente”, e si capisce) l’ozio, l’indolenza, l’apatia, l’accidia dei pugliesi? Per una parte non breve della mia vita, mi sono aggirato per questo paese, inconsapevole della classificazione craniologica, secondo la quale le teste dolicocefale del Sud erano chiaro indice di inferiorità, rispetto alle capocce brachicefale che testimoniavano la superiorità dei settentrionali. Di Borghezio, avete presente? O Renzo Bossi (tutto papà suo), l’intellettuale che riesce a diplomarsi in appena quattro tentativi; dopo di che, per frenare la fuga dei cervelli dall’Italia il Nord l’ha incaricato di “vigilare” sul sistema fieristico lombardo.I meridionali, per Massimo D’Azeglio, erano «carne che puzzava» (la storia tace sul suo alito). Ma si è sempre i meridionali di qualcuno. Ed è un guaio, perché vuol dire che chi stila graduatorie finisce in quelle di altri. E perché si fanno le classifiche, a cosa servono?A degli studenti-cavia, volontari, si chiese di sopprimere, pigiando un bottone, esseri viventi, secondo una scala di prossimità biologica alla specie homo sapiens sapiens. Era tutto finto: non moriva nessuno; ma loro non lo sapevano ed erano convinti di uccidere, in un crescendo omicida, microbi, insetti, invertebrati, pesci, uccelli, serpenti, topi, gatti, cani, scimmie… Alcuni si fermarono agli uccelli; altri trovarono intollerabile accoppare gatti o cani, solo per un esperimento; ci fu chi rifiutò di proseguire solo quando gli fu chiesto di eliminare le scimmie; e chi eseguì anche quel comando. Un esperimento analogo fu compiuto con esseri umani nel ruolo di “vittime”. A studenti-cavie fu chiesto di infliggere scariche elettriche sempre più pericolose. Erano fasulle, ma non lo sapeva chi azionò la manopola sino all’ultimo giro. La scienza, il progresso, la civiltà richiedono qualche sacrificio, e si trova sempre qualcuno disposto a farlo fare ad altri.Anche fra gli esseri umani sono state fatte graduatorie: schiavi, servitori e padroni; poveri e ricchi; negri, sangue-misti e bianchi; meridionali, terroni nordicizzati e settentrionali…Di nuovo: a cosa servono le classificazioni? Gli studenticavia ci hanno dato la risposta: a stabilire chi deve soffrire o morire prima, “per il bene di tutti” (cioè di quelli che hanno deciso a chi tocca prima). Le classifiche sono la giustificazione necessaria, perché questo avvenga senza rimorso, “per una buona ragione”. Napoleone Colajanni ricordava quegli «antroposociologici che, per vedere progredire e migliorare l’umanità, vorrebbero distruggerne almeno una buona metà».Hitler ci provò. Ma quando avviò lo sterminio dei minorati mentali, la Germania insorse e persino la ferocia nazista dovette desistere per le proteste popolari. Le vittime designate erano minorati, ma ariani. Quando si fece la stessa cosa con gli ebrei e gli zingari, la Germania tacque.Nella civile Treviso, un sindaco può proporre vagoni blindati per espellere gli extracomunitari, il loro uso come prede per i cacciatori locali, la rimozione delle panchine dal centro, per impedire che siano contaminate da terga extracomunitarie.E viene rieletto. Ma quando chiude lo stesso salotto cittadino ai cani domestici (e alle loro deiezioni), la popolazione scende in piazza e protesta. Nella scala delle dignità difendibili (o almeno delle sensibilità civili), Treviso pone i cani (e persino le loro feci, a doverla dire tutta)più in alto degli extracomunitari. Non è un’opinione; è un fatto: per Fido si sentirono offesi; per Abdul, non abbastanza.Le classificazioni sono gradini, indicano la direzione della violenza che le genera: dall’alto in basso. La quantità di violenza è proporzionale alla tenuta delle norme del vivere civile. Se queste si indeboliscono, abbiamo visto con quanta facilità si passi dalle sparate comico-razziste dell’intellighenzia balcanica (poco o per niente dissimili da quelle dei Bossi, dei Salvini, dei Calderoli, dei Gentilini) alla pulizia etnica. Il mio saggio amico Fulvio Molinari, giornalista e scrittore, ne ha paura: «Noi triestini l’abbiamo visto succedere alle porte di casa: chi abusa delle parole viene travolto dai fatti. Non si rendono conto». E pensate se, invece, se ne rendono pure conto… Trieste queste cose le percepisce prima e meglio degli altri, per la sensibilità della frontiera.Paolo Rumiz si è mosso da lì per il suo viaggio fra le inquietudini del Nord; e, in La secessione leggera, riporta le parole di un suo amico di Sarajevo: «Non è stato il fracasso deicannoni a uccidere la Iugoslavia. È stato il silenzio. Il silenzio sul linguaggio della violenza, prima che sulla violenza».Le scritte «Forza Etna», «Forza terremoto» comparse nel Nord (e il cui ricordo commuove e inorgoglisce i leghisti della prima ora, con la memoria degli eroici inizi) celano, sotto un’apparente esagerazione dialettica, un desiderio vero, profondo. Un desiderio criminale: a gente a cui il vulcano distruggeva case, aziende o a cui il terremoto uccideva i familiari, qualcuno augurava di peggio; e per questo otteneva voti, consenso sociale. Vergogna per loro; e per chi consentiva e consente.Quella violenza è solo verbale, ma va nel senso della classificazione, perché quando il Po uscì dagli argini, distrusse case, fece vittime o quando l’ictus paralizzò Bossi, nessuno al Sud scrisse sui viadotti dell’autostrada: «Forza Po» e «Forza ictus». La differenza fra le scritte leghiste e l’assenza di risposta può essere in qualche millennio di storia in più (magari!), o nell’accettazione del ruolo dei vinti (più probabile).L’aggressione leghista ha indotto molti a sentirsi meridionali, a riscoprire la propria storia; che i settentrionali preferiscono ignorare, un po’ perché credono di aver già capito quel che c’è da capire; un po’ perché non gl’interessa sapere del Sud, che associano a un’idea di cultura inutilmente contorta, elaborata, improduttiva, perdente e pretenziosa (insomma, un misto di invidiuzza e disprezzo per quegl’«intellettuali della Magna Grecia» che sanno un sacco di cose che non servono a niente); un po’ perché, nella ricerca di radici diverse e distanti, piuttosto che coltivare la ricchezza delle proprie, si trastullano con la patacca della “cultura celtica”. Comprensibile la “voglia di passato”, ma perché forzarne un aspetto per adattarlo a un desiderio del presente? Si rischia la caricatura, come il kilt, il gonnellino degli scozzesi, che è un’invenzione folcloristica recente; o il «sole delle Alpi», quel fiore a sei petali, scelto dai leghisti quale loro simbolo, ma diffuso da sempre un po’ ovunque, e abbondantemente nel Mediterraneo: era già sugli scudi dei guerrieri di Puglia (però zona-Nord, eh?), più di tremila anni fa. Sciur Asterix de la Briansa, quello è il sole del Tavoliere! Ch’el vaga schisc anca (Ci vada piano pure) con l’avo barbarico: al Nord lasciò il nome a una regione, mentre al Sud i suoi stati e le sue leggi nei tribunali sopravvissero ancora per quasi tre secoli, e con tale forza ed estensione (parte della Campania, della Basilicata, della Puglia e della Calabria) che, nelle mappe dell’epoca, la “capitale di Longobardia” era Bari. Terun! Ma questo libro parla della costruzione della minorità del Mezzogiorno, così, tanto vale dirlo subito: il pur più duraturo stato meridionale di quei barbari che vennero a civilizzarsi in casa nostra passò alla storia con il nome di “Langobardia Minor” (e te pareva!).«Quando non si vuol fare qualcosa per capirla,» ha scritto Marco Paolini «si trasforma la storia in geografia.» E accettiamo che, contro il valore dei fatti, la geografia divenga comunque vincente, se segna Nord e comunque perdente, se segna Sud? E che la latitudine misuri il valore degli uomini, delle loro azioni, dei loro diritti? Ma non è esattamente questa l’essenza unica, piena, del razzismo? Non è nella facilità di tale promessa il suo successo con gli stupidi e gli egoisti?«Le identità plurali sono percepite dai nazionalismi come altrettante minacce» scrive Predrag Matvejevic´ in Mondo ex e tempo del dopo. E spiega che è proprio nelle «nazioni venute tardi», come l’Italia, che «queste malattie di identità» colpiscono più facilmente. Il Settentrione ne patisce, perché scellerate scelte politiche ed economiche hanno (de)portato al Nord alcuni milioni di meridionali, con i loro dialetti, le loro diete, le loro abitudini. Per quanto essi abbiano cercato di assimilare nuovi accenti e costumi, i propri hanno influito su quelli altrui; sapori e amori si sono fusi, generando un meticciato avvertito come minaccia per l’identità del Nord. La Lega, l’invenzione di riti celtico-padano-veneti sono furbate politiche per trasformare in voti il bisogno di riscoprire radici e armarle di razzismo («Decidemmo di sfruttare l’antimeridionalismo diffuso in Lombardia, come in altre regioni del Nord» ammette lo spudorato Umberto Bossi nel Mein Kampf della Lega, il suo Vento dal Nord).E ne patisce il Sud, che ha meglio conservato il colore delle radici (indebolite dall’esodo, ma non stemperate da tradizioni diverse), pur se nei comportamenti è stato indotto a rinnegarle, a ritenerle superate, scadenti, sconfitte. Come per gli ebrei convertiti a forza, gli è toccato sentire in un modo e agire in un altro. Finché, col tempo e le generazioni, quel sentire si è fatto flebile; salvo riaccendersi, per l’offesa, e proporsi “contro”.La tardiva scoperta di essere meridionale mi ha rivelato un assurdo: i meridionali traggono il nome da quel che gli manca: il Sud. E pure quando la geografia gliene offriva uno (le infelici avventure contadine dei siciliani in Libia, in Tunisia), la storia glielo ha negato. Il mondo dei meridionali ha una direzione in meno: più giù di dove sono non si può andare, restando “a casa”. Il Sud porta con sé un’idea di gioia e di nostalgia; se la prima è data dal clima, dalla natura, l’altra (come accade, a volte, dopo un’amputazione) viene dal dolore dell’arto fantasma: fa male quello che non c’è. Il Sud. Ed è una negazione pesante.L’estremo lembo di alcune regioni, che il sentimento proprioe altrui percepisce “al confine del mondo”, è chiamato, in Galizia come in Cornovaglia o in Bretagna: Finisterrae. In Italia un posto così è in Puglia, a Santa Maria di Leuca: lì il mare si alza come un muro, a chiudere il discorso. La Puglia è un dito di terra lungo quasi quattrocento chilometri, ma largo poco più di trenta, verso Leuca. Significa che non solo ci manca il Sud (Finisterrae), ma altre due direzioni, l’Est e l’Ovest, sono appena abbozzate. Si intuisce altro, da qui, a cui non pensi se hai intorno un orizzonte completo e percorribile. Può trattarsi della direzione negata della vita.Un settentrionale può volgere gli occhi e cercarsi il futuro in ogni parte. Un meridionale, no: è costretto a guardare solo verso Nord: dalla storia, dall’economia figlia di quella storia, e persino dalla geografia. In realtà, nemmeno il settentrionale ha davvero scelta; se rinuncia al Sud, come quattro scriteriati vorrebbero, cade nella nostra condizione (ma in modo artificioso, falso, quindi sterile): quella degli amputati. Mentre a noi tocca un arto fantasma che ti rende fertile (perché non è la tua volontà a privartene), a prezzo di un dolore necessario: chi non raggiunge e comprende Finisterrae (la parte che manca) non sa il suo limite, non sa quel che vale. E si vede.

tratto da: http://www.facebook.com/group.php?gid=110431645636156&ref=mf#!/photo.php?pid=30702446&id=1179308096&comments&alert

Per gentile concessione.

La verità che riaffiora dall’oceano del mito.



After the Reich: The Brutal History of the Allied Occupation

di Giles MacDonogh, edito da Basic Books nel 2007, ristampato nel febbraio 2009, pagine 656, lingua inglese, ISBN: 978-0465003389
Recensione pubblicata nel numero di Primavera 2009 dal “The Journal of Social, Political and Economic Studies”, pagine 95-110.
L’indomani della “Guerra buona”: una revisione. La verità che riaffiora dall’oceano del mito. (1)
di Dwight D. Murphey, già docente di diritto commerciale alla Wichita State University dal 1967 al 2003 (2)
Chi narra con onestà gli eventi umani, odierni o remoti, appartiene ad una stipe tanto rara quanto onorabile. Dovremmo senz’altro elevarli nel pantheon degli dei terreni. Allo stesso modo, indubbiamente, vi dovremmo annoverare anche coloro che, non già per disaffezione verso l’Occidente o gli Stati Uniti o il suo popolo, bensì per sete di verità, portano alla luce gli spaventosi avvenimenti che furono conseguenza della Seconda Guerra mondiale (così come le enormità commesse come parte del modo in cui la guerra fu combattuta contro le popolazioni civili, sebbene questo non sia argomento che vogliamo investigare in questa sede). Quella Guerra gli americani la conoscono come “the good war” (3) e coloro che la combatterono sono noti come “the greatest generation” (4). Ma adesso, lentamente, veniamo colpiti da realtà così banali rispetto alla complessa esistenza umana: tanto vi fu che non era affatto “buono” e, insieme all’abnegazione ed agli intenti elevati, ci furono molta venalità e brutalità. Queste realtà vengono a galla perché esistono degli studiosi che, quantomeno, sono consapevoli che un oceano di propaganda bellica genera un mito che resta per vari decenni, e che hanno una dedizione per la verità che travolge le molte lusinghe di conformità al mito. Questo articolo inizia come una semplice recensione del libro di Giles MacDonogh(5), libro che appartiene per larga parte al genere di trasgressione al mito che ho appena elogiato. Tuttavia, poiché esiste materiale supplementare di grande valore di cui non posso non far parola, l’ho ampliato per comprendervi altre informazioni ed autori, benché esso rimanga soprattutto una recensione di After the Reich. Quello di MacDonogh è un libro sconcertante, al tempo stesso coraggioso e vile, per lo più (ma non del tutto) meritevole del grande elogio che si deve agli studiosi incorruttibili. Come già abbiamo osservato, il pubblico americano ha pensato a lungo allo sforzo bellico alleato nella Seconda Guerra mondiale come ad una “grande crociata” che opponeva il bene e la giustizia al male nazionalsocialista (6). Perfino dopo tutti questi anni è probabile che l’ultima cosa che il pubblico vuole è di apprendere che, sia gli alleati occidentali, che l’Unione Sovietica commisero enormi e indicibili torti durante la guerra e dopo. Sfida questa riluttanza MacDonogh che racconta la “storia brutale” per esteso. Questa propensione è encomiabile per il coraggio intellettuale che dimostra. Alla luce di ciò sconcerta che, nel momento stesso in cui lo fa, maschera la storia, proseguendo in parte, nella sostanza, nell’insabbiamento di pezzi di storia instaurato dall’incombere della propaganda bellica, per quasi due terzi del secolo. Perciò il grande valore del suo libro non è da ricercare nella sua completezza o nella rigorosa imparzialità, bensì nel fatto che fornisce una sorta di passaggio – quasi esauriente – che può avviare dei lettori scrupolosi verso una ulteriore ricerca su un argomento d’immensa importanza. Per questo articolo, sarà intanto significativo iniziare riassumendo la storia narrata da MacDonogh, aggiungendoci parecchio. Soltanto dopo averlo fatto esamineremo quanto MacDonogh occulta. Tutto ciò ci condurrà quindi ad alcune riflessioni conclusive. Nella sua prefazione, MacDonogh dichiara che il suo proposito è di “mostrare come gli alleati vittoriosi trattarono il nemico al momento della pace, in quanto nella maggior parte dei casi non si trattò di criminali che furono stuprati, affamati, torturati o bastonati a morte ma di donne, bambini e vecchi”. Sebbene ciò lasci intendere che il tono del libro è sdegnato, la narrazione è nel complesso informativa piuttosto che polemica. La produzione accademica di MacDonogh comprende vari libri di storia tedesca e francese e delle biografie (oltre a quattro testi sul vino). (7)
Le espulsioni (oggi definite “pulizia etnica”).
MacDonogh ci racconta che, al termine della guerra “sedici milioni e mezzo di tedeschi furono cacciati dalle proprie case”. Nove milioni e trecentomila vennero espulsi dalla parte orientale della Germania, diventata Polonia. (Sia il confine orientale che quello occidentale della Polonia furono drasticamente spostati verso ovest per accordo fra gli alleati, con la Polonia che si prendeva una fetta importante della Germania e l’Unione Sovietica che afferrava la Polonia orientale). Gli altri sette milioni e duecentomila furono strappati dalle proprie terre ancestrali dell’Europa Centrale dove vivevano da generazioni. Questa espulsione di massa fu stabilita nell’accordo di Potsdam di metà 1945(8), anche se tale accordo prevedeva esplicitamente che la pulizia etnica avesse luogo “nel modo più umano possibile”. Churchill fu fra quelli che lo sostennero, in quanto avrebbe condotto “ad una pace durevole”. In realtà, questa operazione fu talmente inumana da equivalere ad una delle più grandi atrocità della storia. MacDonogh riferisce che “circa due milioni e duecentocinquantamila persone sarebbero morte durante le espulsioni”. Questa è la stima minima, in un intervallo che va da due milioni e centomila a sei milioni, se prendiamo in considerazione soltanto gli espulsi. Konrad Adenauer, troppo amico dell’occidente, riuscì a dire che fra gli espulsi “sono morti, spacciati, sei milioni di tedeschi”.(9) Vedremo il racconto di MacDonogh della fame e dell’esposizione al freddo estremo cui fu soggetta la popolazione della Germania nel dopoguerra, ed a questo punto vale la pena di menzionare (anche se va al di là dell’argomento espulsioni) ciò che dice lo storico James Bacque (10): “il confronto fra i censimenti ci rivela che fra l’ottobre del 1946 [un anno e mezzo dopo la fine della guerra] e il settembre del 1950 sono scomparse in Germania circa 5 milioni e settecentomila persone”.(11) Ciò che MacDonogh chiama “la più grande tragedia marittima di tutti i tempi” accadde quando la nave Wilhelm Gustloff (12), che trasportava i tedeschi da Danzica nel gennaio del 1945, fu affondata con “oltre 9.000 persone, fra cui molti bambini”. A metà del 1946 “delle foto mostrano alcuni dei 586.000 tedeschi di Boemia pigiati in delle auto come sardine”. In un altro passaggio MacDonogh ci racconta come “i rifugiati erano spesso così ammucchiati da non potersi muovere per defecare e così spuntavano dai veicoli coperti di escrementi. Molti, all’arrivo, erano morti”. [Questo ci richiama alla mente le scene descritte così vivacemente da Solzenicyn nel primo volume di “Arcipelago Gulag” (13)]. In Slesia, “fiumane di civili furono strappati dalle proprie case sotto la minaccia delle armi da fuoco”. Un sacerdote stimò che un quarto della popolazione tedesca di una città della Bassa Slesia si uccise, dato che intere famiglie si suicidarono insieme.
La condizione della popolazione tedesca: fame e freddo estremo.
I tedeschi parlano del 1947 come dell’Hungerjahr, l’ “anno della fame”, ma MacDonogh afferma che “perfino nel 1948 non si era posto rimedio al problema”. La gente mangiò cani, gatti, topi, rane, serpenti, ortica, ghiande, radici dei denti di leone (14) e funghi non ancora maturi in un frenetico tentativo di sopravvivere. Nel 1946 le calorie fornite nella “U.S. Zone” (15) in Germania calarono a 1.313 del 18 marzo dalle già scarse 1.550 precedenti. Victor Gollancz (16), uno scrittore ed editore inglese, ebreo, obiettava “stiamo affamando i tedeschi”.(17) Ciò concorda con la dichiarazione del senatore dell’Indiana Homer Capehart (18) in un discorso al Senato statunitense del 5 febbraio 1946: “Finora, per nove mesi, questa amministrazione ha portato deliberatamente avanti una politica per ridurre le masse alla fame”. (19) MacDonogh ci narra che la Croce Rossa, i Quaccheri, i Mennoniti ed altri volevano far entrare del cibo ma “nell’inverno del 1945 le donazioni furono respinte con la raccomandazione di utilizzarle in altre zone d’Europa straziate dalla guerra”. Nella zona americana (20) di Berlino “la politica statunitense era che nulla dovesse essere distribuito e tutto, al contrario, gettato via. Così le donne tedesche che lavoravano per gli americani erano fantasticamente ben nutrite ma non potevano portar nulla alle proprie famiglie ed ai bambini”. Bacque afferma che “alle agenzie di soccorso straniere fu impedito di inviare cibo dall’estero; i treni coi viveri della Croce Rossa vennero rimandati in Svizzera; a tutti i governi stranieri fu negata l’autorizzazione di mandare alimenti ai civili tedeschi; la produzione di fertilizzanti fu bruscamente ridotta. La flotta da pesca fu tenuta nei porti mentre la gente moriva di fame”. (21) Sotto l’occupazione russa della Prussica orientale, MacDonogh ravvisa “impressionanti analogie” con la “deliberata riduzione alla fame dei kulaki ucraini nei primi anni ‘30” ad opera di Stalin. Come era accaduto in Ucraina “furono riferiti casi di cannibalismo, con la gente che mangiava la carne dei propri figli morti”. La sofferenza per il freddo gelido unita alla fame per creare strazio e un elevato numero di morti. Anche se l’inverno 1945-’46 fu nella norma “la terribile penuria di carbone e di cibo furono sentiti intensamente”. Si abbatterono poi due inverni freddi in maniera anomala , nel 1946-’47 “forse il più freddo a memoria d’uomo” (22) e quello del 1948-’49. Nella sola Berlino si stima siano morte 60.000 persone nei primi dieci mesi dopo la fine della guerra e “l’inverno successivo si calcola ne abbia sterminate altre 12.000”. La gente viveva nelle buche fra le rovine e “alcuni tedeschi –in particolare rifugiati dall’Est- praticamente nudi”. Nel suo libro “Gruesome Harvest: The Allies’ Postwar War Against The German People” (23) Ralph Franklin Keeling menziona una affermazione di un “famoso pastore tedesco”: “Migliaia di corpi sono appesi agli alberi nei boschi intorno a Berlino e nessuno si prende la briga di tirarli giù. Migliaia di corpi li portano nel mare l’Oder e l’Elba, non li si nota nemmeno più. Migliaia e migliaia muoiono di fame sulle strade. Bambini vagano da soli per le strade”. (24) Alfred-Maurice de Zayas (25), nel suo “The German Expellees: Victims in War and Peace” (26) raccontava come, in Yugoslavia, il maresciallo Tito usasse i campi come centri di sterminio per far morire di fame i tedeschi.(27)
Stupri di massa, cui si deve aggiungere il “sesso spontaneo” ottenuto dalle donne affamate.
Gli stupri furiosi delle truppe d’invasione russe sono, ovviamente, infami. In Austra, nella zona russa, “lo stupro fece parte della vita quotidiana fino al 1947 e molte donne contrassero delle malattie veneree e non ebbero i mezzi per curarsi”. MacDonogh scrive che “stime prudenziali collocano il numero delle donne violentate a Berlino a 20.000”. Quando gli inglesi arrivarono a Berlino, “gli ufficiali, in seguito, rievocavano la violenta emozione provata nel vedere i laghi della prospera zona occidentale pieni di corpi di donne che si erano suicidate dopo esser state violentate”. L’età delle vittime non faceva alcuna differenza: le donne stuprate avevano da 12 a 75 anni. Fra queste, infermiere e suore (alcune violentate anche cinquanta volte). “I russi erano particolarmente crudeli coi nobili, incendiavano le loro ville e violentavano o ammazzavano gli abitanti”. Benché “la maggior parte degli indesiderati figli dei russi venissero abortiti”, MacDonogh scrive che “si stima che da 150.000 a 200.000 ‘neonati russi’ siano comunque sopravvissuti”. I russi violentavano ovunque andassero, tanto che non furono soltanto le tedesche ad essere stuprate, ma anche donne ungheresi, bulgare, ucraine ed anche jugoslave, sebbene quest’ultime fossero dalla stessa parte. Esisteva una linea di condotta ufficiale contro la violenza carnale, ma era, solitamente, a tal punto ignorata che “fu solo nel 1949 che furono realizzate concrete azioni dissuasive nei confronti dei soldati russi”. Fino ad allora “furono incitati da [Ilya] Ehrenburg (28) e da altri propagandisti sovietici che vedevano lo stupro come espressione dell’odio”. Sebbene vi fosse una “incidenza molto estesa di stupri commessi da soldati americani”, esisteva anche una politica militare coercitiva contro di essi, con “diversi soldati americani giustiziati” per questo. I capi d’imputazione per stupro “salirono costantemente” durante gli ultimi mesi di guerra, ma calarono nettamente in seguito. Ciò che invece continuò fu probabilmente quasi peggiore: lo sfruttamento sessuale di donne affamate le quali vendevano “volontariamente” i propri corpi in cambio di cibo. In “Gruesome Harvest”, Keeling cita da un articolo apparso sul Christian Century (29) del 5 dicembre 1945: “Il comandante della Polizia Militare americana ha dichiarato che la violenza carnale non rappresenta un problema per loro in quanto ‘un po’ di cibo, una barretta di cioccolata o un pezzo di sapone rendono inutile lo stupro’ “. (30) Le dimensioni del fenomeno sono dimostrate dalla cifra che MacDonogh fornisce, di “94.000 Besatzungskinder (31) o ‘bambini dell’occupazione’, stimati, [che] nacquero nella zona americana”. Egli scrive che nel 1945-’46 “molte ragazzine ricorsero alla prostituzione per sopravvivere. Ed anche i ragazzi assolsero lo stesso compito per i soldati alleati”. Keeling, scrivendo nel 1947 per la pubblicazione del proprio libro [in tal modo si spiega l’uso del presente nella frase], diceva che c’era “una impennata di malattie veneree tale da raggiungere proporzioni epidemiche” e proseguiva scrivendo che “una larga parte dell’infezione è stata originata dalle truppe americane di colore che noi abbiamo collocato in gran numero in Germania e fra le quali la percentuale di infezioni veneree è molte volte più alta che non fra le truppe bianche”. Nel luglio del 1946, aggiunge, la percentuale annua per i soldati bianchi ammonta al 19%, per i neri sale al 77,1%. Ripete quindi ciò che noi stiamo qui dimostrando, quando mette in evidenza “lo stretto legame fra il tasso di malattie veneree e la disponibilità di cibo”. (32) Se MacDonogh menziona stupri commessi da soldati britannici, a me è sfuggito. Egli però racconta di violenze carnali di polacchi, francesi, partigiani di Tito e profughi. A Danzica “i polacchi si comportarono tanto duramente quanto i russi. Furono i polacchi a liberare (33) la città di Teschen (34), nel nord [della Cecoslovacchia] il 10 di maggio. Per cinque giorni essi stuprarono, saccheggiarono, incendiarono e uccisero”. Scrive del “comportamento dei soldati francesi a Stoccarda, dove forse 3.700 donne ed otto uomini furono violentati” ed aggiunge che “altre 500 donne [furono] stuprate a Vahingen(35) e riferisce dei “tre giorni di uccisioni, saccheggi, incendi e stupri” avvenuti a Freundenstadt.(36) Sui fuggiaschi dice che “c’erano circa due milioni di prigionieri di guerra e lavoratori coatti provenienti dalla Russia che avevano costituito delle bande che rubavano e violentavano in tutta l’Europa centrale”.
Trattamento dei prigionieri di guerra.
In tutto, ci furono approssimativamente undici milioni di pionieri di guerra tedeschi. Un milione e mezzo non tornarono mai a casa. Qui MacDonogh esprime il proprio giusto sdegno: “Fu scandaloso trattarli con così scarsa cura che un milione e mezzo di loro morirono”. La Croce Rossa non ebbe alcun incontro faccia a faccia con quelli che erano detenuti dai russi, in quanto l’Unione Sovietica non aveva firmato la Convenzione di Ginevra. MacDonogh afferma che i russi non facevano alcuna distinzione fra civili e prigionieri di guerra tedeschi, anche se sappiamo che un rapporto del KGB li selezionava per mandarli a morte o per altri scopi. Alla fine della guerra, i russi ne detenevano da quattro a cinque milioni in Russia (e qui, di nuovo, gli archivi del KGB vale la pena di consultarli, come ha fatto lo storico James Bacque; essi registrano la cifra di 2.389.560 prigionieri). Un gran numero fu detenuto per oltre dieci anni, e furono rimandati in Germania soltanto dopo la la visita di Konrad Adenauer a Mosca nel 1956.(37) Ciononostante, nel 1979 –34 anni dopo la fine della guerra!- “si riteneva ci fossero 72.000 prigionieri ancora in vita, principalmente in Russia”. A Stalingrado furono catturati circa 90.000 soldati tedeschi, ma soltanto 5.000 fecero ritorno a casa. Gli americani fecero una distinzione fra i quattro milioni e duecentomila soldati catturati durante la guerra, cui le Convenzioni de L’Aia e di Ginevra davano diritto alla protezione ed ai mezzi di sussistenza, ed i tre milioni e quattrocentomila catturati in Occidente alla fine della guerra. MacDonogh dice che questi ultimi furono classificati come “Surrendered Enemy Persons” (SEP) o come “Disarmed Enemy Persons” (DEP), (38) cui furono negate le tutele delle due Convenzioni. Non fornisce la cifra totale di quelli che morirono mentre erano in custodia americana, dicendo “non è chiaro quanti soldati tedeschi morirono di fame”. Rivela, comunque, varie situazioni: “I più famigerati campi americani per prigionieri di guerra erano i cosiddetti Rheinwiesenlager”. (39) Qui gli americani, lasciarono che “oltre 40.000 soldati tedeschi morissero di fame abbandonati nei fangosi pantani del Reno”. Scrive che “qualsiasi tentativo della popolazione civile tedesca di dar da mangiare ai prigionieri era punito con la morte”. Sebbene la Croce Rossa fosse autorizzata alle ispezioni, “il filo spinato che circondava i campi dei SEP e dei DEP era impenetrabile”. Altrove, alle “caserme del Genio di Worms c’erano 30-40.000 prigionieri seduti nel cortile, che si spingevano per farsi spazio, senza alcuna protezione dalla pioggia che li gelava”. I prigionieri morivano di fame a Langwasser (40) e nel “famigerato campo” di Zuffenhausen (41) dove “per mesi il pranzo consisté in zuppa di rape, con mezza patata per cena”. Sarebbe un errore ritenere che una carenza mondiale di cibo fosse all’origine dell’impossibilità statunitense di dar da mangiare ai prigionieri. Bacque scrive che “il capitano Lee Berwick del 424° Fanteria, che comandava le sentinelle del campo di Bretzenheim (42), mi disse che ‘il cibo era accatastato tutto intorno alla recinzione del campo’. I prigionieri vedevano le casse impilate ‘alte come case’ ”. (43) Uno dei 19 campi di concentramento americani sul Reno, l’A2 di Remagen in Renania-Palatinato, a fine aprile 1945. Si nota bene l’assenza di baracche o altri ricoveri (che la democrazia non ne conosca l’uso?). Ciò che ci dice MacDonogh sul trattamento dei prigionieri di guerra da parte degli inglesi appare discordante. In Gran Bretagna c’erano 391.880 prigionieri al lavoro nel 1946 ed un totale di 600 campi nel 1948. Egli scrive che “il regime non era così duro e in termini percentuali il numero di uomini che morirono mentre erano in prigionia britannica è sorprendemente basso rispetto a quello degli altri alleati”. Tuttavia altrove racconta come “gli inglesi riuscirono ad eludere [le clausole della Convenzione di Ginevra] che prevedeva di fornire da 2.000 a 3.000 calorie al giorno”, così che “per la maggior parte del tempo il livello scese sotto le 1.500 calorie”. Gli inglesi avevano un campo di prigionia in Belgio che “era noto per essere particolarmente massacrante”. Laggiù “si riferisce che le condizioni dei 130.000 prigionieri non fossero ‘molto meglio di quelle di Belsen’. (44) Quando il campo fu ispezionato nell’aprile del 1947 si trovarono appena quattro lampadine funzionanti; non c’era combustibile, né pagliericci e neppure cibo, a parte la ‘minestra d’acqua’”. Un servizio della Reuters del dicembre 2005 aggiunge una significativa dimensione: “Secondo il Guardian, gli inglesi gestirono un carcere segreto in Germania per due anni dopo la fine della Seconda Guerra mondiale dove i reclusi, compresi membri del Partito Naz(ionalsocial)ista, furono torturati e fatti morire di fame.(45) Citando dei dossier del Foreign Office, resi pubblici in seguito ad una richiesta ai sensi del Freedom of Information Act (46), il quotidiano scrive che la Gran Bretagna ha detenuto uomini e donne [sic] in una prigione di Bad Nenndorf fino al luglio del 1947. Il giornale riferisce di ‘Minacce di giustiziare i prigionieri, oppure di arrestare, torturare e uccidere le loro mogli e i loro figli erano considerate “del tutto appropriate” in quanto mai furono attuate’”. (47) I francesi pretesero lavoratori tedeschi per ricostruire il paese, ed a questo scopo inglesi ed americani cedettero loro circa un milione di soldati tedeschi. MacDonogh dice che “il loro trattamento fu particolarmente brutale”. Non molto tempo dopo la fine della guerra, secondo la Croce Rossa, 200.000 prigionieri morivano di fame. Siamo informati di un campo “nella Sarthe [dove] i prigionieri dovevano sopravvivere con 900 calorie al giorno”. (48)
Il saccheggio dell’economia tedesca (49).
I capi alleati non erano d’accordo fra loro sul Piano Morghentau (50) per spogliare la Germania del suo patrimonio industriale e trasformarla in un paese agricolo. L’opposizione di alcuni e l’esitazione di altri, tuttavia, non impedì che de facto il piano venisse attuato. Quando la confisca fu conclusa, la Germania era in larga misura priva di mezzi produttivi. MacDonogh afferma che sotto i russi “Berlino perdette circa l’85% della propria capacità industriale”. Da Vienna venne portata via ogni macchina. Dal Danubio fu sottratto il naviglio e “una delle priorità sovietiche fu la confisca di qualsiasi importante opera d’arte trovata nella capitale [Vienna]. Questa fu un’operazione totalmente pianificata”. Però “peggiore del completo trasferimento della base industriale fu il rapimento di uomini e donne per sviluppare l’industria in Unione Sovietica”. Sotto gli americani, lo smantellamento dei siti industriali proseguì finché il generale Lucius Clay (51) non lo fermò un anno dopo la fine della guerra. Fino all’azione di Clay, il Piano Morghentau era incarnato dalla Disposizione n. 6 dell’Ordine 1067 (529 del Joint Chiefs of Staff (53). MacDonogh dice che dove “il furto degli ufficiali americani fu perpetrato su scala massiccia” fu nel “sequestrare scienziati ed impadronirsi di attrezzature scientifiche”. Gli inglesi presero molto per se e passarono altro patrimonio industriale agli “stati clienti” come la Grecia e la Jugoslavia. La famiglia reale britannica ricevette lo yacht di Goering (54) e la zona britannica della Germania fu spogliata degli “stabilimenti che potevano in seguito entrare in competizione con le industrie britanniche”. MacDonogh scrive che “gli inglesi ebbero la propria tipologia di furto organizzato con la [cosiddetta] T-Force, che cercava di racimolare qualsiasi ingegno industriale”. (55) Da parte loro i francesi sostennero “il diritto alla razzia”. “La Francia non esitò ad appropriarsi di un’azienda di clorati a Rheinfelden, una di viscosa a Rottweil, delle miniere Preussag e dei gruppi chimici Rhodia”, e di molto altro ancora. (56) Se il Piano fosse stato realizzato del tutto per un lungo periodo di tempo, gli effetti sarebbero equivalsi ad una calamità. Keeling, in “Gruesome Harvest”, scrive che tentare “la distruzione permanente del cuore industriale tedesco” avrebbe avuto come “conseguenza ineluttabile la morte per fame e malattia di milioni, decine di milioni di tedeschi”. (57)
Il rimpatrio forzato dei russi per Stalin.(58)
Il libro di MacDonogh si limita all’occupazione alleata, però ci sono, naturalmente, molti altri aspetti del dopoguerra che meritano d’esser menzionati, anche se qui ci limiteremo ad uno solo di questi. (Anche MacDonogh ne fornisce alcuni dettagli). Riguarda il rimpatrio alleato in Unione Sovietica dei Russi catturati. Nel suo “The Secret Betrayal” (59) Nikolai Tolstoy racconta come, fra il 1943 ed il 1947, furono “restituiti” un totale di 2.272.000 Russi. I sovietici ne raccolsero altri 2.946.000 in varie parti d’Europa conquistate dall’Armata Rossa. Quelli mandati in Unione Sovietica dalle democrazie occidentali comprendevano migliaia di zaristi (60) emigrati che non avevano mai vissuto sotto il regime sovietico. (61) Tolstoy scrive che, anche se erano in molti quelli che volevano davvero tornare in Russia (mentre molti altri si opponevano disperatamente e ci furono mandati, in effetti, fra le violenze e le grida), tutti, senza distinzione, vennero trattati brutalmente, giustiziati, violentati o resi schiavi. Alcuni dei rimpatriati erano russi che avevano combattuto per la Germania da volontari contro l’Unione Sovietica, comandati dal generale Vlasov.(62) Il Generale Vlasov nel 1943 Alcuni erano Cosacchi, molti dei quali non erano neppure cittadini sovietici. (63) Il violento rimpatrio ebbe inizio nell’agosto 1945. Tolstoy narra come, per obbligarli al trasferimento, siano stati impiegati l’inganno, le bastonate, le baionette e perfino la minaccia di usare un carro lanciafiamme. (64)
La giustizia dei vincitori.
Quando la guerra terminò c’era unanimità fra i capi alleati sul fatto che i capi Naz(ionalsocial)isti fossero messi a morte. Alcuni volevano una esecuzione immediata, altri “una corte marziale straordinaria”. Ci fu un inaspettato vantaggio nell’insistenza degli inglesi a seguire le “formalità legali”, come fu poi deciso. Il risultato fu una serie di processi coi trabocchetti dei normali procedimenti giudiziari, che però furono di fatto una parodia dal punto di vista del “principio della legalità”, mancando sia dello spirito che dei particolari del “giusto processo”. In due capitoli, MacDonogh fornisce un resoconto del principale processo di Norimberga e della serie di processi che si ebbero in seguito, per anni. Fra questi, gli americani celebrarono vari processi a Norimberga, dopo il principale; davanti ai “tribunali per la denazificazione” (65) furono giudicate migliaia di cause; dopo la loro entrata in funzione i tribunali tedeschi continuarono i processi e, naturalmente, sappiamo del processo in Israele e dell’eseczione di Eichmann. (66) Vi sono molti motivi per chiamarla “giustizia dei vincitori”. Perché se fosse stato altrimenti, un tribunale veramente imparziale avrebbe dovuto essere convocato in qualche parte del mondo (ammesso che una cosa simile fosse stata possibile subito dopo una guerra mondiale) ed avrebbe dovuto procedere contro i crimini di guerra commessi da tutte le parti combattenti. Ma ovviamente sappiamo che una forma di giustizia tanto imparziale non era neppure contemplata. Nell’atto d’incriminazione di Norimberga i Naz(ionalsocial)isti erano accusati del massacro del corpo ufficiali polacchi della foresta di Katyn, imputazione che fu discretamente (e con grande disonestà intellettuale e “giudiziaria”) tralasciata nel giudizio finale, dopo che era divenuto chiaro a tutti che erano i sovietici ad aver commesso la strage. (67) Un altro dei molti altri esempi possibili sarebbe quello relativo alle deportazioni Naz(ionalsocial)iste addebitate a Norimberga sia come crimine di guerra che come crimine contro l’umanità. Per converso, nessuno fu mai “assicurato alla giustizia” per l’espulsione alleata dei milioni di tedeschi dalle loro terre ancestrali dell’Europa centrale.
Una fonte che i lettori troveranno istruttiva.
Per la credibilità della fonte, il resoconto dell’ex-maggiore dell’aeronautica militare statunitense Arthur D. Jacobs nel suo libro “The Prison Called Hohenasperg” (68) sarà utile ai lettori quanto lo è assimilare (e valutare) le informazioni contenute nel libro di MacDonogh e quelle degli altri autori cui abbiamo qui rinviato. E’ prezioso sia come storia della brutalità che della compassione americane. Jacobs prestò servizio in aeronautica per ventidue anni, si congedò nel 1973 ed in seguito insegnò alla Arizona State University per altri vent’anni. (69) Il libro racconta la sua storia personale: i suoi genitori, tedeschi, emigrarono negli Stati Uniti nel 1928 e nel 1929. Ebbero due figli, nati a Brooklyn (perciò cittadini statunitensi) e uno di loro era Arthur Jacobs. I ragazzi vissero i loro primi anni a Brooklyn, dove frequentarono la scuola elementare. La famiglia fu presa e trattenuta ad Ellis Island (70) verso la fine della guerra e fu quindi detenuta per sette mesi nel campo d’internamento di Crystal City, in Texas (71), dove fu trattata bene. Poi furono “rimpatriati volontariamente” in Germania (dopo esser stati minacciati di deportazione) nell’ottobre del 1945, vari mesi dopo la resa tedesca. Quando arrivarono in Germania la madre di Jacobs fu inviata in un campo, il padre ed i due figli in un altro. Questi ultimi raggiunsero un campo d’internamento a Hohenasperg (72), dopo un viaggio di 92 ore rinchiusi in un carro merci con un freddo glaciale, insieme a donne e bambini e, soprattutto, a pane e acqua e “senza calore, senza coperte e senza gabinetti a parte un fetido bugliolo all’aperto”. Jacobs stesso aveva dodici anni e compì il tredicesimo nella settimana in cui era a Hohenasperg, prima di essere mandato in un altro campo a Ludwigsburg. (73) Nel carcere di Hohenasperg fu sottoposto ad una severa disciplina come un qualunque prigioniero e le guardie lo minacciarono ripetutamente di impiccarlo se avesse disobbedito. Il campo di Ludwigsburg in effetti era un centro di detenzione in attesa del rilascio. E’ istruttivo quanto Jacobs ci racconta della misera dieta: “A colazione ci davano un bicchiere di latte ‘grigio’ e una fetta di pane scuro. A mezzogiorno non c’era pasto”. A cena “ognuno riceveva una scodella di minestra…, per lo più acqua aromatizzata col dado. Nessuna seconda porzione. Sentivo sempre i morsi della fame”. Mentre erano internati a Ludwigsburg, lui ed i suoi fratelli erano costretti a guardare dei film sui “campi di sterminio” (74) tedeschi. La madre, il padre ed i fratelli furono rilasciati dai rispettivi campi a metà marzo del 1946 ed andarono a vivere coi nonni di Jacobs nella zona sotto controllo britannico. Non erano i benvenuti fra i tedeschi che incontravano, in quanto “eravamo altre quattro bocche da sfamare”. Jacobs vide che “la Germania era logorata dalla guerra e affamata”. Fu aiutato da un soldato americano che gli trovò un lavoro al “Graves Registration” (75). Perse il lavoro quando quel soldato fu trasferito ed iniziò una lotta per “vivere nel periodo in cui si moriva di fame, l’inverno del 1946-1947”. Dopo molto girare, ebbe un altro lavoro con l’Esercito americano, stavolta nella flotta militare. A lui si interessò una donna americana che conosceva una coppia in una fattoria del Kansas sud-occidentale che li avrebbe condotti in America a vivere con loro. Pertanto, Jacobs e suo fratello partirono per gli Stati Uniti nell’ottobre del 1947. Erano stati in Germania per 21 mesi. Trascorsero undici anni prima che Jacobs potesse rivedere i genitori. Tirò avanti e, come abbiamo detto, riuscì a diventare ufficiale di carriera nell’aeronautica militare statunitense. Dopo aver conseguito l’MBA (76) all’Università Statale dell’Arizona, divenne ingegnere industriale e più tardi docente della stessa Università.
Se MacDonogh ha scritto tutto ciò che abbiamo riferito (ed altro ancora) del suo libro, come si può sostenere che egli prosegue in modo significativo nell’occultamento di tali orrori, un occultamento che dal 1945 li ha consegnati al dimenticatoio? Questa domanda ci conduce ai difetti del libro, che sono di una natura tale da dare ai lettori una comprensione ridotta delle dimensioni delle atrocità e dei loro responsabili. Ciò che passa di più il segno è il trattamento che MacDonogh riserva al lavoro dello storico canadese James Bacque, autore di “Other Losses” (77) e “Crimes and Mercies”. Quando rimanda al primo di questi libri, dice che Bacque “asseriva che i francesi e gli americani avessero ucciso un milione di prigionieri di guerra”, una affermazione che “fu definita un lavoro di ‘mostruosa speculazione’ e fu rigettata da uno storico americano come una ‘tesi assurda’”. Secondo MacDonogh “da allora è stato provato che Bacque fraintese, nei documenti alleati, le parole ‘other losses’ e ne intese avessero il significato di ‘deaths’”. (78) Perciò parla di “falsa pista di Bacque”. Egli respinge tanto decisamente la tesi di Bacque che nella pagina sulle ulteriori letture consigliate, alla fine del libro, MacDonogh apparentemente si scorda del tutto di Bacque, dicendo che “sul trattamento dei prigionieri di guerra non esiste niente in inglese e il principale esperto americano –Arthur L. Smith- pubblica in tedesco”. (79) Pensavo fosse giusto chiedere a Bacque cosa rispondeva al rigetto di MacDonogh. Bacque mi ha risposto che “la speculazione sulle parole rappresenta bene i miei critici, perché loro non sono stati in tutti i maggiori archivi e non hanno intervistato le migliaia di sopravvissuti che hanno scritto ai giornali, ai giornalisti televisivi e ad altri scrittori sulle loro esperienze vicine alla morte nei campi degli americani, dei francesi e dei russi”. Lungi dall’ammettere di aver mal interpretato la categoria delle “other losses”, Bacque afferma che “il significato del termine mi fu chiarito dal colonnello Philip S. Lauben, dell’esercito degli Stati Uniti, responsabile dei movimenti dei prigionieri per lo SHAEF nel 1945. (80) Ho l’intervista su nastro e la firma di Lauben su una lettera di conferma. Lauben non ha mai negato ciò che mi riferì”. In seguito Lauben dichiarò alla BBC che “si era sbagliato”, però la probabilità di un errore è esile dal momento che era l’ufficiale responsabile fin dall’inizio e vide sia i campi che i documenti. La differenza fra il trattamento che riservano MacDonogh e Bacque alla questione dei prigionieri di guerra tedeschi in mani americane è solo apparente, non appena si confronta l’interesse che ognuno riserva alla limitazione del cibo. MacDonogh riferisce in un passaggio che “qualsiasi tentativo della popolazione civile tedesca di dar da mangiare ai prigionieri era punito con la morte”. Ciò è sbalorditivo di per se e certamente non ha bisogno di spiegazioni. Bacque ci racconta parecchio di più: “Il generale Eisenhower inviò un ‘corriere urgente’ per tutta la vasta area ai suoi ordini dichiarando che per i civili tedeschi era un reato punibile con la morte dar da mangiare ai prigionieri. Ed era un reato da pena di morte anche accumulare del cibo in qualche luogo per portarlo ai prigionieri”. Scrive che “l’ordine fu inviato in Germania ai governi provinciali, con l’ordine di trasmetterlo immediatamente alle amministrazioni locali. Copie dell’ordine sono state recentemente scoperte in vari villaggi nei pressi del Reno”. (81) Alle pagine 42-43 di “Crimes and Mercies” Bacque pubblica una copia in tedesco e in inglese di una lettera datata 9 maggio 1945, in cui viene notificata tale proibizione agli ufficiali del distretto. Bacque fornisce prove come quella del professor Martin Brech di Mahopac, all’estrema periferia di New York, che fu guardiano del campo americano di Aldernach in Germania (82). Brech racconta che “passò alcune fette di pane attraverso il filo spinato, ma l’ufficiale suo superiore gli disse ‘Non dargli da mangiare. La nostra politica è che questi uomini non mangino’”. “Dopo, la notte, Brech portò di nascosto un altro po’ di cibo nel campo e l’ufficiale gli disse ‘Se lo fai ancora, ti faccio fucilare’”. Così troviamo in Bacque una descrizione più nitida e una maggiore attribuzione di responsabilità che non in MacDonogh. Alla luce dell’enorme quantità di dettagli forniti dal libro di MacDonogh, ciò sarebbe perdonabile se non fosse per il suo tentativo di cancellare il lavoro di uno studioso di grande importanza che ha analizzato l’argomento in maniera esauriente. Una soppressione del genere riduce la comprensione del lettore di altri importanti argomenti che MacDonogh tratta con tale brevità che il lettore può a stento farsi un’idea completa. Per esempio, MacDonogh racconta di come, durante l’esecuzione di Joachim von Ribbentrop a Norimberga (83) “il boia pasticciò l’esecuzione e la corda strangolò l’ex-ministro degli esteri per venti lunghi venti minuti prima che spirasse”. Nel suo libro “Nuremberg: The Last Battle” (84), lo storico David Irving racconta parecchio di più, compreso il fatto che la forca era stata progettata in modo da permettere alla botola di ruotare all’indietro e spezzare “qualsiasi osso” dei visi di Keitel, Jodl e Frick. Dice ancora che il corpo di Goering (dopo che si era suicidato assumendo del veleno) “fu trascinato nella stanza dell’esecuzione [dove] i medici militari [fecero] frenetici tentativi di rianimarlo perché lo si potesse impiccare”. Ci sono un gran numero di punti in cui MacDonogh dice la metà di qualcosa d’importante, solo per lasciare l’argomento incompleto. Abbiamo già rilevato il suo accenno ai “30-40.000 prigionieri seduti nel cortile [alle caserme del Genio di Worms], che si spingevano per farsi spazio, senza alcuna protezione dalla pioggia che li gelava”. Ci lascia solo indovinare le conseguenze del congelamento. In un altro punto, riferisce che “gli americani mantennero in piedi campi per oltre un milione e mezzo di Naz(ionalsocialisti)isti o membri della SS”. Questa è la sua unica menzione in merito a questi campi, che si può supporre fossero perfino maggiormente punitivi degli altri. MacDonogh era troppo oberato da altri dettagli per proseguire ulteriormente su tale argomento? Non è che si astiene deliberatamente dall’esplorare certe cose? O forse l’omissione è dovuta a come i dettagli venivano fuori, frammentari come la scarica di un fucile a pallettoni? Al lettore occorrerà valutare fino a che punto “After the Reich” sia il lavoro di uno studioso eminente oppure un racconto di narrativa popolare. (85) Il libro di MacDonogh annovera molte pagine di note finali e cita un gran numero di fonti. Di rado si esprime criticamente su una data fonte. Ma nella maggior parte dei casi accoglie qualsiasi cosa una certa fonte abbia da dire. Al libro avrebbe giovato molto un saggio bibliografico in cui l’autore valutasse le fonti principali, condividendo col lettore una analisi accurata della base probatoria per la sua narrazione. Un esempio in cui è essenziale una valutazione critica è nel suo rimando a quel che ha da dire Ilse Koch (86) sui “paralumi e i trofei realizzati con pelle e organi umani”: MacDonogh dice che lo psicologo Saul Padover afferma gli sono stati mostrati. (87) Vorremmo sapere cosa concluderebbe MacDonogh se dovesse valutare la contro-prova che proclama la collezione di paralumi una “leggenda”. Altrettanto dicasi per le molte citazioni di MacDonogh del libro di Raul Hilberg “The Destruction of the European Jews”. (88) Esiste una vasta letteratura accademica che contesta ogni aspetto dell’“Olocausto”. (89) Leggendo MacDonogh non si verrebbe mai a sapere che esiste quella letteratura, o perché lui non la conosce oppure perché trova più prudente, come molti fanno, non menzionarla. Nonostante le sue limitazioni, “After the Reich” realizza molto, laddove fornisce un ulteriore collegamento nella catena delle rivelazioni che, nel tempo, consentono ai lettori scrupolosi una comprensione più completa della storia moderna. Il fatto che, all’epoca dei fatti e per così tanti decenni successivi, mostruosità della più grande importanza siano state lavate via dalla propaganda suggerisce che vi siano delle implicazioni molto al di là degli eventi stessi. Il primo ministro britannico Benjamin Disraeli (90) osservava che “tutti i grandi eventi sono stati distorti, la maggior parte delle cause importanti occultate” e proseguiva dicendo che “Se la storia d’Inghilterra sarà mai scritta da qualcuno che abbia consapevolezza e coraggio, il mondo ne rimarrà sbalordito”(91). Le implicazioni suggeriscono domande profonde di cui sarebbe negligenza non far menzione: Com’è che una certa versione della realtà può, su così tante materie, avere un dominio quasi totale, mentre le voci di milioni di persone e di un buon numero di studiosi seri vengono emarginate nel nulla? (Fortunatamente, per quanto interessa il lavoro di Bacque, esso è reperibile in dodici lingue e in tredici paesi, sebbene a lungo non sia stato disponibile negli Stati Uniti). Sappiamo davvero la verità su molte cose? Oppure sono innumerevoli gli argomenti celati in un miasma di omissioni e travisamenti? Dove sono i nostri storici accademici? Alla maggior parte di loro piace fornirci miti gradevoli, che è ciò che ci aspetta da loro, e per questo essi sono ricompensati con medaglie, premi e vendite elevate dei loro libri. Quanto è pervasiva una viltà che pone pressoché tutto avanti alla ricerca della verità? Al genere umano importa davvero profondamente della verità? Fino a che punto una società o un’epoca sono “democratiche” se le menti dei propri cittadini sono piene di fantasmi, cosicché la maggior parte dei loro giudizi sono o sciocchi o manovrati? E fino a che punto sono “democratiche” se quei cittadini non hanno neppure voce in capitolo nelle decisioni della più grave importanza? (92) E’ significativo ciò che scrive Keeling: “nella storia moderna nessun popolo di nessuna nazione, noi compresi, ha mai avuto una voce rilevante nel prendere le grandi decisioni, e sull’andare in guerra, e sul comporre gli accordi di pace”(93).
Traduzione a cura di Fabrizio Rinaldini.

N O T E <<<>>>

1 (NdT) Link alla recensione: http://www.gnosticliberationfront.com/book_review_article.htm

2 (NdT) Per maggiori informazioni sul professor Dwight D. Murphey, autore della recensione, vedi:

http://www.dwightmurphey-collectedwritings.info/InfoReDDM.htm

3 (NdT) “La Guerra Buona”. Col libro “The Good War: An Oral History of World War Two” lo scrittore ed attore ebreo americano Louis “Studs” Terkel (1912 – 2008) ha vinto il Premio Pulitzer nel 1985.

4 (NdT) “La generazione più grande”.

5 (NdT) Per maggiori informazioni sull’autore di “After the Reich”, Giles MacDonogh, vedi:

http://www.macdonogh.co.uk/experience.htm

6 (NdT) “Nazi” nell’originale. Il traduttore – per principio – non usa la parola “nazista”.

7 (NdT) Vedi: http://www.macdonogh.co.uk/experience-books.htm

8 (NdT) L’accordo (Potsdam Agreement) fra Gran Bretagna, Stati Uniti ed Unione Sovietica fu stipulato durante la Conferenza di Potsdam del 17 luglio-2 agosto 1945 e fu firmato dai “soliti” Winston Churchill, Harry Truman e Josef Stalin. Chi lo desidera può consultare il bestiale diktat in lingua inglese al sito: http://www.pbs.org/wgbh/amex/truman/psources/ps_potsdam.html

9 Adenauer è citato in James Bacque, “Crimes and Mercies: The Fate of German Civilians Under Allied Occupation, 1944-1950” (Boston, Little, Brown and Company (Canada) Limited, 1997), pag. 119. I lettori possono consultare anche Theodore Schieder (a cura di), “The Expulsion of the German Population from the Territories East of the Oder-Neisse-Line” (Bonn, Ministero Federale degli Espulsi, Rifugiati e Vittime di Guerra, 1958). Alfred-Maurice de Zayas è autore di altri tre libri su questo argomento: “The German Expellees: Victims in War and Peace” (New York, St. Martin’s Press, 1986); “A Terrible Revenge: The Ethnic Cleansing of the East European Germans, 1944-50” (New York, St. Martin’s Press, 1994) e “Nemesis at Potsdam: The Expulsion of the Germans from the East” (Lincoln, University of Nebraska Press, 1988).

10 (NdT) James Bacque, storico canadese, nato nel 1929. Di lui, in italiano, si può leggere “Gli altri lager”, Mursia, 1993, sullo sterminio dei prigionieri di guerra tedeschi nei campi alleati. Interessante anche “Did the Allies Starve Millions of Germans?” (http://www.serendipity.li/hr/bacque01.htm ) che si può trovare tradotto col titolo “GLI ALLEATI HANNO FATTO MORIRE DI FAME MILIONI DI TEDESCHI?” al link

http://andreacarancini.blogspot.com/2009/03/james-bacque-parla-del-piano-morgenthau.html

11 (NdT) Purtroppo questa nota non è presente nel testo originale. E’ comunque presumibile che la frase sia tratta dal libro di James Bacque citato nella nota precedente.

12 (NdT) Wilhelm Gustloff (1896-1936), uno dei primi membri del Partito fin dal 1923. Lavorava presso il Servizio metereologico tedesco a Davos, in Svizzera, e ricopriva la carica di Landesgruppenleiter della NSDAP. Fu ucciso dall’ebreo Frankfurter il 4 febbraio del 1936. Ebbe funerali di Stato nella sua città natale, Schwerin, ai quali partecipò il Führer che decise di dedicare a lui la nave da crociera della Kraft durch Freude (Kdf) varata l’anno successivo. La “Wilhelm Gustloff” stazzava 25.484 tonnellate, era lunga 208 metri e raggiungeva i 15 nodi e mezzo. L’altra nave per le vacanze dei lavoratori tedeschi era la “Robert Ley” (204 metri, 27.288 tonnellate, 15 nodi e mezzo, 1.470 passeggeri). La KdF controllava inoltre: la “Berlin” (15.286 tonnellate), la “Columbos” (32.000), la “Der Deutsche” (11.430), la “Dresden” (14.500), la “Monte Olivia” (14.000), la “Monte Sarmento” (14.000), la “Oceana” (8.791), la “Sierra Cordoba” (11.469) e la “Stuttgart” (13.400). Tutte, ricordiamolo, per le crociere dei lavoratori.

13 (NdT) Aleksandr Solzenicyn, “Arcipelago Gulag”, tre volumi, Mondadori, 1974-1975-1978.

14 (NdT) Taràssaco comune (taraxacum officinale).

15 (NdT) Zona occupata dagli Stati Uniti.

16 Sir Victor Gollancz (1893 – 1967), socialista, scrittore ed editore, nipote del rabbino Sir Hermann Gollancz. I

due libri citati nella nota successiva sono rispettivamente del 1946 e del 1947.

17 Vedi i due libri di Victor Gollancz sul trattamento dei rifugiati: “Our Threatened Values” e “In Darkest Germany”.

18 Homer Earl Capehart (1897–1979), uomo d’affari e politico, repubblicano, senatore dal 1945 al 1963.

19 Capehart é citato da Ralph Franklin Keeling in “Gruesome Harvest: The Allies’ Postwar War Against The German People”, (Torrance, CA, Institute for Historical Review, 1992), pag. 64. Il libro fu pubblicato per la prima volta nel 1947 dall’Institute of American Economics di Chicago.

20 (NdT) La traduzione è letterale. Meglio sarebbe scrivere “Nella zona di Berlino occupata dagli americani”.

21 Bacque, “Crimes and Mercies…”, cit., pag. 91.
22 (NdT) Per rendersi conto di cosa fu quell’inverno, vedi: http://meteolive.leonardo.it/meteolive-notizia-19099-il_gelido_inverno_1946_1947.html

23 (NdT) “L’orribile vendemmia: la guerra post-bellica degli alleati contro il popolo tedesco”. Fra le varie edizioni di questo libro segnaliamo quella della Liberty Bell Publications del 2004 di 152 pagine, ISBN: 978-1593640088, in lingua inglese.

24 Keeling, “Gruesome Harvest…”, cit., pag. 64.

25 (NdT) Alfred-Maurice de Zayas (nato nel 1947 a Cuba), avvocato, storico e scrittore, è attualmente docente di diritto internazionale alla “School of Diplomacy and International Relations” di Ginevra.

26 (NdT) “I tedeschi espulsi: vittime della guerra e della pace”, Palgrave Macmillan, 1993, pagine 177, ISBN: 978-0312090975, in lingua inglese.

27 Zayas, de, “The German Expellees…”, cit., pag. 97.

28 (NdT) Ilya Grigoryevich Ehrenburg (1891–1967), lo scrittore e giornalista ebreo che in un volantino propagandistico scritto di suo pugno ed intitolato, con impeccabile chiarezza programmatica, “Uccidete!”, incitava i soldati sovietici a trattare i tedeschi dei paesi conquistati come esseri subumani. Il volantino si concludeva con queste parole: “I tedeschi non sono esseri umani. Da oggi in poi, la parola “tedesco” sarà la più orribile delle maledizioni. Da oggi in poi la parola “tedesco” sarà per noi una ferita nella carne viva. Noi non abbiamo niente da discutere. Noi non proveremo emozione. Noi uccideremo. Se non avrete ucciso almeno un tedesco durante il giorno, quel giorno sarà stato sprecato. […] Se non riuscite a uccidere un tedesco con un proiettile, allora uccidetelo con la vostra baionetta. Se il vostro fronte è tranquillo e non ci sono combattimenti, allora uccidete un tedesco per passare il tempo. Se avete già ucciso un tedesco, uccidetene un altro. Non c’è niente di più divertente per noi di un cumulo di cadaveri tedeschi. Non contate i giorni, non contate i chilometri. Contate una cosa soltanto: il numero di tedeschi che avete ucciso. Uccidete i tedeschi! […] Uccidete i tedeschi! Uccideteli!”

29 (NdT) La più importante rivista protestante di Chicago. Fondata nel 1884, Christian Century, quindicinale, durante la Seconda Guerra mondiale prese ferma posizione anche contro l’internamento nei campi di detenzione dei cittadini americani di origine giapponese.

30 Keeling, “Gruesome Harvest…”, cit., pag. 64.

31 (NdT) Sull’argomento vedere “Children of World War Two. The hidden enemy legacy” di Kjersti Ericsson e Eva Simonsen, Berg, 2005, ISBN: 978-1-84520-206-4, in lingua inglese.

32 Keeling, “Gruesome Harvest…”, cit., pagg. 62-63.

33 (NdT) La traduzione è letterale. Il traduttore avrebbe usato “occupare”.

34 (NdT) Teschen, oggi Cieszyn, è ora una città polacca, praticamente sul confine con la Repubblica Ceca.

35 (NdT) Vaihingen an der Enz è una cittadina del Baden-Württemberg.

36 (NdT) Anch’essa nel Baden-Württemberg.

37 (NdT) La “storica” visita del Cancelliere tedesco a Mosca è dell’8 febbraio 1956. Adenauer incontrò Nikita Chruschtschow, segretario generale del PCUS.

38 (NdT) “Nemici arresi” e “Nemici disarmati”.

39 (NdT) Ovvero, poeticamente, i “Campi sui prati del Reno”. Ufficialmente definiti “Prisoner of War Temporary Enclosures” (PWTE) erano un gruppo di 19 campi di concentramento, in gran parte sulla riva occidentale del Reno, in cui furono ammassati centinaia di migliaia di soldati tedeschi a morire di fame, disidratazione e freddo. Alla Croce Rossa fu sempre impedito di accedere ai campi.

40 (NdT) Nella zona sud-est di Norimberga.

41 (NdT) Nella zona nord di Stoccarda.

42 (NdT) Comune del distretto di Bad Kreuznach in Renania-Palatinato, sede del Rheinwiesenlager A6 (Winzenheim/Bretzenheim).

43 Bacque, “A Truth So Terrible”, in “Abuse Your Illusions” articolo inviato da Bacque a Dwight D. Murphey. * (NdT) Il libro “Abuse Your Illusions” si trova anche in edizione italiana col titolo “Tutto quello che sai è falso 2”, Nuovi Mondi Media, 2004 , pag. 484, ISBN: 88-89091-09-6. L’articolo di J. Bacque è a pagina 173 (“Una verità così terribile”. I campi di prigionia degli “Alleati”).

44 (NdT) Ci si riferisce al campo tedesco di Bergen-Belsen (o comunemente Belsen), situato nella Bassa Sassonia, a sud-est della città di Bergen, vicino a Celle. Si stima che nei primi cinque mesi del 1945 vi siano morti 35.000 detenuti a causa di una epidemia di tifo.

45 (NdT) Il campo si trovava a Bad Nenndorf, una piccola stazione termale vicina ad Hannover. L’articolo di Ian Cobain (http://www.guardian.co.uk/uk/2005/dec/17/secondworldwar.topstories3 ) fu pubblicato su The Guardian del 17 dicembre 2005 con un titolo significativo: “The interrogation camp that turned prisoners into living skeletons. German spa became a forbidden village where Gestapo-like techniques were used” [Il campo per interrogatori che trasformò i prigionieri in scheletri viventi. Le terme tedesche divennero un villaggio proibito dove furono usate tecniche da Gestapo].

46 (NdT) Legge (Act) del Parlamento britannico del 30 novembre 2000 che introduce il diritto di sapere (“right to know”) da parte dei cittadini sulle questioni collegate agli enti pubblici (“public bodies”). La sua denominazione ufficiale è “The Freedom of Information Act 2000 (c.36)”.

47 “Britain Ran Torture Camp After WWII: report” (http://www.abc.net.au/cgibin/common/printfriendly.pl?

http://www.abc.net.au/news/newsitems/200512/s1533464.htm ).

48 (NdT) La Sarthe è nella Regione della Loira, nel nord-ovest della Francia. Il campo era quello di Mulsanne, diviso nei carceri n. 401, n. 402 e n. 403 D.P.G.A. (Dépôts de Prisonniers de Guerre de l’Axe).

49 (NdT) L’autore usa una parola che forse è ancora più significativa: “stripping”, che significa “spogliare, denudare”.

50 Ideato da Henry Morghentau junior, ebreo, nato a New York l’11 Maggio 1891, figlio di un ricco speculatore immobiliare e diplomatico (Henry Morghentau senior), amico personale di Franklin e Eleanor Roosevelt. Il “nostro” Henry, dal 1934 al 1945 fu Secretary of Treasure [Ministro del Tesoro] e creatore del War Refugee Board, all’interno del Ministero. Per mezzo di questo organismo, fra il 1944 ed il 1945, entrarono negli Stati Uniti circa 200.000 ebrei. Anni dopo fu l’uomo di punta della Conferenza di Bretton Woods, durante la quale venne creato l’International Monetary Fund [Fondo Monetario Internazionale] e la International Bank for Reconstruction and Development, quella che oggi è nota come World Bank [Banca Mondiale]. Negli ultimi anni di vita Morghentau è stato consulente finanziario dello Stato d’Israele. Morì a Poughkeepsie, nello stato di New York, il 6 Febbraio 1967.

51 (NdT) Lucius Dubignon Clay (1897-1978), generale americano, nel maggio 1945 viene nominato rappresentante del generale Dwight D. Eisenhower. Dal 1947 al 1949 sarà il Governatore generale della zona d’occupazione americana.

52 (NdT) Emesso il 26 aprile 1945, l’ordine 1067 ordinava al generale Eisenhower di “salvaguardare dalla distruzione e prendere sotto il [proprio] controllo archivi, progetti, documenti, carte, archivi ed informazioni e dati scientifici, industriali e d’altro tipo appartenenti a…enti tedeschi impegnati nella ricerca militare”. Veniva lasciata ad Eisenhower la discrezionalità delel misure da prendere.

53 (NdT) Il Joint Chiefs of Staff (JCS) [Stato Maggiore Congiunto] è un organismo militare statunitense creato nel luglio del 1942, durante la presidenza Roosevelt, dall’Ammiraglio William D. Leahy. Il suo compito è quello di “consigliare” il governo degli Stati Uniti.

54 (NdT) Lo yacht “Carin II”, di 27 metri e mezzo e 70 tonnellate fu regalato ad Hermann Goering nel 1937 per il suo secondo matrimonio (con Emmy Sonnemann) ma il Reichsmarschall volle dedicarlo alla prima moglie, morta sei anni prima.

55 (NdT) Creata subito dopo lo sbarco in Normandia, la T-Force aveva il compito di “identificare, mettere al sicuro, custodire e sfruttare le informazioni speciali e preziose, compresi i documenti, le attrezzature e le persone di valore per gli eserciti alleati”. Sull’argomento: Judt, Matthias e Ciesla, Burghard “Technology transfer out of Germany after 1945”, Routledge, 1996, ISBN: 3718658224, in lingua inglese.

56 (NdT) Rheinfelden e Rottweil sono nel Baden-Württemberg. Le miniere di antracite della Preussag AG si trovano a Ibbenbüren nel distretto di Steinfurt, in Nordrhein-Westfalen. La Rhodia, nata in Germania nel 1927, oggi è un colosso della chimica con sede centrale nel quartiere de La Défense a Parigi. E’ attiva nel settore chimico, farmaceutico, agro-chimico, elettronico e della produzione di pneumatici, ha 15.530 dipendenti (2007) e 131 milioni di Euro di profitti (2007). Un ottimo affare per un furto…

57 Keeling, “Gruesome Harvest…”, cit., pag. VI.

58 (NdT) Sull’argomento vedi anche A. Bolzoni,”I dannati di Vlassov”, Mursia, 1991.

59 (NdT) Nkolai Tolstoy, “The secret betrayal” [Il tradimento segreto], Scribner, 1978, pagine 503, ISBN-13: 978-0684156354, in lingua inglese.

60 (NdT) Citando N. Tolstoy, dell’argomento parla anche Piero Buscaroli, in “Dalla parte dei vinti”, Mondatori, 2010.

61 (NdT) E che, quindi, non erano mai stati cittadini sovietici.

62 (NdT) Il generale Andrej Andreevič Vlasov ed altri undici alti ufficiali dell’Esercito di Liberazione Russo furono impiccati il 2 agosto 1946 a Mosca. Vlasov aveva solo quarantasei anni.

63 (NdT) Vedi: Pier A. Carnier, “L’armata cosacca in Italia 1944-1945”, Mursia, 1990.

64 (Nota dell’Autore integrata dal Traduttore) Nikolai Tolstoy, “The Secret Betrayal” (New York, Charles Scribner’s Sons, 1977), pagine 371, 24, 315, 40, 183, 242, 343. Si consiglia anche la lettura di: Julius Epstein, “Operation Keelhaul: The Story of Forced Repatriation from 1944 to the Present”, (Old Greenwich, Devin-Adair Publ., 1973, ISBN: 978-0815964070) e Nicholas Bethell, “The Last Secret: Forcible Repatriation to Russia 1944- 7” (Londra, Deutsch, 1974, pagg. XIV+224).

65 (NdT) Le famigerate “Spruchkammer”. Il 7 gennaio del 1947 il Werwolf fece saltare in aria quella di Norimberga… (da: Stephen G. Fritz, “Endkampf: Soldiers, Civilians, and the Death of the Third Reich”, The University Press of Kentucky, 2004, pagine 416, ISBN: 978-0813123257, in lingua inglese).

66 (NdT) L’SS-Obersturmbannführer Karl Adolf Eichmann fu impiccato pochi minuti prima della mezzanotte di giovedì 31 maggio 1962, in una prigione a Ramla, in Israele.

67 Vedi l’analisi sul massacro della foresta di Katyn in Bacque, “Crimes and Mercies…”, cit., pagg. 74-5, 135.

68 (NdT) “The Prison called Hohenasperg” di Arthur D. Jacobs, Universal-Publishers, 1999, pag. 172, ISBN: 9781581128321, in lingua inglese. Se ne possono scaricare le prime 25 pagine gratuitamente all’indirizzo: http://www.universal-publishers.com/book.php?method=ISBN&book=1581128320

69 (NdT) Per la precisione al College of Business. Si ritirò nel 1997. Il suo sito è: http://www.foitimes.com/.

70 (NdT) Un americano, come l’autore, non ha bisogno di spiegare cos’è Ellis Island, un simbolo per l’America cosmpolita. Per un lettore italiano forse è meglio farlo: Ellis Island è un isolotto alla foce del fiume Hudson nella baia di New York. Antico arsenale militare, dal 1892 al 1954, anno della chiusura, l’isola è stata la maggiore frontiera d’ingresso per gli immigranti che sbarcavano negli Stati Uniti. Durante la Seconda Guerra mondiale vi vengono detenuti cittadini giapponesi, italiani e tedeschi e il 12 novembre 1954 il Servizio Immigrazione lo chiude definitivamente, spostando i propri uffici a Manhattan. Dopo una parziale ristrutturazione negli anni ottanta, dal 1990 ospita il Museo dell’Immigrazione.

71 (NdT) Dal sito di Jacobs: http://www.foitimes.com/internment/cc_tx.htm

72 (NdT) Hohenasperg, nel Baden-Württemberg, vicino a Stoccarda, è una antica fortezza e carcere (oggi civile) fin dal 1500.

73 (NdT) Altra città del Baden-Württemberg.

74 (NdT) Il virgolettato è del traduttore.

75 (NdT) Oggi “Mortuary Affairs”. Si tratta del “programma di ricerca, recupero, tentata identificazione, evacuazione e inumazione temporanea delle salme dei militari”.

76 (NdT) Master of Business Administration, equivalente alla Laurea in economia e commercio.

77 (NdT) “Other Losses” [Le altre perdite] di James Bacque, II edizione rivista ed ampliata 1999, pagine 304, Key Porter Books, Fenn Publishing, ISBN: 978-1551681917, in lingua inglese. Una recensione del libro di Bacque, scritta da Arthur S. Ward, si trova al link: http://www.vho.org/GB/Journals/JHR/10/2/Ward227-231.html

78 (NdT) “Altre perdite” e “morti”.

79 (NdT) Di Arthur L. Smith, nato nel 1927, professore emerito di storia alla California State University di Los Angeles vedi il noto “The War for the German Mind: Re-Educating Hitler’s Soldiers” [La guerra per le menti tedesche: la rieducazione dei soldati di Hitler] del 1996, Berghahn Books, pagine 214, ISBN: 9781571818928, in lingua inglese.

80 (NdT) “Supreme Headquarters Allied Expeditionary Force” [Supremo Quartier Generale alleato del Corpo di spedizione]. Il QG delle forze alleate nell’Europa nord occidentale dal tardo 1943 alla fine della guerra. Lo comandò sempre il generale Dwight D. Eisenhower.

81 (NdT) Vedi nota 39.

82 (NdT) Località sul Reno

83 (NdT) Il Reichsaußenminister e SS-Gruppenführer Joachim von Ribbentrop fu impiccato il 16 ottobre 1946.

84 (NdT) “Nuremberg: The Last Battle”, di David Irving (fotografie di Walter Frentz), pagine 377, Focal Point Publications, I Ed. 1996, ISBN: 978-1872197166, in lingua inglese. Scaricabile gratuitamente al link: http://www.fpp.co.uk/books/Nuremberg/index.html Ed. italiana: “Norimberga, l’ultima battaglia”, Edizioni Settimo Sigillo, 2002.

85 (NdT) La traduzione di questa frase non è letterale.

86 (NdT) Ilse Koch, nata Köhler (1906 – 1967), moglie dell’SS-Standartenführer Karl Otto Koch (1897 – 1945), comandante dei campi d’internamento di Buchenwald e Majdanek. Condannata all’ergastolo nel 1947, graziata nel 1949, arrestata di nuovo lo stesso anno e condannata ancora all’ergastolo da un tribunale tedesco nel 1951. Si impiccò nel carcere femminile di Aichach nel 1967.

87 (NdT) Sullo “psicocombattente” ebreo Saul K. Padover (1905-1981) e sulla questione Ilse Koch, vedi: “I complici di Dio”, di G. Valli, Effepi, 2009, alle pagine 1124, 2531, 3052 e 3052 del testo su CD.

88 (NdT) Raul Hilberg (1926-2007, ebreo), “The Destruction of the European Jews” di Raul Hilberg, prima edizione del 1961, pagine 1536, Yale University Press 2003, in lingua inglese. Prima ediz. italiana 1995, “La distruzione degli ebrei d’Europa”, Einaudi 1999, 2 volumi, pagine 1358.

89 (NdT) Il virgolettato è del traduttore.

90 (NdT) Benjamin Disraeli, Primo Conte di Beaconsfield (1804–1881), ebreo sefardita di origine italiana, prima liberale e quindi conservatore, fu Primo Ministro del Regno Unito due volte: dal 27 febbraio al 3 dicembre 1868 e dal 20 febbraio 1874 al 23 aprile 1880.

91 Disraeli è citato da Keeling, “Gruesome Harvest…”, cit., pag. 135.

92 (NdT) Domande inutili….”this is democracy, my dear”.

93 Keeling, “Gruesome Harvest…”, cit., pag. 134.

VIA RASELLA E CAVE ARDEATINE – GIOVANNA CANZANO


Di Filippo Giannini

Ho ricevuto una mail dalla brava Giovanna Canzano che invita ad intervenire sui fatti di Via Rasella e conseguente eccidio alla Cave Ardeatine.
Premetto che già, in ripetute occasioni, intervenni su questo argomento e quindi sarà probabile che in alcuni casi mi ripeterò, per questo mi scuso con i lettori.
Andiamo con ordine. Se apriamo il dizionario De Agostini nella voce “soldato” leggo: . “Esercito regolare”; e chi stabilisce che un “Esercito è regolare”? Le Convenzioni Internazionali dell’Aja e di Ginevra del 1889 e la seconda del 1907. Convenzioni che stabiliscono, in modo chiarissimo, il ruolo del “Legittimo combattente”, cioè del Soldato. Dette Convenzioni attestano: . Non vedo una sola voce che possa individuare il “partigiano” al “soldato”, cioè al “legittimo combattente”. Da ciò ne deriva che il partigiano se opera e agisce a danno del legittimo combattente si pone fuori legge. Le Convenzioni all’epoca dei fatti in oggetto, prevedevano: .
Per trattare il tema in argomento (Via Rasella-Cave Ardeatine) è indispensabile conoscere con quali motivazioni le Corti dell’Aja e di Ginevra stabilirono il “Diritto di rappresaglia”: .
Nel 1944-45 il Cln (Comitato di Liberazione Nazionale) era guidato da Giorgio Amendola (comunista), da Riccardo Bauer (Partito d’Azione) e da Sandro Pertini (socialista); tutti e tre persone di cultura, è impensabile che non avessero ben compreso quanto le citate Convenzioni stabilivano. Allora perché ordinarono l’attentato di Via Rasella?
Andiamo di nuovo con ordine.
Quale era la tecnica di lotta che i partigiani ponevano in essere? Ecco uno stralcio del libro scritto da Mario De Micheli “7° Gap”: .
Per meglio documentare quanto sopra, cito uno stralcio de “Il partigiano Johnny” di Beppe Fenoglio: . Sarà che sono stato Balilla e tale ancora mi sento, la mia impressione, leggendo la tecnica di lotta (chiamiamola così) sembrerebbe concepita da un essere demoniaco.
Veniamo ora all’attentato di Via Rasella. Come è noto il 23 marzo 1944 ricorreva il 25° anniversario della fondazione dei Fasci di Combattimento e si prevedeva per quella data una manifestazione dei fascisti. Era in concepimento, quindi, un attentato per riavere indietro una rappresaglia per dimostrare alla popolazione romana quanto fossero cattivi i fascisti. Ma i capi dei Gap scartarono questo obiettivo perché capirono che mai i fascisti avrebbero effettuato una rappresaglia di dimensioni sperate. Ma i tedeschi sì! Data l’ottusità tutta teutonica che li caratterizzava sarebbero caduti nella trappola. In questa sede è superfluo ricordare come si svolse l’eroica azione di Rosario Bentivegna, di Carla Capponi e di altri eroi, ma procediamo citando nuovi fatti. Quel 23 marzo 1944 l’attentato non fu compiuto a danno delle SS, come la propaganda sfascista si affanna ancora oggi a sostenere, ma a danno di militari altoatesini, quindi cittadini italiani, tanto che la maggior parte di essi, sino all’otto settembre 1943 avevano militato nell’Esercito italiano e dopo quella fausta data vennero incorporati dai tedeschi nella Compagnia Bozen. A seguito di quell’attentato non morirono trentatre tedeschi, ma a questi vanno aggiunti altri nove che si spensero nelle quarantotto ore successive. Ma, a smentire quanto ancora oggi si sostiene, cioè che non vennero coinvolti civili, riporto i nomi di quelli certi (infatti il numero esatto dei morti civili non è ancora oggi ufficialmente dichiarato): Fiammetta Baglioni di 66 anni, Pasquale Di Marco di 34 anni. L’eroe che accese la miccia per provocare l’esplosione era tanto impegnato nell’eroica fuga che non si curò di far allontanare il piccolo Zuccheretti di 13 anni, tanto vicino al luogo dell’esplosione che il suo corpo fu frantumato; i suoi piedini non furono mai ritrovati.
Ma cosa si riproponevano con questi attentati i capi dei Gap? Lo attesta chiaramente il fascista-antifascista Giorgio Bocca nel suo libro “Storia dell’Italia partigiana”: . A questa dichiarazione di un ex partigiano, c’è da aggiungere altro? Sì, tanto da aggiungere, ma per il momento voglio ricordare la sentenza del 26/4/1954, emessa dal Tribunale Militare ampiamente dopo la fine delle ostilità, sentenza che mandò in bestia i più alti esponenti dell’antifascismo, dato che, fra l’altro attesto: .
Il resto è più o meno noto, ma sono poco noti (è ovvio) gli sforzi fatti da Mussolini e dai più alti vertici del suo governo tendenti a dissuadere i tedeschi dall’effettuare la rappresaglia. È pure poco noto (anche questo è ovvio) che Amendola dopo l’attentato, si incontrò con De Gasperi dal quale ricevette le congratulazioni per “il grande botto”. Ma c’è qualche altra cosa da aggiungere per rendere il fatto (se possibile) ancora più disgustoso: ancora oggi qualcuno accusa Bentivegna, la Capponi e gli altri eroi dell’impresa di Via Rasella dal non essersi presentati e salvare così la vita ai 335 ostaggi. Non avrebbero potuto, anche se lo avessero voluto, perché consegnandosi avrebbero vanificato quanto i capi del Cln avevano progettato, cioè ottenere quella grande carneficina sulla quale l’antifascismo, ancora oggi fa grande sfruttamento.
In uno dei prossimi articoli, tratterò la legittimità del Governo Badoglio, ma in tale attesa vediamo cosa prevedeva la citata sentenza del Tribunale Supremo Militare: .
E cosa prevedeva la suddetta sentenza per quanto riguarda il partigiano? Ecco dal testo: .
Ogni altra definizione del partigiano la lascio al lettore.
Ed ora, amici lettori, seguiamo un’altra eroica azione del partigiano Bentivegna, Era il 5 giugno 1944, Roma era stata liberata dagli alleati il giorno precedente e il sottotenente della Guardia di Finanza Giorgio Barbarisi, che aveva operato nel fronte clandestino, pur non avendo mai mantenuto contatti con i partigiani, ma con l’Esercito del sud, stava percorrendo a piedi Via delle tre Cannelle a pochi passi dal Quirinale. Il giorno precedente gli alleati avevano imposto la sospensione di ogni attività politica, niente comizi o volantinaggi, né manifesti e assembramenti. In questo clima il sottotenente Barbarisi si stava recando dalla madre per portarle un dono prezioso: due panini. Lungo la via, Barbarisi nota un manifesto che, per sua sfortuna, mostra la falce e il martello; il sottotenente Barbarisi investito della carica di ufficiale di polizia e pertanto convinto di dover assolvere un suo dovere, si accinse a defiggere il manifesto. Non poté completare il proposito perché fu raggiunto alle spalle da un colpo di pistola che lo uccise.
Chi aveva sparato? Ma lui, sempre lui, l’eroico partigiano, Rosario Bentivegna e accanto a lui il suo braccio destro: Carla Capponi. Il processo per l’assassinio di Barbarisi si aprì il 14 luglio successivo e, nonostante la gravità dell’ignobile azione, e nonostante la disperata azione della madre del Barberisi, l’autore dell’ignobile azione non scontò neanche un giorno di prigione. Era nata , come ha attestato Luciano Violante .
Per concludere torno solo un attimo alla mail di Giovanna Canzano. La brava giornalista cita un certo signor Bruno Sordini, che non conosco, il quale scrive: . Il signor Sordini si riferisce all’intervista concessa alla signora Giovanna Canzano da Giovanni Lubrano. Credo che il signor Bruno Sordini sia una brava persona, una delle tante e tante truffate e menate per il naso da questa democrazia nata dalla Resistenza.
Dimenticavo: per l’azione di Via Rasella Rosario Bentivegna venne decorato con la Medaglia d’Argento, la Capponi con quella d’Oro. Alla notizia di queste decorazioni molti legittimi combattenti per protesta restituirono allo Stato le loro onorificenze.

Se qualcuno pensa che l’uomo sia uscito dalla “caverna” di Platone, o è illuso, o è in mala fede

Sono riflessioni libere, ma motivate da chi forse è affetto da berlusconismo acuto, ma che in certe occasioni, non questa, ha, secondo me, una base logica di ragionamento e di ragione.
Rif a una lettera: “…Berlusconi ha vinto e VINCE perchè sa intercettare una certa situazione REALE…”

Se qualcuno pensa che l’uomo sia uscito dalla “caverna” di Platone, o è illuso, o è in mala fede!

berlusconi non vince le elezioni perché sa intercettare i desideri del popolo che vuole solo essere ricco, e caso mai è intercettato, ma bando ai risolini perché la questione è seria!
berlusconi non vince le elezioni perché sa intercettare, ma perché compra! E oggi può farlo sistematicamente perché ricchissimo si è appropriato di un piano non suo, ma concepito da menti acute e astute che furono oscuri personaggi della Massoneria del Grande Oriente d’Italia e della sua creatura, la P2 gelliana, fondata nel 1936 dal malevolo banchiere intrallazzista Adriano Lemmi che volle una Loggia Coperta in cui non avevano albergo pensatori e poveracci, ma ricchi farabutti con la mira della conquista della finanza. Da tenere presente che la Propaganda 2 (P2) nulla aveva a che fare con la Loggia Propaganda di Torino, infatti, quella non era coperta, e aveva origine stuartista. “Loggia Coperta” in Massoneria significa che vi sono “Fratelli” non noti ad altri “Fratelli”, ma nessuno di loro era noto all’esterno, tra i profani, se non i personaggi di comando.
Oggi con la “Rognoni/La Torre” dovrebbe essere tutto visibile ma con questo Governo… chissà!
Ma nel piano massonico nazionale, in cui si trovò berlusconi, c’erano altri “cavalieri disonesti” aventi stemma sul gentilizio: “Mano rampante in campo altrui”… E parteciparono anche servizi deviati, e generali e… aerei che caddero con morti e attentati. Ma anche la mafia non stette a guardare la “borsa che si riempiva”… e in Sicilia, con similare visione e contatti sorsero il G…O…S… e la famigerata CAMEA con contatti a Montecarlo, a San Marino…
La storia parve insabbiarsi ai tempi di Armando Corona (G…O…I…), di Spadolini (PRI), di Craxi (PSI), di Ugo La Malfa… e poi banchieri e IOR…
Ma dalla lotta per la successione e il controllo delle forze “oscure” sorse, non so come, il malato ex piduista berlusconi, così lo definì anche la moglie facendo capire: “La sua malattia è nella testa”.
E per lui qualunque spesa è “comoda” pur di stare al potere, ovviamente comportandosi da concussore e concusso secondo occasione, e mantenere, ingigantendo, il proprio patrimonio. Che poi il suo agire collimi con altre menti deviate, credo che a lui non importi purché lo tengano al potere. (Aspettiamoci ogni broglio possibile, anche elettoralmente).
Ma sino a che la gente non ha coscienza che il capitalismo o l’ultra liberismo sono filosofie nate morte, anzi concepite morte, sarà l’epoca dei principi mercanti, così come volle il patto sinarchico interbancario che costruì le logge della Massoneria Deviata.
La via del futuro sarà di tornare allo STATO SOCIALE, se quei pazzi affetti dalla sindrome di Sansone, ossia del “muoia Sansone con tutti i filistei”, ci lasceranno sopravvivere visto il loro armamento atomico e la capacità di colpire il mondo intero per sostenere il loro essere “proprietari del mondo”, colpa degli ameri-cani e delle ameri-cagne u$a!
L’inesplorata via socialista è il solo possibile Futuro. Via socialista di cui il Fascismo fu una costola importante. Via non voluta condividere dalla perfida “protestante” Albione e dai propri ignoranti cugini d’oltre oceano che bramavano, insieme ai nascenti opportunisti sionisti, il dominio su tutte le nazioni

*
Un po’ di storia per chiarire.
Il pazzesco sogno giudaico/sionista/protestante oggi in voga per la forza delle loro armi, e di cui i berlusconi/sarkozy/blair/draghi/bush/clinton/kissinger… sono frutto e pedine, prese storicamente le mosse da Enrico VIII, quando si appropriò delle tesi di John Wycliffe (teologo francescano insegnante ad Oxford), del nuovo credo calvinista e delle posizioni luterane che cominciavano a fare breccia. La semplice questione d’Enrico VIII era solo scatenarsi dai tributi che la sua Isola doveva pagare al sempre infido, rapace, immorale “papa/re” di Roma.
Da allora, nella classe dirigente nobiliare dell’Inghilterra divenuta protestante, fu cercata la formula per piegare al proprio servizio il credo cristiano che non si poteva cancellare dall’Isola perché già troppo radicato nella gran massa popolare. Politicamente però riuscirono a distinguerlo dal cristianesimo romano descritto come fonte immorale e degno d’ogni male (John Wycliffe- Calvino- Lutero e altri) e l’ultimo gran colpo infertogli furono proprio le tesi luterane. [Non avevano tutti i torti! Mio pensiero].
L’azione necessariamente condusse ad avvalorare la bibbia che, per perfezionamento politico “Protestante”, fu riscritta per ben tre volte correggendola secondo utilità.
Nel frattempo si negarono i vangeli, anche questa fu azione politica che diresse a cercare una “patente”, un “crisma” che permettesse, più vecchio del cristianesimo romano, di ostentare un titolo di nobiltà fideistica/morale/politica che il nuovo credo aveva a necessità per mostrarsi valido alle folle delle proprie latitudini.
Ecco quando e come sorsero le radici giudaiche di cui straparla, per opportunismo, anche il Parlamento Europeo.
Ecco perché l’Italia è “scomoda e fa paura”, e deve essere “serva” in Europa.
Ecco il reale motivo per cui il Fascismo fu combattuto e disperso.
Fu la paura degli scemi del Nord ad essere civilizzati!
Infatti, vuoti d’idee filosofiche e dottrinarie, prima caddero preda della grande Roma, poi soggiacquero al cristianesimo cattolico per circa un millennio, poi potevano cadere davanti all’intelligente Fascismo… ma si opposero e vinsero Purtroppo ciò avvenne per una scelta obbligata (le sanzioni), ma anche per altro, che costrinsero Mussolini a scegliere la “Via Ariana” con cui l’Italia nulla ha da spartire poiché siamo LATINI.
Ecco come si giustificano le angherie economiche che subiamo, ed i massacri di guerra che furono fatti subire, per vendetta, alla piccola e povera Italia, ma CAPUT MUNDI.
Ricordo tra tutti un massacro voluto, e non accaduto perché le bombe erano innescate… potevano scaricarle sulle Alpi, in campagna, invece le scaricarono su un piccolo abitato: “GORLA” per fiaccare e punire lo spirito indomito degli italiani di quel tempo!

*
Ritorniamo a qualche altro concetto della storia narrata.
L’istinto di rivalsa protestante contro l’odiata Roma, come già riferito, in questo modo permise all’ebraismo esoterico l’ingresso nella vita politica di quel tempo, ed anche nei “salotti bene” della Massoneria. Istituzione che era nata, con concetto storico moderno , e non esoterico del tutto inventato, durante il periodo d’affermazione delle “Gilda, Hansa, Gremios, Compagnonage”, dal 1150 in poi. Tanto è che la Massoneria dell’inizio era solo una specie di sindacato di “corporazioni” in cui l’esoterismo non aveva parte attiva.
Essa, in quel tempo, era autorizzata con bolla imperiale a manifestarsi in luoghi appartati, ma la “bolla” poteva essere rilasciata anche da rappresentanti periferici. [Si veda, la “Carta di Bologna” del 1248].
Il luogo di riunione, sempre lo stesso, doveva essere dichiarato insieme ai partecipanti, ed era obbligo esporre il “quadro di loggia”, ossia la bolla di fondazione imperiale, poi divenuto, nell’ottocento italiano ed estero, quadro esoterico di grado diverso secondo le riunioni svolte.
Fu con il 1717 che avvenne la rivoluzione sociale massonica, perché la nobiltà anglosassone e poi francese era decadente, sovente indebitata con usurai ebrei, e ciò fece sì che, per i traffici con le colonie delle Americhe, l’arricchito “terzo stato” volle vestirsi e portare la spada come i nobili, facendo ingresso anche in Massoneria.
Da quel momento gli ignoranti boriosi bottegai del tempo, non diversamente da quelli contemporanei, notai, avvocati, medici, ricchi imprenditori… cercarono una loro nobiltà, e, forti della propria stupidità e dell’esoterismo ebraico biblico/giudaico che era la sostanza del protestantesimo si diedero titoli altisonanti come Maestro Segreto, Cavaliere Kadosch, Cavaliere del Serpente di Bronzo, Sovrano Gran Commendatore dell’Areopago… e la storia massonica, in mano agli imbecilli, degenerò.
Ma un’altra ala massonica, quella Scozzesista stuartista non si affiancò al protestantesimo rimanendo vicina al cattolicesimo di Roma.
E’ certo che già nel XV secolo essa esisteva in Scozia con il titolo distintivo “Gran Loggia di San Paolo di Scozia”. Conosciamo anche uno di quei Gran Maestri, Cristopher Wirth che morì verso l’età di 80 anni. La sua Loggia si riuniva con la dicitura (tradotta): “Sotto gli auspici della Santa Madre Chiesa”, e non con la dizione ” A…G…D…G…A…D…U… o A…G…D…G…G…D…U… o A…U…T…O…S…A…G…” secondo i gradi interni. Di questa congregazione massonica i Protestanti massoni scozzesi e inglesi fecero sparire ogni traccia, ma qualche documento è gelosamente ancora conservato e trapelato.
Che ci sia stata anche una Massoneria cattolica è dimostrato dal drappello di stuartisti che giunsero a Roma nel 1718, speranzosi nell’aiuto del papa per riconquistare il regno che avevano perduto. Lì fondarono nel 1730 la prima loggia massonica italiana, ma incontrarono le ire di Benedetto XIII e poi di Clemente VI che promulgò la bolla “In Eminenti”, l’atto d’accusa che poneva i massoni in stato di scomunica ritenendoli difensori dei giudei e perciò definendoli “sinagoghe di satana” anche per l’onta subita da parte degli inglesi nel XVI secolo, ma pure per colpire ogni possibile infiltrazione protestante in Italia che avrebbe condotto con sé il giudaismo ebraico!
Poi la massoneria, invasata da esoterismo, succube della politica di cui però anche riusciva a servirsi, ricca per i suoi appartenenti si configurò sempre più propriamente divenendo un polo di potere cui tutti ambirono anche nell’Italia pre prima guerra mondiale.

*
Oggi, imbecilli, (riferimento generico a NESSUNO INDIRIZZATO), più gentilmente i poveri di spirito, credono che il berlusconi sia un grande uomo perchè ricco, e si lasciano comprare dal sogno o dai cento euro offerti dal Partito, dunque da Noi rapinati anche di questo denaro, e poi anche dal viaggio che li ha condotti in vacanza sino a Roma con colazione inclusa nel pacchetto “panem et circenses”.
Ma i poveri di spirito anche non comprendono che dietro ogni gran patrimonio c’è il furto o l’omicidio, sempre.
Berlusconi deve essere combattuto con qualunque mezzo, in qualsiasi maniera perché è una piaga sociale, un insulto all’intelligenza d’Italia, almeno di quella sua stirpe indomita che ha sangue della Lupa Capitolina.

kiriosomega

tratto da: http://www.italiasociale.org/lettere/lettere250310-1.html

Ferriera di Mongiana – Calabria – Un esempio che dice tutto sull’unità d’Italia


Di Pino Aprile

da La Stampa di Lunedì 19 Gennaio 2009, pag.19

L’Unità d’Italia uccise la più grande acciaieria del Sud “Artigiani del ferro qui a mongiana? Nemmeno uno. Dopo quel che gli hanno fatto…”. Il dottor Vito Scopacasa, cardiologo, è sindaco del paese.

“Qui c’erano le più grandi e moderne acciaierie d’Italia, sino al 1860”, spiega Sharo Gambino, da poco scomparso, cantore delle Serre calabresi.
“Importavano maestranze bresciane, tecnici inglesi, francesi, svizzeri, tedeschi, in aggiunta ai locali”. Ora, non un fabbro, dov’erano sino a 1500 operai siderurgici.
L’Unità d’Italia comportò smantellamento e svendita (come ferrovecchio) degl’impianti, fine d’una tradizione millenaria, emigrazione nel bresciano, a Terni, negli Stati Uniti, in Canada.
“E adesso potremo raccontarlo”, dice il dottor Scopacasa. “Fatto questo, smetterò di fare il sindaco”.
“Questo” è recuperare gli stabilimenti, farne un museo, ridare vita e memoria a Mongiana. Per messa in sicurezza degli ambienti, acquisto di arredi e materiali sono arrivati 600mila euro dalla Regione Calabria(dai beni culturali, mai niente). “In estate dovremmo avere i turisti al museo. Lo gestirà una Fondazione privata, il comune avrà funzioni di controllo. Ci sono voluti 34 anni”.L’Orgoglio
Come racconti il quieto orgoglio di questo professionista, mentre entra, fra due storiche colonne di ghisa, nella fabbrica risorta; mostra l’area-altiforni, dove, in estate, hanno fatto concerti? “Gente che non si è mai mossa da Mongiana non sapeva cosa c’era qui: e fabbrica, altiforni sono fra le case di periferia!
Rimozione mnemonica. Si è voluto dimenticare, per difesa di un dolore troppo forte. Non tutti ci sono riusciti. “Sorse la ferriera, più di 200 anni fa, poi il paese”, ricordava la signora Marisa Tripodi, originaria di Mongiana(amministrava una fonderia a Lumezzane, Brescia).
“Chiuso lo stabilimento, iniziò a morire il paese. Lo lasciai a 19 anni, negli anni sessanta, Un secolo prima, spenta la ferriera, partirono per le Americhe solo uomini, chè speravano del ritorno. Noi no: via a famiglie intere; ci chiudevamo la porta alle spalle e un’altra casa restava muta. Mia nonna e la mia bisnonna lavoravano in ferriera. La campana della chiesa annunciava la paga.

Noi mongianesi sradicati ci siamo ritrovati nelle fonderie del bresciano: 150 famiglie di Mongiana, circa 500 persone, solo a Lumezzane che è ormai la vera Mongiana, per noi delle Serre: quella originale, nel parlare comune, è ridotta a “Mongianella”. Le nostre migliori forze e intelligenze le abbiamo spese lontano. Mi dispiace non averlo fatto per il mio paese. E’ un rammarico, sa?
Un rammarico che sfiora la colpa: ma cosa potevamo fare?”Si sale a Mongiana, dallo Jonio o dal Tirreno, per strade, storte e strette; sul fianco di monti instabili, distanze che il tempo dilata. Era il più ricco distretto minerario e siderurgico del Regno delle Due Sicilie. I Fenici già producevano ferro qui; nei 900 anni prima dell’Unità, la siderurgia fù l’industria delle Serre, alimentata da minerali ferrosi di queste rocce, tecnici e operai locali, energia ricavata da boschi, cadute d’acqua e carbon fossile del posto. Solo Cesare Fieramosca, fratello scemo di Ettore, (l’eroe della disfida di Barletta), che ebbe in feudo l’intero distretto siderurgico, non seppe che farsene.Ci capitò nel 1974, l’architetto Gennaro Matacena, napoletano, specialista in archeologia industriale e restauro monumentale(suo il recupero delle Fonderie Medicee di Follonica): “Mi impressionarono le colonne di ghisa. In paese, nessuno ricordava nulla: reticenza, imbarazzo, pudore… Dissi all’allora sindaco, Vincenzo Rullo: “Sa che lei ha un tesoro?” Lui spuntò un finanziamento dalla Cassa per il Mezzogiorno e acquistò la parte di fabbrica divenuta privata. Nell’antica residenza del capitano-sindaco ci indicarono una cassa: “Ci sono carte, lì…”: la pianta del paese e degli stabilimenti(poi restaurata nell’abbazia di Cava dei Tirreni)!”I BorboniFerriere e fonderie sono sul salto dell’Alaro. “Che emozione”, dice Matacena, “rinvenire, negli archivi di stato(grazie burocrazia borbonica!), lettere e documenti che raccontano vita e lavoro di quegli uomini”.Gli operai si sistemarono in baracche a ridosso degl’impianti. La bidonville conquistò, pian piano, pareti di pietra, poi un prete, la chiesa, adeguamento delle paghe, medico, farmacista, giudice di pace, esenzione della leva militare per gli operai e la prima cassa mutua per operai siderurgici, al mondo, ricordano Brunello De Stefano Manno e Gennaro Matacena(prossimi direttore e presidente della Fondazione), nel loro prezioso volume ‘Le Reali Ferriere ed Officine di Mongiana’. Gli abitanti salirono a quasi duemila. “Oggi meno della metà”, dice il sindaco. “Si campa di foresta e Forestale”.“Attenti ai … bisogni degli operai, i Borboni fecero costruire ‘luoghi immondi’: gabinetti, roba da signori, mica cespugli!”, narrava Gambino. “Ferdinando II si recò a Mongiana, per sancirne, con la sua presenza, l’interesse strategico. Aveva ordinato di gettare un ponte su un torrente. “Guagliò e ‘o ponte addò sta?”, chiese al funzionario incaricato. “L’avimme passato, maestà”. E il re: “M’avite futtuto!”L’acciaio delle Serre rese autono il Regno per la produzione di armi, i primi ponti sospesi in ferro d’Italia, la cantieristica della seconda flotta mercantile al mondo, dopo quella inglese, e l’industria ferroviaria di Pietrarsa: la più grande della Penisola(molti Paesi inviarono tecnici a studiarla; lo zar la fece copiare e riprodurre identica, in Russia: sorsero così le celebrate Officine di Kronstadt; i Savoia mandarono un generale; unificato il Paese, la fabbrica fu ridimensionata e si sparò sugli operai che protestavano: una strage).I riconoscimentiAncora nel 1861, gli acciai di Mongiana sono premiati all’Esposizione Industriale di Firenze el’anno dopo, a quella Internazionale di Londra. Ma per Torino, la ‘Ruhr calabrese’ è da chiudere. La scoperta genera incredulità, risentimento, protesta, poi furti, vandalismi, nei boschi compaiono i briganti, la casa del comandante è assalita, la folla calpesta il tricolore, vota ‘no’ al referendum per l’annessione.La delusione, scrissero gli amministratori comunali al governo, portò il crimine a un paese in cui, in un secolo, ‘possono attestarlo le Autorità civili della Provincia e le Statistiche de’ Tribunali’, mai c’era stato ‘un delitto di sangue, non un furto, non un reato’; perché i mongianesi rispettano ‘come sacra la legge, le persone, la proprietà e muoiono onoratamente di fame’. Esagerazioni? “L’emigrante proclamato, dagli Stati Uniti, ‘italiano più onesto d’America’ era di Mongiana”, dice il sindaco. “Mio prozio”.Gli altiforni furono spenti per sempre, le rotaie delle miniere vendute a peso.

Il complesso ceduto a un ex-sarto e garibaldino, poi deputato, coinvolto in una truffa allo stato. Mongiana fu condannata, perché si ritenevano sorpassati impianti siderurgici in montagna e non sul mare. Ma chiusa quella calabrese, si costruì l’acciaieria di Terni, fra monti più lontani dal mare: lì vennero fusi i macchinari di Mongiana.Nell’ultimo appello del consiglio comunale al governo unitario, si assicurava che gli operai erano disposti a ridursi la paga; retribuire loro, i capitecnici; e a produrre cose minime: pesi a metà del prezzo che lo stato pagava ad altri, contatori per mulini a lire 75 l’uno. A 100 lire, ebbe l’appalto una ferriera di Torino, ma i contatori risultarono difettosi.Ora, l’ex distretto siderurgico più grande d’italia, fa della memoria, pane.
“Museo, più indotto e centro di biodiversità della Forestale, e Mongiana”, dice il sindaco, “non risorge: nasce. Chè mò non è niente”.

tratto da: http://remigioraimondi.blogspot.com/2009/01/di-pino-aprile-da-la-stampa-di-luned-19.html

Thomas More o Tommaso Moro – Utopia 1516


A cura di Diego Fusaro

Con Thomas More , latinizzato in Tommaso Moro ( 1480 – 1535 ) gli ideali umanistici si diffondono in Inghilterra con gli stessi caratteri che avevano avuto in Italia nel Quattrocento : gli studi letterari non devono mettere capo a un’ oziosa erudizione , ma promuovere un fattivo impegno nella realtà civile . Questo impegno More lo testimoniò con la vita : cancelliere del regno , egli fu condannato a morte da Enrico VIII per essere rimasto fedele alla Chiesa cattolica , quando il re , per risposarsi , chiese al papa , senza ottenerlo , l’ annullamento del precedente matrimonio . Carattere politico ha anche l’ opera più nota di More , Utopia ( 1517 ) . In essa More delinea , sulla scia di quanto già aveva fatto Platone , il suo ideale politico , che immagina realizzato in un’ isola chiamata appunto Utopia , cioè il ” non luogo ” ( dal greco ” ou ” , non , + ” topos” , luogo ) o ” luogo che non esiste ” . Di qui l’ uso del termine per indicare ogni progetto socio-politico che abbia un valore esclusivamente ideale , non trovando concreta realizzazione da nessuna parte del mondo . E’ interessante notare la distinzione tra i due aggettivi , utopico e utopistico che derivano dal progetto politico di More ; “utopistico” è un qualcosa di negativo che si pretende realizzabile , ma che per fortuna non lo è : utopistico è il Comunismo russo .
“Utopico” è un concetto tipicamente progressista che induce a vedere il mondo , che molti credono buono così come è , imperfetto e migliorabile : il progressista ha un atteggiamento sempre volto al cambiamento . Tornando a More , alla base della sua costituzione ideale egli pone il rifiuto della proprietà privata , come già aveva fatto Platone , che é principio di egoismo e di conflitto . Gli abitanti di Utopia , del resto , non lavorano a scopo di lucro , ma soltanto per provvedere ai beni necessari alla propria esistenza . In questo modo , dal momento che tutti esercitano un lavoro manuale ( pure le donne ) , le ore di attività possono essere ridotte a sei al giorno . Rimane così molto tempo per l’ educazione : particolare attenzione viene riposta nello studio delle scienze naturali e della filosofia morale , mentre sono trascurate discipline astratte come la logica e la metafisica .
Dal punto di vista politico – amministrativo i cittadini dell’ isola sono divisi in 54 comunità cittadine , rette da funzionari eletti democraticamente : ma nei casi di decisioni gravi viene convocata l’ assemblea dell’ intera popolazione . Da notare che il carattere politico di Thomas More é in rapporto con la situazione storica che si veniva creando nell’ Inghilterra del ‘500 : in seguito all’ appropriazione delle terre da parte dell’ aristocrazia ( con gli ” enclosure acts ” ) e alla sostituzione dei vasti pascoli alla cerealicultura , i signori traevano più lauti guadagni dall’ industria della lana , mentre i contadini erano gettati nella miseria ; onde , come More osservava amaramente , ” i montoni divorano gli uomini ” ; nella città ideale di Utopia , invece , non c’é miseria nè disuguaglianza : il lavoro é obbligatorio per tutti e ognuno lavora per la comunità . La comunione dei beni libera ciascuno dal bisogno e dalla paura , assicura cioè a tutti la vera ricchezza . Le magistrature a Utopia sono elettive e ciascuno , dopo le sei ore di lavoro quotidiano , é libero di coltivare il proprio spirito . A Utopia non potrà mai accadere , come invece accade nelle altre città , che uomini ricchi , privi di cultura e di moralità , comandino su persone colte e virtuose , nè che vi si accendano e si esasperino le lotte e gli egoismi . Per quel che concerne la religione , si tratta di una religione naturale , a fondo monoteistico ; pur professando religioni diverse , gli abitanti di Utopia ( gli utopisti ) riconoscono nei vari dei un unico Dio ; ciascuno é libero di professare la sua religione e può anche fare opera di proselitismo , ma senza usare mezzi coercitivi : chi li usa é condannato all’ esilio o alla servitù . Tuttavia nell’ opera traspare un netto rifiuto dell’ ateismo da parte di Tommaso Moro ; se é vero che ad Utopia vige la più totale libertà di culto religioso , é altrettanto vero che gli atei sono esclusi ; essi , infatti , sono , secondo Moro , i più intransigenti e intolleranti : vogliono a tutti i costi inculcare nelle menti altrui le proprie concezioni . Il legislatore di Utopia si é di proposito rifiutato di legiferare in materia religiosa e di imporre particolari riti o credenze perchè forse Dio stesso ama la varietà e la molteplicità dei culti . Questo motivo , che più che di tolleranza può essere considerato di vera libertà , deriva direttamente , nell’ immagine e nell’ espressione , da Cusano e da Ficino : é il motivo che sfronda le diverse ispirazioni religiose dei propri elementi differenziali e le risolve , in definitiva , in un’ unica religione entro i limiti della ragione . Può sorprendere che ad affermarlo sia chi , come More , é animato da una particolare fede , quella cattolica , e per essa ha anche affrontato , con serenità , il martirio . Ma in realtà la riforma di More é realizzata nell’ immaginario stato di Utopia , vale a dire fuori dallo spazio , nella pura ragione del pensiero , non é riforma propriamente volta ad operare in concreto in una concreta società .

Riassunto di UTOPIA

Perchè il nome Utopia : La parola Utopia venne usata per la prima volta da Tommaso Moro, che in una sua opera del 1516 esponeva le usanze, le abitudini e i costumi del popolo dell’isola di Utopia, del quale sentì parlare da un marinaio; la controversia sull’origine del nome è dovuta al fatto che nell’opera di Moro viene presentata una società che ha entrambe le caratteristiche. L’origine più probabile rimane comunque quella di “non luogo”, in quanto era intento dell’autore descrivere una società che fosse in qualche modo perfetta, ma che purtroppo fosse anche impossibile da realizzare. Ad avvalorare quest’ipotesi c’è anche l’uso da parte di Moro di alcuni nomi quali ademo (senza popolo) per designare il principe, Anidro (senz’acqua) per indicare il fiume vicino ad Amauroto (città invisibile), la città principale dell’isola di Utopia, che in precedenza fu chiamata Abraxa (dove non piove) di re Utopo. Il libro inizia con una lettera indirizzata ad un suo amico, Pietro, con il quale ascoltò il racconto sull’isola di Utopia; in questa lettera Moro chiede se per favore Pietro potesse correggere la sua trascrizione del racconto, allo scopo di evitare che ci possano essere degli errori. Di seguito alla lettera inizia la vera opera, che è divisa in due libri. Nel primo libro Moro descrive il suo incontro ad un ricevimento con l’amico Pietro, che coglie l’occasione per presentargli un personaggio che sicuramente sarebbe interessato all’autore, un marinaio esperto conoscitore di terre lontane a causa dei suoi lunghi ed innumerevoli viaggi: Raffaele Itlodeo. Dopo aver fatto conoscenza i due, assieme a Pietro, decidono di ritirarsi in un posto appartato e di iniziare a discutere. Durante la prima parte del dialogo vengono analizzati i vari problemi della monarchia inglese, discussione che sorge dal diverbio successivo alla proposta di Moro secondo cui Itlodeo poteva essere utile in carica di consigliere per un sovrano europeo in quanto era dotato di buon senso e di esperienza, essendo rimasto per cinque anni nell’isola di Utopia. In realtà il motivo per cui Itlodeo rifiuta ritenendo di non essere adeguato all’incarico è proprio il fatto di aver vissuto per un così lungo tempo in quella società: egli sa bene, infatti, che il modello utopico fosse irrealizzabile in qualsiasi altro stato a causa delle sue caratteristiche. Fra i problemi individuati vengono messi in risalto: la nobiltà parassitaria e i lati negativi della proprietà privati fra i quali, soprattutto, la divisione che faceva tra ricchi e poveri. Questi ultimi, infatti, erano fortemente dipendenti dalla nobiltà che li costringeva a mendicare e a fare lavori poco retribuiti. Inoltre viene trattato la questione della pena di morte e il fatto che, con questa, fossero puniti anche i ladri che erano in molti casi costretti a rubare per necessità. In generale possiamo dire che vengono trattai tutti quei problemi cui, nel secondo libro, tramite la narrazione del racconto di Raffaele Itlodeo, Moro cerca di dare una soluzione pur sapendo che l’isola da lui ipotizzata è del tutto irrealizzabile. Nella seconda parte dell’opera – che coincide con il secondo libro – il discorso di Itlodeo si sposta sulla descrizione dell’isola secondo i suoi più vari aspetti.

La società : I cittadini di Utopia sono secondo la legge tutti uguali, anche se in realtà all’interno della società esistono delle differenze di classe. La divisione più sostanziale che possiamo trovare tra i cittadini è sicuramente quella tra uomini liberi e schiavi. Secondo lo statuto utopico tutti gli uomini nascono liberi; gli schiavi, infatti, non sono né prigionieri di guerra né figli d’altri schiavi, semplicemente presso gli utopici la schiavitù è una pena assegnata per i reati più gravi. Agli schiavi sono destinati i lavori più umili, mentre c’è l’uguaglianza tra gli altri cittadini. In realtà però anche tra i cittadini liberi esistono delle differenze di classe, che comportano alcuni privilegi per una di queste. Tutti gli uomini devono per legge avere un lavoro, anche se in realtà esiste una rotazione tra campagna e città, in modo che nessuno sia costretto a svolgere solamente i lavori agricoli nella sua vita. La società degli utopici è in realtà basata sul sapere, basti pensare alla classe sociale esente dal lavoro: gli uomini di lettere o sifogranti. Infatti i lavoratori hanno a disposizione nella loro giornata sei ore non lavorative, che possono dedicare allo svago o, se vogliono, allo studio; privilegiato è lo studio della letteratura. Tra questi vengono scelti i più meritevoli e vengono esentati dal lavoro, ed è da questa classe sociale che vengono scelti gli ambasciatori, i sacerdoti e le persone facenti parte delle istituzioni.

Le istituzioni : L’isola di Utopia è una federazione di 54 città, in ognuna delle quali il potere legislativo, giudiziario ed esecutivo è nelle mani del senato. Il senato in ogni città è formato da un principe (eletto a vita), da filarchi e da un protofilarco, eletto ogni dieci filarchi. Il principe è eletto dai protofilarchi d’ogni città che devono votare tra i quattro candidati che la città stessa designa. Oltre a questo senato all’interno delle città, ogni anno si tieni un ulteriore senato ad Amauroto con tre rappresentanti di ogni città. L’intero stato è basato sulla democrazia che viene materialmente rappresentata dai comitia publica, sede e istituzione principale. Non esiste un capo assoluto, addirittura ci sono leggi che evitano l’insediarsi di un potere tirannico, come per esempio il prendere decisioni politiche al di fuori del senato. Le leggi sono poche e chiare, in modo che la reggenza dello stato sia basata su pochi ma saldi pilastri, e che in questo modo possano essere tenuti bene a mente dai cittadini. Per la difesa dell’isola non esiste un esercito stabile, di conseguenza, in caso di guerra saranno gli stessi cittadini a difenderla. Preciso dicendo “difenderla” in quanto gli utopici non attaccano mai una popolazione vicina, ma si limitano a difendere l’isola o le loro colonie quando queste vengono attaccate. Il diverso modo di pensare influisce sugli utopici anche durante le guerre, in quanto essi ritengono vergognosa una vittoria ottenuta con un grandissimo spargimento di sangue, poiché secondo loro “sembra ignoranza pagar troppo caro una merce, per quanto di pregio”. Secondo questo loro modo di vedere è molto più gratificante una vittoria ottenuta con un inganno, ma che riesca a ridurre le vittime.

La famiglia : Il nucleo fondamentale della società di Utopia è la famiglia, sia nel campo economico che politico. Essa è unità base della politica, giacché decide per l’elezione dei filarchi (uno ogni trenta famiglie) e dei candidati al principato. Questa è anche la prima tappa produttiva dell’agricoltura ed entità fondamentale della società. All’interno della famiglia a comandare è il più anziano, o, in caso disturbi dovuti ad una eventuale avanzata senilità, il parente prossimo più anziano. Anche all’interno della famiglia perciò ci sono delle differenze, per esempio il fatto che i figli devono ubbidire ai padri e le mogli ai mariti. Grande importanza è poi attribuita al matrimonio, tanto che le leggi sono molto più severe su quest’argomento, anche allo scopo di preservare la famiglia e la moralità. È per questo che come per qualsiasi altro “commercio”, prima del matrimonio i due interessati vengono spogliati nudi e fatti vedere all’altro per la decisione finale e per verificare che nessuno dei due abbia imperfezioni fisiche che non aveva in precedenza fatto presente all’altro, per evitare così che il rapporto sia contratto senza il pieno amore e conoscenza dell’altro, e che sono vietati i rapporti precedenti il matrimonio.

L’economia : L’economia di Utopia è fondata sul lavoro, tanto che, come abbiamo già detto in precedenza, ognuno ha il dovere nella propria vita di imparare un lavoro; nonostante questo tutti i lavoratori di Utopia hanno il dovere, a rotazione, di lavorare in campagna; la rotazione è stata scelta affinché nessuno debba lavorare ingiustamente più degli altri, anche se questa rotazione non è così rigida come si potrebbe immaginare, e per rendersene conto basti tener presente il fatto che chiunque, se mosso da vera passione per il proprio lavoro può ottenere dei cambiamenti, a volte anche di un mese o più, sui turni. Preoccupazione dei sifogranti è che nessuno passi le sue giornate nell’ozio, ma che tutti abbiano un’occupazione; preoccupazione di questa classe sociale è però anche che nessuno debba fare più lavoro di quanto gliene spetti (a meno che non lo voglia lui di sua spontanea volontà lavorando anche in una parte delle sei ore che ognuno ha a disposizione), e per questo motivo la giornata lavorativa di ognuno è di sei ore. Moro precisa nella sua opera di non lasciarsi ingannare dal fatto che la giornata lavorativa sia così brave, in quanto poiché tutta la popolazione lavora non c’è mai mancanza di generi di prima necessità. Un altro punto sul quale è importante soffermarci è sicuramente l’atteggiamento degli utopici di fronte all’uso dei metalli e delle pietre preziosi come per esempio l’oro. L’atteggiamento delle persone rispetto all’oro è di rifiuto, siccome essi pensano che non sia necessari per il cittadino doversi abbellire con questo genere di oggetti (l’unico uso che “rientri nella norma” è per gli scambi esteri con le altre popolazioni), e perciò li usano in modi alternativi. Le pietre preziose vengono usate dai bambini per giocare, in quanto non sono ancora in possesso del modo del modo di pensare delle persone adulte, anche se verso i quindici anni anche loro le abbandonano; l’oro viene usato come materiale per i più svariati oggetti – Moro cita addirittura vasi da notte – e anche per cingerei polsi agli schiavi, perciò come segno di riconoscimento per loro.

La religione : In Utopia non vi è nessuna religione di stato ed è concesso a tutti di venerare il dio che ognuno sceglie. Nonostante questo però l’ateismo non è accettato, in quanto secondo il loro modo di vedere l’ateismo corrisponderebbe ad un abbassamento della natura dell’anima degli uomini, che per loro invece deve essere rispettata. Come abbiamo già affermato la parola “utopia” nasce con l’opera di Tommaso Moro, ma il concetto che essa esprime è molto più antico. Infatti la nascita delle dottrine politiche utopistiche viene comunemente associata con Moro, ma questo è in realtà un discorso valido solamente per il periodo moderno, in quanto nell’antichità furono scritte altre opere a carattere utopistico. La prima opera di questo genere che la storia ricordi è sicuramente la Repubblica di Platone, che, anche se da un lato è connessa alla concreta base della polis greca, dà comunque un modello idealizzato, in quanto per il filosofo l’uomo si poteva realizzare solamente come cittadino, non come singolo individuo, e questo stato ideale era pensato proprio per questa funzione. Il mondo romano, invece, è povero o addirittura privo di tendenze utopistiche. Il suo forte senso giuridico, l’orgoglio realistico della civis, la scarsa propensione all’astrazione filosofica, la concretezza di questo popolo, la stessa potenza politica e vastità territoriale non ne favorirono certo lo sviluppo. Questa situazione continuò in seguito anche nel medioevo, dovendo perciò aspettare l’umanesimo per rivedere altre opere utopiste. Queste opere vengono infatti riscoperte proprio in questo periodo a causa del cambiamento culturale: difatti la seconda metà del cinquecento e il seicento rappresentano il periodo immediatamente successivo all’umanesimo; una delle conseguenze più importanti di questo movimento di pensiero fu sicuramente la valorizzazione dell’uomo come essere razionale, concezione che portò poi all’affermazione della ragione. Questo portò in seguito ad una più completa autonomia dell’uomo, che contribuì ad una laicizzazione del sapere. Quest’evoluzione, che per alcuni storici segna il passaggio da pseudoscienze a scienze vere e proprie, ebbe come conseguenza la formazione di nuove dottrine politiche e la rivoluzione scientifica. Le dottrine politiche di questo periodo sono le utopie, e il realismo di Machiavelli, che per le loro caratteristiche sono una l’opposto dell’altra; Machiavelli, infatti, preferì partire da un’analisi della realtà, facendo riferimento in particolare alla situazione italiana, su cui poi costruisce il suo pensiero politico. Nelle opere utopiste invece c’è la volontà di idealizzare la società, creandone un’altra come secondo gli utopisti sarebbe dovuta essere; è da questo che derivano le particolari caratteristiche di queste opere, come per esempio la mancanza di distinzioni di classi sociali (anche se, come abbiamo visto per quest’opera, questo principio non viene sempre rispettato). Dentro il modello ideale, che è possibile ricollegare a Platone, s’annida un rifiuto della società da ricondurre alla storia del tempo. La ragione, con l’autorità che le conferisce la sua conquistata autonomia, non accetta il dispotismo dei principi o le ingiustizie della società; non riuscendo, da sola, a sanare quei mali contemporanei che tuttavia individua e denuncia, ne trasferisce la soluzione al di fuori e al di sopra della storia.

Le 3 utopie : Ognuna delle tre opere del periodo (Utopia di Moro, Nuova Atlantide di Bacone e La città del sole di Campanella) ha caratteristiche proprie, ma è possibile trovarvi degli elementi comuni. In tutte le opere vi è una visione idealizzata del luogo, in quanto le società descritte dai tre autori sono tutte poste su isole che vengono a loro volta collocate nell’emisfero australe del mondo, o comunque in luoghi lontani dalle società europee. Questa decisione è un modo per far risaltare maggiormente i caratteri di isolamento e di autarchia di questi popoli, che per la loro impostazione economica appaiono totalmente indipendenti dagli stati confinanti. Inoltre le società appaiono fondatale sul lavoro, e la sua razionalizzazione e la sua estensione all’intera comunità, anche alle donne, permette di aumentare il livello della produzione a beneficio di tutti e permette a tutti, e non più ad una sola minoranza privilegiata, di dedicare il tempo libero alla cultura. Si avverte qui la protesta e la condanna, esplicita del resto, sia in Moro che in Campanella, contro una società ancora gravata dal peso di parassiti e di oziosi. Le società utopistiche hanno la caratteristica di essere società precomuniste, e la caratteristica più lampante di questa interpretazione è sicuramente l’assenza di proprietà privata, per cui tutto appartiene a tutti ed è lo stato che distribuisce per esempio il cibo o le abitazioni (che nel caso di Utopia vengono distribuite anche in base ai “turni” di lavoro nelle campagne). Nel caso specifico dell’opera di Moro possiamo però vedere che la società, oltre che precomunista, può anche essere interpretata come una forma di socialismo, essendo una società meritocratica, dove i più capaci e più portati allo studio fanno poi parte della classe sociale dei sifogranti. Quest’aspetto rispecchia il desiderio di nuove gerarchie elettive fondate sul sapere, sul merito, sulla capacità, che ricorrono alla consultazione popolare, non più sui principi di assolutismo, dei diritti del sangue, della fondatezza dei privilegi del censo. Altri aspetti comuni alle tre opere sono il rifiuto della guerra, e la scomparsa del tempo: questo stava a significare che in alcune di queste società la giornata delle singole persone era preorganizzata, ovvero erano già decisi gli orari sia di lavoro sia quelli di tempo libero. Da notare che, nonostante in questo periodo si assista alla rivoluzione astronomica (al tempo di Moro in realtà iniziò semplicemente a circolare privatamente l’opuscolo De hypothesibus motuum coelestium a Se constitutis commentariolus di Copernico, che lo tenne nascosto per molti anni per timore delle possibili reazioni critiche), la scienza non è un aspetto cui gli autori dettero molto importanza; l’unica opera che abbia queste caratteristiche è la Nuova Atlantide di Bacone, in quanto nell’opera di Campanella, che pure ne intuisce le implicazioni sociali, ha ancora aspetti magici e astrologici. Contro l’arbitrio dei singoli, contro la prepotenza dei principi, si leva il limite dell’ostacolo di una razionalità comune a tutti gli uomini, cui ineriscono ormai diritti innati e naturali, anche se la schiavitù, che Campanella respinge, è ancora accolta da Moro che leva tuttavia la sua protesta contro la pena di morte.

tratto da: http://www.filosofico.net/tmoro.htm

La rivoluzione non è necessaria, forse

pervenuto tramite GENTES – EUROPA INFORMAZIONI di Antonino Amato

di Marco Saba

Uso questo titolo provocatorio per introdurre un argomento abbastanza scomodo: che mezzi usa l’élite per automantenersi ed impedire un vero progresso dell’umanità in occidente?

La risposta potrebbe far inorridire la mente per la sua semplicità: crea denaro per allocarselo, arricchirsi e comprare o zittire qualunque voce che tenta la denuncia della grande frode uscita dalla seconda guerra mondiale.

La chiave dell’enorme potere derivante dall’attività di creazione dello strumento di pagamento, la moneta, serve anche per capire la geopolitica, una materia che tanti commentatori televisivi cercano di complicare ad oltranza per nascondere che il re è nudo. Possiamo dire che il Grande Gioco si riassume nella questione e nella gestione privata dell’emissione dei mezzi di pagamento. Chiunque capisce al volo che i falsari – quelli che falsificano la moneta ufficiale attualmente in uso – si arricchiscono quando riescono a spenderla. La stessa cosa vale anche per il sistema bancario con la differenza che la creazione di denaro da parte delle banche danneggia molto di più la società e lo stato – e quindi l’ordine pubblico economico – perché di norma la moneta bancaria è emessa ad usura. Ovvero, dietro alla creazione di un debito da ripagare con interessi. L’assurdità di questa pratica consiste principalmente nel fatto che le banche creano solo il capitale – come moneta – ma non creano il denaro necessario a pagare gli interessi pretesi indietro. Paradossalmente, il sistema sarebbe solvibile solo se esistesse una quantità di moneta sufficiente – e non creata a debito – per coprire la parte di interessi richiesti.

In pratica, se i falsari stampassero abbastanza valuta falsa (non creata a debito) per coprire gli interessi. Altrimenti, si ha una scarsità artificiale del mezzo monetario che fa sì che tutti come pazzi – una volta indebitatisi – passino la vita a correre per cercare quella quota parte di interessi per i quali non esiste “fisicamente” moneta in circolazione sufficiente. Questo può sembrare divertente come ulteriore prova – se ce ne fosse bisogno – della stupidità umana e della demenza collettiva dove ci hanno portato quelli che avevano la responsabilità di formarci ed informarci (scuola e media). Ma anche quanti, scoperta questa vera e propria mega-truffa, non hanno mosso un dito: polizie e magistrature. Dico che la truffa è ormai scoperta perché solo all’interno del nostro Centro Studi Monetari, in 5 anni, abbiamo pubblicato una decina di libri che spiegano l’arcano, libri che hanno avuto diffusione nazionale con decine di migliaia di copie vendute (1). E per chi non ha nemmeno più i soldi per comprare un libro, ne abbiamo messo uno gratis su internet (2). E per chi non avesse nemmeno gli occhi per leggere, lo abbiamo pure messo in formato audiolibro (3). L’enorme vantaggio economico derivante dall’esercizio dell’oligopolio della creazione monetaria non è giusto che rimanga appannaggio di una élite privata di cocainomani che vanno a trans.

Questo vantaggio – che io definisco “rendita monetaria effettiva”, per distinguerlo dalla semplice “rendita monetaria” così come intesa da quei falsari della Banca d’Italia (3), spetta naturalmente allo stato. Cosa succede quando una percentuale significativa della popolazione – quella meno demente – capisce quello che stiamo scrivendo? Di norma, accade una rivoluzione ed il sistema bancario viene nazionalizzato (a meno che non si facciano tutti comprare in massa dalle banche). Casi tipici in questo senso sono stati la rivoluzione cinese e quella iraniana. Noi abbiamo avuto il fascismo che emetteva “biglietti di stato a corso legale” invece di farsi usurare dai banchieri come fa oggi il governo prendendo a prestito quello che è il frutto di una prerogativa della sovranità (monetaria): la moneta. Ma il fascismo (4) è stato presto gettato nella pattumiera della storia assieme anche ai diritti che vennero conquistati per i lavoratori e che – in gran parte – un sindacato stracorrotto è riuscito a far cancellare progressivamente negli ultimi trent’anni. Dico stracorrotto proprio perché mai i sindacati – nemmeno quelli meno gialli – hanno osato prendere posizione ufficialmente e levare una voce per denunciare lo scandalo bestiale (ma offendo le bestie) del signoraggio privato sull’emissione monetaria. Questa assurdità è costata le vite di quanti – “falliti” – hanno scelto la strada del suicidio. Per questo il compianto professor Giacinto Auriti aveva denunciato Carlo Azeglio Ciampi, allora governatore della Banca d’Italia, per istigazione al suicidio. Perché se nell’aggregato non esiste moneta sufficiente per pagare gli interessi, quando finisce la musica qualcuno rimane per forza senza la sedia dove sedersi. Cioè quando le banche impongono di “rientrare”. Possiamo approssimativamente dire che se manca un 20% di moneta per rendere solvibile il sistema, falliranno circa il 20% delle imprese e persone attualmente esposte col sistema bancario. Solo questo da l’idea della sovversione dell’ordine economico operata silenziosamente dal sistema bancario. Ma nel paese dello “io speriamo che me la cavo”, i soggetti meno ingenui hanno ognuno la loro banchetta, ad esempio Berlusconi (Banca Mediolanum) ed il Vaticano (con lo IOR, l’Istituto per le Opere di Religione, verrebbe da ridere se non ci fosse da piangere…). Ma il Vaticano almeno, seppure in modo molto vago nelle sue encicliche, cerca di denunciare il sistema e di avvertire i fedeli. Naturalmente, senza entrare troppo nei particolari, non venisse in mente al Casini di turno di chiedersi perché molti banchieri fan parte dell’Opus Dei…

Ma 57 milioni di italiani non possono diventare tutti banchieri per difendersi dal racket del signoraggio. 57 milioni di italiani, arrivati ad essere appunto “italiani” a seguito di innumerevoli guerre inutili, visto dove siamo arrivati, hanno il diritto di aspettarsi che lo stato – con tutte le sue polizie più o meno segrete – faccia qualcosa per farli uscire da questo racket che costa centinaia di miliardi di euro all’anno, nonché letteralmente la vita usurata a morte dei suoi cittadini.

Allora torniamo al titolo, perché dico che la rivoluzione forse non è necessaria? Perché ci sono paesi dove gli statisti (Putin in Russia, Chavez in Venezuela e forse Gheddafi in Libia) fanno qualcosa per limitare il potere della piovra coi tentacoli a forma di Bancomat. Se per esempio Tremonti avesse letto qualcuno dei libri citati sopra – e non si facesse troppo inebriare troppo dalle riunioni dell’Aspen Institute – potrebbe provare a seguire una via “morbida” al cambiamento. Potrebbe almeno – come fanno in Nord Dakota (5)- creare una Banca davvero d’Italia con cui offrire ai cittadini quanto loro negato dal sistema usuraio. Una banca di stato che usasse il criterio attuale di riserva frazionaria (2%) avrebbe bisogno di raccogliere solo un cinquantesimo della massa monetaria richiesta dalle spese dello stato. Proprio perché potrebbe usare a suo favore la leva del moltiplicatore monetario. Infatti, le banche prestano fino a 50 volte la cifra raccolta che pongono “a riserva”, dimostrando di essere tutte in bancarotta tecnica (perché, a differenza dello stato, possono finire in bancarotta).

Con questo sistema, cioè creando ed usando una banca di stato, senza toccare il sistema bancario attuale, le tasse potrebbero praticamente sparire, come già succede con i paesi cosiddetti paradisi fiscali che emettono la propria moneta statale. Ovviamente la neonata Banca del Sud non è che una pallida imitazione del tipo di banca statale che intendo io. Pare che il governo – in questo senso – sia parecchio timido. Ora si tratta di vedere se – a forza di palliativi e succedanei – la popolazione rimanga ancora – e per quanto tempo – ipnotizzata nel suo stato di malessere economico. Perché – nel caso di troppo poco e troppo tardi – si rischia che i milioni di disoccupati scelgano una alternativa meno ingloriosa del suicidio. E magari decidano di chieder conto all’élite di quanto successo sinora. I dati sono preoccupanti: ormai, ogni italiano, è stato derubato dell’equivalente di 1,3 milioni di euro. Una cifra più che sufficiente per assicurare una vita dignitosa a tutti, calcolando anziani e bambini.

Ma in questo tempo di VEDUTA CORTA, come direbbe Padoa-Schioppa, il sistema politico gioca d’azzardo e cerca di continuare “ad infinitum” il triste e melanconico “gioco delle parti”. Sperando e pregando che i cittadini non si sveglino sparando. E’ un rischio morale micidiale. Un rischio mortale.

Perché non è vero – come diceva Totò – che ogni limite ha la sua pazienza. Aspettiamo e vedremo.

Marco Saba

1) Bankentein, Euroschiavi, Euflazione, Il grande mutuo, La moneta copernicana, O la banca o la vita, Moneta Nostra, etc.

2) Moneta Nostra si può scaricare da: http://studimonetari.org/monetanostra.pdf

3) Moneta Nostra in formato audiolibro è qui: http://www.archive.org/details/moneta_nostra_marco_Saba_chemtrail.dyndns.org_oseido

4) Su internet chi si occupa seriamente in Italia del tema dell’esercizio della sovranità monetaria, viene tacciato di “fascista”. Nel mondo angloamericano hanno più fantasia con i titoli offensivi: “populista” e “antisemita”. Mentre, da perfetti ignoranti, considerano “fascista” il sistema bancario attuale…

5) “The Growing Movement for Publicly Owned Banks”, di Ellen Brown, YES! Magazine, 18 marzo 2010 http://www.yesmagazine.org/new-economy/the-growing-movement-for-publicly-owned-banks

Perchè non festeggio i 150 anni di unità d’Italia – bozza provvisoria –


SOCIALE invita e consiglia, dopo la lettura di questo articolo, alla visione del video più documentato sul “risorgimento”.
SOCIALE ringrazia anche il cap. Alessandro Romano per i documenti ricercati e per gli anni di lavoro serviti a questo scopo.

https://www.youtube.com/watch?v=k8DBZyX6940&feature=player_embedded

di Antonio Pocobello

In audio-video

http://www.youtube.com/watch?v=9kKDURC5DTg

NOI CHE… FATTA L’ITALIA VORREMMO FARE GLI ITALIANI!
E CAPIRE COME, PERCHE’ E DA CHI E’ STATA VOLUTA UNITA.
EPPURE NESSUNO CI HA DETTO LA VERITA’ !
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Una cosa è certa: un Paese che non sa da quale passato arriva, difficilmente è in grado di capire il presente e – quel che è peggio – rischia di non essere in grado di progettare il proprio futuro.
“Per liquidare i popoli si comincia con il privarli della memoria, si distruggono i loro libri, la loro cultura, la loro storia e qualcun altro scrive loro altri libri, li fornisce di un altra cultura, inventa per loro un’altra storia dopo di che il popolo comincia lentamente a dimenticare quello che e’ e quello che e’ stato ed il mondo intorno a lui lo dimentica ancora piu’ in fretta.” – Milan Kundera
Ci hanno provato e ci sono quasi riusciti.
Ma noi siamo ancora in tempo se vogliamo, se ci impegniamo tutti, a recuperare la nostra storia, la nostra cultura, la nostra tradizione, i nostri antichi “saperi” dei nostri non lontani avi.

Perchè essere costretti a vergognarci del nostro glorioso passato del Regno delle due Sicilie ?

Perchè dobbiamo celebrare un passato “miserissimo” e falso ?
Provo a dare documentazione come veramente è nata questa Italia. Senza infingimenti.
Non nel modo che lo fanno tutti che restano prevalentemente sui “manovali”.
Il mio intendo è far conoscere le motivazioni vere e quindi ad indicare e documentare i “registi”, “i mandanti” ed il “movente” dei distruttori del Regno delle due Sicilie.
Ed è bene ricordarlo anche degli altri stati italici.
Siccome tale analisi ci conduce ai problemi di oggi ed alla loro “pericolosità” tutti si guardano bene dal farlo.
La mia è l’osservazione è un elaborato di un modestissimo autodidatta ricercatore dell’emissione monetaria e del “profitto”. Profitto scaturito tra capitale e lavoro dalla rivoluzione industriale e mai diviso equamente tra il i lavoratori ed i detentori di capitale.
A tutt’oggi è a beneficio totale dei soli capitalisti.
“Chi non s’intende di economia non capisce affatto la storia.” Erza Pound
Nessun abitante dello stivale all’epoca sentiva questa necessità, ripeto nessuno, ma solo i “carbonari massoni” fatti nascere ed istruiti per essere i servi che ottemperavano solo agli ordini delle loro “logge superiori”.
Già nel 1734 a Bitonto con Carlo di Borbone furono gettate le basi per dar vita ad un’Unità veramente italiana fatta d’amore e di forte senso di appartenenza, nessuno se ne ricorda.
Invece nel 1860 si è preferito fare un’unione “straniera” fatta di odio, contrapposizione ed intrallazzi….massonici.
I principi sono francesi, perché in Francia ci fu la prima realizzazione della “massoneria” reale, (LIBERTÀ – UGUAGLIANZA – FRATELLANZA) ma i fili furono e sono tirati dall’Inghilterra, come tutta la regia ed assistenza, sede del potere occulto internazionale.

Chi erano e cosa volevano queste logge superiori che ai poveri fessi massoni semplici non gli venne dato a sapere:

– la corona inglese massonica e le lobby inglesi, quale per esempio “la Compagnia delle Indie” mercantilista-imperialista, che si sentivano minacciati per i loro sporchi affari dall’espansione della nostra flotta borbonica solo di natura commerciale, senza mire imperialiste, che già era divenuta la terza al mondo, e stava diventando sempre più forte. Con l’imminente apertura del Canale di Suez e lo sviluppo delle ferrovie al sud, il primato assoluto era all’orizzonte grazie ai traffici con l’oriente rispetto ai quali Napoli si avviava ad avere posizione di privilegio nel mediterraneo rispetto a Londra, e questo fu uno dei motivi per i quali si pianificò il soffocamento di una grande potenza meridionale che i detrattori di oggi continuano a non voler riconoscere come tale.

http://armatadimare.jimdo.com/l-armata-di-mare/l-armata-di-mare-navi-e-marinai/?logout=1#login

– i “rothschildiani” che ambivano ad appropriarsi dell’emissione della moneta non tralasciando di rubare tutto l’oro e l’argento che nel Regno delle due Sicilie era pari ai due terzi di tutti gli altri Stati dello stivale.. Quindi a ripetersi come già avevano concretizzato con successo con la rivoluzione francese a danni del Regno di Francia. Pochi conoscono questo importantissimo e determinante particolare.

Questo è l’unico film (documento) sulla massoneria. Rende bene l’idea di che cosa è la massoneria.
http://www.youtube.com/watch?v=Nd1MqYKF_b8

Ricordo che nel Regno delle due Sicilie avevamo solo moneta in oro e argento, niente carta-moneta, che per la sua solidità non si era mai svalutata, quindi, l’inflazione, era un fenomeno sconosciuto nei 126 anni in cui regnò la dinastia dei Borbone.
E naturalmente la cosa più importante il possesso dell’emissione della propria moneta. Mai di carta.
Con l’unità d’Italia abbiamo avuto la perdita dell’emissione a favore di privati (la Banca d’Italia prima e la BCE attuale sono istituzioni di privati) e quindi solo carta moneta-straccia come è oggi.
Come successe prima di noi alla Francia con la sua rivoluzione. Anche questo particolare mai scritto sui libri di storia.

Come sottolinea il prof. Giacinto Auriti, “il fenomeno più importante che si è avuto con la Rivoluzione Francese non è stata la carta costituzionale, ma la banca centrale con la contestuale sostituzione della moneta d’oro con la moneta nominale.
Ciò non è stato un semplice mutamento della struttura merceologica del simbolo, ma la sostituzione di una fattispecie giuridica con un’altra. Quando la moneta era d’oro, il portatore ne era il proprietario; con la moneta nominale, ne è diventato inconsapevolmente il debitore. Tutta la moneta nominale è emessa dalle banche centrali prestandola: dunque tutto il denaro in circolazione è gravato di debito verso le banche centrali”.

«I banchieri possiedono la terra. Portategliela via ma lasciategli il potere di creare denaro e con un semplice schizzo d’inchiostro creeranno abbastanza soldi per comprarla nuovamente. Tuttavia, portategli via il potere di creare il denaro e tutte le grandi fortune come la mia scompariranno e dovrebbero scomparire perchè in questo modo il mondo sarebbe un posto migliore e più felice da vivere. Ma se desiderate rimanere gli schiavi dei banchieri e pagare il costo della vostra schiavitù, lasciateli pure continuare a creare denaro»
Sir Josiah Stamp ex direttore della banca d’Inghilterra 1928
(Al tempo, ritenuto secondo uomo piu’ ricco d’Inghilterra)

Solamente queste due componenti in combutta tra di loro sono state le vere ideatrici e registe del golpe ai danni del nostro Regno. E non altre.
Si sono servite di un loro “incravattato” cioè indebitato con gli usurai fino all’osso e già fallito.
Usurai che lo hanno poi gestito a loro piacimento per i loro interessi.

Basti considerare che, mentre nei 34 anni che vanno dalla caduta di Napoleone al 1848 il Regno di Sardegna accumula 135 milioni di debiti, in soli 12 anni, dal 1848 al 1860, ne totalizza oltre un miliardo. Per l’esattezza 1.024.970.595 lire.
Tanto è drammatica la situazione economica del regno sardo che Pier Carlo Boggio, uomo politico di prim’ordine, mandando alle stampe nell’aprile del 1859 il pamphlet Fra un mese, scrive:
“La pace ora significherebbe per il Piemonte la riazione e la bancarotta”. Insomma Boggio è preoccupato. Perché è alle viste la guerra contro l’Austria? Tutt’altro. Perché quella guerra, tanto agognata, rischia di non scoppiare. Ma se la guerra non scoppia per il Piemonte è la fine: è la bancarotta.
http://cronologia.leonardo.it/mondo28s.htm

Poi si sono serviti di tutti gli avventurieri politici e arrampicatori sociali molti da loro creati o corrotti. Tutti di diversa estrazione prevalentemente monarchici, repubblicani e liberali: Cavour, Garibaldi, Mazzini e i nostri liberali speculatori traditori meridionali. Anche se poi qualcuno di loro ad unità compiuta si ravvede dell’imbroglio subito e lo denuncia come Giustino Fortunato e Gaetano Salvemini.

Ecco chi sono:

DISCUSSIONI PARLAMENTARI (dal 20.11.1861 al 6.8.1863)
http://www.brigantaggio.net/brigantaggio/Storia/Parlamento.htm

Regno delle Due Sicilie – Citazioni illustri (1)

http://www.youtube.com/watch?v=042e-Jms5Oc

http://www.youtube.com/watch?v=1il5-ptSrSI

Conoscere la massoneria

http://www.chiesaviva.com/conoscere%20massoneria.htm

E’ dimostratissimo che pur volendo questi ultimi da soli attuare questo progetto di invasione contro il Regno delle due Sicilie che non ci sarebbero mai riusciti.

La più grande rapina della storia http://www.youtube.com/watch?v=rnL4EC1m1lU&feature=related

Ed ecco che è necessario evidenziare che le più grandi “CAROGNE” sono state i nostri traditori liberali, generali e speculatori meridionali.
Senza la complicità di questi “merdaiuoli” nostrani non avremmo avuto questo scempio.
Ed io a questi do le colpe maggiori.
l’eccidio di Pontelandolfo 1/3 :
Ai diffidenti di questa mia tesi li invito a fare un inventario di quanto c’era prima in tutti gli stati e quanto è giunto a noi con l’unità d’Italia. Solo così potranno rendersi conto che c’era rimasto solo l’osso; la sostanza era sparita. Insomma non si è aggiunto niente con la somma di tutti gli stati ma si è solo sottratto e molto.
Così come per la Francia a seguito della rivoluzione:
http://www.karamazov.it/tragedia_rivoluzione.htm
Soltanto pochi oggi sanno che agli inizi del 1800 la “proprietà” intesa come la intendiamo noi ” privata” é poco diffusa e solo meno di 1/4 delle terre erano dei privati, ricordiamoci che venivamo dal medio evo ed incominciano gli “effetti” ed i “cambiamenti” disastrosi della rivoluzione industriale. Ecco che molti approfittatori cercarono, e ci riuscirono proprio con l’unità d’Italia, di impossessarsi di queste terre a discapito di tutta la restante popolazione.
Questi signori erano tutti: LIBERALI e intrinsecamente massoni.
E senza la copertura del sistema liberale-liberista mai lo avrebbero potuto fare. Come è oggi.
Certamente la storia avrebbe avuto un altro corso, migliore e con meno guerre nel mondo.
Si pensi al significato del Feudo di San Leucio che già alcuni mesi prima della rivoluzione francese realizzava la socializzazione dell’economia che contrastava nei fatti il sistema liberale-liberista poi dilagante e vincente.

E questo è un particolare sconosciutissimo.
E state certi che nessuno non ve lo metterà in evidenza.
Per “loro”, i festeggianti che sono sempre democratici liberali-liberisti, è troppo nocivo.
Alcuni passaggi li vediamo al minuto 5 di questo video e aprendo questi link:
Poi in conseguenza del disastro unitario abbiamo sopportato un evento mai avuto prima nella nostra millenaria storia con ben 27 milioni di italiani di emigranti.
Tra il 1876 e il 1976 tali infatti sono stati gli emigrati in cerca di fortuna da diverse regioni anche del nord.
Il meridione mai prima di allora aveva conosciuto l’emigrazione.
http://pocobello.blogspot.it/2012/10/sud-mostra-dopo-lunificazione.html
Peccato che come per taluni aspetti come per i Borbone era stata la perdita dell’emissione della moneta la stessa sorte si è ripetuta con l’8 settembre 1943. Solo pochissimi l’hanno capita perchè Mussolini si era ripreso l’emissione facendo quel po po’ di opere senza indebitarsi, togliendola a chi la deteneva per la prima volta da quando ci era stata tolta a noi del Regno delle due Sicilie.
E attuò, liberatosi dalla monarchia dei Savoia, massoni, e dalla chiesa, la socializzazione dell’economia come i Borbone ma su tutto il territorio della RSI.
Faccio sapere che i redattori della Costituzione del 1948 hanno lasciato poi il modo per poterla inserirla successivamente con l’art. 46 e l’art. 99.
Mai stato fatto. Altro che costituzione antifascista.
Socializzazione – OGGI – DOPO IL 25 APRILE 1945
E questo, purtroppo, è stato uno dei motivi principali a scatenare la 2° guerra mondiale perché l’emissione doveva ritornare ai “ladri” che l’avevano rubata a noi del Regno di Napoli nel 1860.
Il resto sono “pezze a colori” come per noi è il risorgimento.

Con la democrazia liberale-liberista si sono creati il mare dove poter far agire indisturbati i “squali capitalisti” che la socializzazione eliminava.

Anche questo nessuno ve lo dirà.

http://pocobello.blogspot.com/2010/10/il-labirinto-del-potere-mondialista.html

A chi non la conosce la materia delle emissioni monetarie non dice niente ma a chi la conosce ha il mondo in mano.
Proprio come è oggi.
E tutti i nostri politici “servi” dei banchieri: Banca d’Italia e BCE proprietà di privati fanno finta di non sapere e di non capire.
«Permettetemi di emettere e gestire la moneta di una nazione, e me ne infischio di chi fa le leggi»
Mayer Anselm Rothschild fondatore Rothschild Bank.
Non a caso il più grande studioso del meridionalismo: Nicola Zitara tiene in conto le “banche” e quanto queste hanno determinato:

http://www.youtube.com/watch?v=oLIX-nOKgto

Lo snodo e’ tutto qui’. Questo è quanto necessita essere recuperato.
Se non si ha contezza di come è stata veramente assemblata questa Italia, da chi e perché e di riappropriarci di quanto ci hanno rubato non ci sarà nessuna possibilità di avere una vera unità d’Italia e mai sarà possibile avere gli italiani.
Qualche elemento conoscitivo:
Moneta = Dominio
E se il sistema economico fosse una truffa gigantesca?
La storiella per afferrare il concetto – L’isola dei naufraghi
http://www.michaeljournal.org/LIsola.htm

Democrazia integrale – prof. Giacinto Auriti
Tramite questo documento del Galiani trattato “sulla moneta” (da scaricare gratis) si evince la grande differenza tra il sistema sociale dei Borbone già nel 1751 e questo a loro succedutosi e vincente liberale-liberista.
Siti utili per la conoscenza della vera storia del sud

Ed allora si provi a scrivere la storia delle banche centrali private di emissione in relazione a questi avvenimenti:
– 1789 – caduta del Re di Francia – emissione ai privati
– 1860 – caduta dei Borboni di Napoli – emissione ai privati.
– 1870 – eliminazione del potere temporale della chiesa – emissione ai privati
– 1917 – caduta dello Zar di Russia – emissione ai privati, anche se non ufficialmente, (Gosbank 1937 sotto Stalin) – non stai avendo le allucinazioni, è proprio così.
– 1918 – caduta degli Asburgo d’Austria – emissione ai privati.
– 1945 – caduta di Germania, Italia e Giappone – emissione ai privati.

Le grandi lobby. Le Corporations http://www.youtube.com/watch?v=lHQgoNh-1d0&hd=1

Per una conoscenza più dettagliata delle condizioni socio-economiche del Regno delle Due Sicilie al momento dell’unificazione consiglio di leggere:

il sud nell’Unità d’Italia: inclusione o annessione ?
di Ubaldo Sterlicchio.

La massoneria e la conquista del sud

L’esperimento socialista di San Leucio

Per conoscere altre situazioni simili a quella del Regno delle due Sicilie
http://www.youtube.com/watch?v=BOSacEtr3GI
http://www.youtube.com/watch?v=CQJ-U6wYSwU

http://www.centrostudilaruna.it/lunita-divisa.html#comment-2362

1866: PLEBISCITO TRUFFA – Veneto e Italia (in lingua veneta)

La fedelissima Brigata Estense

http://www.youtube.com/watch?v=IMeJTH8jdhA&feature=player_embedded#at=318

Sconvolgente: le verità storiche dei veneti

http://www.palmerini.net/blog/?p=1356

Le radici della vergogna

La storia sotto la storia – I primati del Regno delle Due Sicilie

http://www.youtube.com/watch?v=5fDavf340KA&feature=player_embedded#at=19

Il Regno Delle Due Sicilie e l’Inghilterra

http://www.youtube.com/watch?v=ZB28WA-ml9A&feature=player_embedded#!

FENESTRELLE – I LAGER DEI SAVOIA (parte 1/2)

http://www.youtube.com/watch?v=Gv2W0_TwtgI&feature=related

http://www.youtube.com/watch?v=CtIPLHSQ4hc&feature=related

La Camorra e Garibaldi 1/2

http://www.youtube.com/watch?v=L1hKigKF5WU

Giuseppe Ressa
il Sud e l’Unità d’Italia
il libro informatizzato sulle Due Sicilie
Edizione completamente rivista, aggiornata e notevolmente arricchita.
http://www.ilportaledelsud.org/rec-ressa.htm

http://cronologia.leonardo.it/mondo28s.htm




NIKOLA TESLA, il più grande genio dimenticato dalla storia


di Marco Pizzuti

Mi chiamarono pazzo nel 1896 quando annunciai la scoperta dei raggi cosmici. Ripetutamente si presero gioco di me e poi, anni dopo, hanno visto che avevo ragione.
Ora presumo che la storia si ripeterà quando affermo che ho scoperto una fonte di energia finora sconosciuta, un’ energia senza limiti, che può essere incanalata.”

Nikola Tesla

“Il progressivo sviluppo dell’uomo dipende dalle invenzioni. Esse sono il risultato più importante delle facoltà creative del cervello umano. Lo scopo ultimo di queste facoltà è il dominio completo della mente sul mondo materiale, il conseguimento della possibilità di incanalare le forze della natura così da soddisfare le esigenze umane” [1].

Così Nikola Tesla apre il primo capitolo della propria autobiografia, un volumetto polveroso fuori catologo, comprato oltreoceano per pochi soldi in un negozio di libri usati. Sì, sembra proprio che questo libro fosse un “fondo di magazzino”, riguardante qualcuno non così importante.
Peccato che a questo “qualcuno non così importante” si debbano molte invenzioni che ognuno di noi usa nella vita quotidiana, perché è proprio a questo signore completamente dimenticato dalla storia che si devono le più grandi scoperte del XX secolo come ad esempio la radio o il radar. E anche se i libri di scuola, i notiziari e i documentari storici celebrano il nostro Guglielmo Marconi come inventore del telegrafo senza fili (il nome della radio di allora) esiste una sentenza della Corte Suprema USA che ha riconosciuto la vera paternità della radio a Nikola Tesla [2]. Nel migliore dei casi però, il suo nome viene citato esclusivamente come unità di misura dell’induzione elettromagnetica, ovvero i campi elettromagnetici generati dalle antenne per le trasmissioni radiotelevisive e da quelle per le comunicazioni via cellulare.
Si tratta insomma di uno scienziato di cui basta leggere la vite e le opere per provare un grande senso di umiltà nei suoi confronti, nessun altro scienziato infatti è paragonabile al suo genio, eppure, ciononostante, è stato dimenticato da tutti. Perchè? Il motivo è molto semplice, le sue rivoluzionarie scoperte e le sue invenzioni minacciarono gli interessi dei poteri forti, i quali di conseguenza lo consegnarono all’oblio. La rettitudine morale che lo contraddistinse tutta la vita (morì senza un soldo in tasca) gli impedì di scendere a patti con la lobby di potere. E finchè i grandi banchieri riuscirono a sfruttarne economicamente il talento (J.P.Morgan gli propose addirittura di sposare sua figlia) fecero di lui lo scienziato più famoso del mondo, ma non appena capirono quali erano le sue vere intenzioni (il progresso del genere umano) lo affondarono in un fango di menzogne proclamandolo pazzo e tagliandogli tutti i finanziamenti. Al contrario del malleabile Edison infatti, il suo operato è sempre stato, per usare parole sue, “unicamente al servizio della specie umana”.

Nikola Tesla nacque nella notte fra il 9 e il 10 Luglio 1856 a Smilijan. Il padre, Milutin Tesla di origine serba, officiava come ministro del culto ortodosso. Sua madre, Duka Mandic, abile ricamatrice, pur essendo una donna non istruita (non era andata a scuola per accudire i propri fratelli e le proprie sorelle dopo la malattia che aveva reso cieca la madre) era dotata di una memoria prodigiosa. Tesla infatti menzionava spesso il fatto che la propria madre era in grado di recitare perfettamente interi testi della Bibbia e della letteratura in generale aggiungendo di avere ereditato da lei molte delle proprie abilità, non solo una memoria fotografica ma anche altre facoltà intellettive come una notevole inventiva e industriosità. Ella infatti coltivava delle fibre vegetali da cui riusciva a ricavare il filo utilizzato nei lavori di ricamo e di cucito [3].

Dopo aver terminato gli studi di fisica e di matematica al Politecnico di Graz, Austria [4] (contemporaneamente aveva iniziato a studiare filosofia all’Università di Praga), continuò a studiare e a lavorare tra le 20 e le 22 ore per preparare esperimenti e trasformare le sue intuizioni in rivoluzionarie invenzioni.

Già all’età di diciassette anni Tesla si accorse di possedere una capacità di concentrazione mentale talmente straordinaria da riuscire a vedere “materialmente” davanti a sé l’immagine dell’invenzione già compiuta riuscendo così a definire tutte le modifiche che era necessario apportare senza ricorrere a disegni, progetti, modelli o prototipi reali. E nonostante lo stupore e lo scetticismo che possono seguire ad una simile descrizione del personaggio in chi sentisse pronunciare il suo nome per la prima volta, ciò che qui viene affermato corrisponde esattamente al vero metodo di lavoro utilizzato dallo scienziato. Alcune fonti affermano inoltre che Nikola Tesla, per sua stessa ammissione, era un ingegnere ed un fisico visionario che riceveva le intuizioni da un profondo stato di astrazione mentale [5].

Molti anni dopo, nel 1899, mentre stava conducendo esperimenti nel suo laboratorio di Colorado Springs, ricevette un segnale radio che si ripeté continuamente. In tale occasione affermò pubblicamente di avere captato un messaggio radio proveniente dallo spazio ma venne ridicolizzato dal mondo accademico. Oggi però sappiamo che esistono effettivamente dei “rumori di fondo” che vagano all’interno della della nostra galassia e che alcuni di essi possono essere realmente scambiati (vista la loro ripetitività) per messaggi intelligenti. E nonostante lo scetticismo dell’epoca è sempre a Tesla che dobbiamo la prima scoperta delle onde radio provenienti dal cosmo [6].

Nikola Tesla si dedicò anima e corpo allo sviluppo di motori elettrici e di impianti di illuminazione che potessero sfruttare i principi della corrente alternata. E così, nel 1881, mentre lavora come disegnatore e progettista all’Engineering Department del Central Telegraph Office, iniziò ad elaborare il concetto della rotazione del campo elettromagnetico che rese la corrente alternata uno strumento indispensabile per la fornitura moderna di energia elettrica.
L’anno successivo si trasferì a Parigi per lavorare alla Continental Edison Company e nel nel 1883 egli realizzò il primo motore a induzione di corrente alternata della storia [7]. E fu proprio durante la fase di progettazione e di costruzione di quest’ultimo che lasciò senza fiato tutti i colleghi e gli operai che ebbero modo di assistere in prima persona al suo straordinario quanto inusuale metodo di lavoro. Un modus-operandi che è risultato semplicemente impossibile per qualunque altro scienziato a lui precedente, postumo o contemporaneo. E ciò in quanto, come anzidetto, non gli era necessario ricorrere a progetti, modelli o a altri mezzi pratici. Le invenzioni gli uscivano dalla mente già perfette e non richiedevano alcun aggiustamento. E persino nei casi in cui gli venne richiesto di apportare modifiche specifiche a singoli componenti del nuovo motore queste ultime vennero svolte, tra lo stupore generale, esclusivamente nell’ambito della viva immagine che lo scienziato aveva della sua invenzione. Così una volta terminata la fase di riflessione dava immediatamente incarico ai suoi collaboratori di procedere alla costruzione guidandoli per filo e per segno nelle misure di ogni singolo pezzo del progetto. In questo modo Tesla riusciva a materializzare tutte le sue idee (più di 700 brevetti) direttamente daelle catene di montaggio! [8]

Nel 1884, il giovane Tesla si imbarcò alla volta degli Stati Uniti per entrare a lavorare nel team dell’inventore più ricco e celebrato di allora, Alva Edison. La sua speranza era quella di ricevere i mezzi finanziari e le strutture per continuare la sperimentazione e realizzare così tutte le sue invenzioni. Aveva con se solo una lettera di presentazione che sbalordì persino Edison. A scriverla fu il migliore ingegnere di Edison alla Continental Edison Company di Parigi e recitava quanto segue:

“Nella mia vita ho conosciuto solo due grandi uomini, uno è lei Mr Edison e l’altro ce lo ha di fronte.”

Edison allora, incuriosito ma allo stesso tempo irritato per essere stato paragonato ad un ingegnere sconosciuto e squattrinato, concesse immediatamente udienza a Tesla affinchè gli esponesse i concetti della sua scoperta relativa alla corrente alternata. Ma quando Edison comprese meglio di cosa si trattava andò su tutte le furie affermando che un simile tipo di tecnologia non avrebbe mai potuto funzionare. In questo modo cercò di proteggere il futuro del suo giro d’affari legato allo sviluppo commerciale della corrente continua. Edison infatti, nonostante fosse presentato alle masse come un genio del progresso non nutriva alcun reale interesse per il benessere collettivo e l’unica cosa che aveva a cuore era il proprio conto in banca come tutti i finanziatori che avevano investito sui suoi brevetti [9]. Lo scienziato serbo tuttavia non si perse d’animo e accettò comunque di lavorare duramente per Edison nell’esecuzione di altri progetti poichè aveva un assoluto bisogno di danaro. Tesla quindi non solo aveva visto respingere risolutamente la sua tecnologia rivoluzionaria ma dovette anche subire una umiliante beffa (in realtà una vera e propria truffa) dal suo nuovo cinico e indisponente datore di lavoro. Ed infatti, a fronte degli impegni lavorativi assunti per la modifica dei generatori di corrente continua, Edison promise a Tesla un compenso di 50,000 $ con una semplice stretta di mano tra “gentiluomini”, un premio che in realtà non gli corrispose mai. E così non appena Tesla terminò il compito affidatogli si vide rifiutare il credito maturato sulla base del fatto che non aveva stipulato un contratto scritto.
La corrente alternata di Tesla dovette quindi attendere tempi migliori per affermarsi e divenne una realtà solo dopo che egli vinse la famosa guerra delle correnti contro Edison con l’appoggio di Whestinghouse. E fu proprio la produzione e la distribuzione dell’energia elettrica alternata a condurre poi l’umanità nella c.d. epoca moderna. Ciò in quanto la corrente continua di Edison oltre ad offrire prestazioni minori a costi molto più elevati non poteva essere distribuita oltre i 3 km di distanza. Questo grande successo però non venne sfruttato da Tesla per fini personali ed impiegò ogni centesimo guadagnato per reinvestire in laboratori di ricerca.
Le nostri fonti sostengono infatti che Edison liquidò Tesla con la frase ” Tesla, voi non capite il nostro humour americano”, sostenendo in pratica che la ricompensa promessa fosse uno solo scherzo.

Non sembra troppo difficile comprendere il motivo per cui il nostro Uomo di Scienza abbandonò la Edison Company [10].

Nel frattempo, seguendo sempre il suo metodo, Tesla giunse ad un’altra delle sue brillanti scoperte, la bobina di Tesla, un trasformatore ad alta frequenza, che è uno strumento indispensabile per la trasmissione, e quindi la fornitura a case ed industrie, della corrente alternata [11].

Nel maggio del 1885, il magnate Westinghouse acquistò i brevetti di Tesla relativi soprattutto, al motore a corrente alternata e alla bobina. Così da creare la Westinghouse Electric Company.
In base ad un contratto stipulato fra Westinghouse, Tesla avrebbe ricevuto dei compensi altissimi, in particolare un milione di dollari per i brevetti e le royalties. Tuttavia se Westinghouse avesse poi pagato tali somme, la Westinghouse Electric Company avrebbe dovuto sopportare dei costi troppo alti e si sarebbe trovata in difficoltà sul mercato rispetto alle concorrenti aziende.
Tesla si recò da Westingouse affermando: “I benefici che deriveranno alla società dal mio sistema di corrente alternata polifase è per me più importante dei soldi che entreranno nelle mie tasche. Mr. Westinghouse, voi salverete la vostra azienda così potrete sviluppare le mie invenzioni. Qui c’è il vostro contratto e qui c’è il mio, li strappo a pezzetti e non avrete più problemi con le mie royalties” [12].

Non c’è dubbio che Tesla sia stato un uomo coerente con sé stesso: egli ha sempre affermato che lo scopo della scienza era il miglioramento delle condizioni dell’umanità. E questo episodio mostra quanto egli ritenesse che lo sviluppo, lo sviluppo delle condizioni materiali (e psicologiche) dell’Uomo fosse l’obiettivo che l’Uomo di Scienza doveva a tutti i costi raggiungere, anche a costo di sacrificare il proprio vantaggio personale.

Grazie al suo gesto Westinghouse potè rimanere nel business e diventare ricco. Tesla al contrario, no. Egli ha preferito che altri diventassero ricchi, raggiungessero quindi il successo economico e che tutta l’umanità, quindi godesse dei vantaggi delle sue invenzioni.

Schivo dal successo personale ed egoistico, egli era felice di trasmettere il proprio successo agli altri. Tesla forse, è stato uno dei primi che ha capito che cosa volesse dire la parola “Successo”.

Ognuno di noi è teso verso il futuro, al successo personale, limitato e chiuso. Tesla al contrario, comprese che il successo non era solo questo ma era di più: la condivisione e il trasferimento dei propri risultati e conquiste agli altri, al mondo esterno. Circa gli scopi che l’Uomo di Scienza deve conseguire, disse: “L’Uomo di Scienza non mira ad un risultato immediato. Egli non si apetta che idee avanzate siano immediatamente accettate. (…) Il suo dovere è fissare i principi fondamentali per quelli destinati a venire dopo e indicare la strada” [13]. E questo è accaduto spesso nella vita di Tesla, perché egli ha aperto la strada, nella creazione di importanti innovazioni, a Uomini di Scienza divenuti più rinomati di lui. Vediamo questo come è potuto accadere.

Tesla sosteneva l’esistenza in natura, di campi energetici, di “energia gratuita” cui diede il nome di etere. E attraverso l’etere, si potevano trasmettere, ad esempio, altre forme di energia.

La convinzione dell’esistenza nell’Universo di un’energia inesauribile e potentissima sorse in lui nell’età infantile, quando giocando a palle di neve con gli altri ragazzini, aveva assistito ad una slavina.
Egli era convinto che quella frana sia stata provocata da una semplice palla di neve e che era bastato un piccolo urto per avere il fenomeno della slavina, con le sue conseguenze. Egli dedusse quindi che esisteva un’energia immagazzinata nel cosmo che, se opportunatamente sfruttata, poteva rendere possibile l’utilizzo della tecnologia umana [14].

Nel maggio del 1899, si recò a Colorado Springs dove istallò un laboratorio.
Egli riteneva possibile, infatti grazie a questo “pozzo di energia inesauribile”, l’etere, trasmettere energia elettrica a località lontane senza la necessità di ricorrere ai fili di conduzione elettrica, e quindi agli elettrodotti.

In particolare, scoprì che la Terra, o meglio la crosta terrestre, era un ottimo conduttore di energia elettrica, dal momento che un fulmine che colpisce il suolo, crea delle onde di energia che si muovono da un lato della terra all’altro.
Egli istallò nel proprio laboratorio un’enorme bobina che aveva lo scopo di mandare impulsi elettrici nel sottosuolo, così da permettere il trasferimento di energia elettrica a lampadine poste a una notevole distanza.
Secondo le fonti usate nel nostro lavoro, non esistono prove effettive che Tesla sia riuscito a trasmettere energia elettrica a lunga distanza. Sta di fatto che egli successivamente, cambiò approccio per realizzare la trasmissione di corrente elettrica senza fili.
Egli sosteneva che la zona dell’atmosfera terrestre posta a 80 Km dal suolo, detta ionosfera, era fortemente conduttrice, e quindi poteva essere sfruttata per trasportare energia elettrica verso lunghe distanze. Ma era necessario risolvere il problema di come inviare segnali elettrici ad una tale altitudine [15].

L’interno del laboratorio a Pikes Peak, Colorado. I lampi che si vedono sono creati dalla bobina.

Ritornando a New York, Tesla scrisse un articolo di respiro futuristico sul Century Magazine, affermando la possibilità di catturare l’energia sprigionata dal sole e proponendo un “sistema mondiale di comunicazione” utile per comunicare telefonicamente, trasmettere notizie, musica, andamento dei titoli azionari, informazioni di carattere militare o privato senza la necessità, ancora una volta, di ricorrere ai fili.

L’articolo catturò l’attenzione di un altro magnate dell’epoca, J. P. Morgan che offrì un finanziamento di 150,000 $, eisiguo per costruire tale stazione trasmittente.

Tesla si mise subito al lavoro, procedendo alla costruzione di una torre altissima nelle scogliere di Wanderclyffe, Long Island, New York. La Wanderclyffe Tower non era altro che uno sviluppo delle idee maturate da Tesla a Colorado Springs. La torre consisteva in una struttura in legno ed era impiantata nel terreno grazie a dei “tubi” di ferro, conduttori di energia elettrica. Alla sua sommità si trovava una sfera di acciaio. Per quanto la Wanderclyffe Tower si fondasse sul principio della radio, lo scopo che primariamente Tesla voleva conseguire era la trasmissione di elettricità senza fili, obiettivo che il nostro scienziato non espose a Morgan. E questo fu un errore fatale [16].

Il 12 Dicembre 1901 il mondo fu sconvolto da una notizia sensazionale: Guglielmo Marconi aveva trasmesso la lettera “S” oltreoceano, da una località in Cornovaglia tale informazione era stata trasmessa a Newfoundland, in America [17]. Morgan, contrariato, rititirò l’appoggio finanziario a Tesla.

La Wanderclyffe Tower

Il magnate era adesso contrariato dall’idea di “energia gratuita”, quindi non possibile oggetto di transazioni commerciali .
Ancora una volta gli interessi economici che i grandi finanziatori volevano perseguire frustravano l’obiettivo che lo scienziato croato voleva perseguire: l’evoluzione tecnologica e in ultima sostanza, il benessere dell’umanità.

Ciò che stava a cuore a Nikola Tesla era la serenità e la felicità dell’uomo intero.
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Questo era l’unico obiettivo esistenziale di Nikola Tesla, ovvero l’esclusivo fine ultimo di un vero uomo di scienza che non nutriva nessun interesse verso il proprio tornaconto economico e materiale. I suoi alti ideali infatti erano destinati a scontrarsi fin dall’inizio con gli abietti interessi della casta dei banchieri che controlla il globo attraverso la leva dle debito pubblico e la corruzione degli uomini politici. L’ultima possibilità di realizzare i suoi progetti di progresso per l’umanità intera venne meno quando rinunciò a riscuotere i proventi ricavati dal contratto concluso con Westinghouse solo per evitare il fallimento del suo primo storico mecenate. In seguito a questo episodio Tesla sprofondò in un mare di debiti mentre le pressioni di Morgan convinsero tutti gli altri possibili finanziatori a fare un passo indietro. E così sotto le minacce dei poteri forti i mass-media si dimenticarono di lui concentrando la loro attenzione su scienziati mediocri come il nostro Guglielmo Marconi che gli aveva addirittura rubato i brevetti del telegrafo senza fili durante una visita al suo laboratorio di Colorado Springs [18].
Alla notizia della trasmissione del segnale da parte di Marconi, reagì affermando che lo scienziato italiano aveva utilizzato 17 dei suoi brevetti [19].

Sì, Nikola Tesla è stato coerente con la propria idea di Uomo di Scienza: “Il suo dovere è fissare i principi fondamentali per quelli destinati a venire dopo di lui e indicare loro la strada”. Fù Tesla infatti il primo a sviluppare le tecnologie radio moderne. Del resto esistono i brevetti che lo dimostrano. (U.S. patents #645,76 e #649,621) [20].
E proprio fondandosi su questi brevetti che il nostro Uomo di Scienza ricorse in giudizio per tutelare i propri diritti anche se una prima sentenza del 1915 andò a suo sfavore [21].

Solo nel giugno del 1943, cinque mesi dopo la sua morte, la Corte Suprema degli Stati Uniti in una sua decisione, (caso 369, 21 Giugno 1943) riconobbe che Tesla aveva per primo inventato la radio.

Tutt’oggi, si riconosce ancora a Marconi questa invenzione, perché questi per primo inviò un segnale oltreoceano [22].
Ma se Marconi riuscì a conseguire tale successo, è grazie anche alle scoperte attuate precedentemente da Tesla.

E non solo per quanto riguarda la radio.

Tesla diede il proprio contributo anche relativamente all’invenzione del radar.
All’inizio della prima guerra mondiale, Tesla ipotizzava un congegno per individuare delle navi inviando segnali che consistevano in onde radio ad alta frequenza.
Il concetto che sta dietro a questa idea sta a significare un dispositivo particolare: il radar.
Sarà proprio il Marchese Guglielmo Marconi a sviluppare questo concetto, attuando questa idea e ponendo, nella realtà dei fatti, le basi per la costruzione del radar.
Nel 1934 Marconi realizzò il collegamento radiotelegrafico fra l’Elettra (il suo laboratorio situato su un veicolo natante) ed il radiofaro di Sestri Levante, successivamente, nel 1935 compì esperienze di avvistamento sulla Via Aurelia [23].

Ironia della sorte, Tesla nel suo percorso di vita, incontrò molte volte Guglielmo Marconi. Nel 1912, Tesla venne candidato al Premio Nobel per la Fisica ma lo rifiutò per non averlo ricevuto nel 1909 al posto dell’italiano [24].

Nel 1915, di nuovo, Tesla rifiutò il premio Nobel, venendo a conoscenza del fatto che avrebbe dovuto condividerlo con Edison. Entrambi quindi non ricevettero tale onorificenza [25].

Ancora una volta Tesla si mostra lontano e schivo dagli onori, dal successo personale, lasciando il conseguimento di tutto ciò agli altri.
Lo scienziato croato sosteneva inoltre, di non stimare Edison uno scienziato in senso stretto dato il suo metodo di lavoro. Disse al riguardo: “Se Edison dovesse cercare un ago in un pagliaio, egli procederebbe con la meticolosità di un’ape ad esaminare pagliuzza per pagliuzza finché non trova l’oggetto della sua ricerca” [26].

Sembra evidente che Tesla criticasse il ricorrere eccessivo di Edison a continui e dispendiosi tentativi, progetti, modelli, quand’egli, al contrario, faceva progetti e tentativi nell’ambito della sua mente.
Sembra plausibile ritenere che Tesla non volle condividere con Edison il Premio Nobel anche dato lo “scherzo” di dubbio gusto tiratogli proprio da Tom Edison anni prima.

Ironia della sorte ancora, nel 1917 gli venne concessa, per il suo contributo al sapere scientifico, una onorificenza intitolata, guarda caso, a Edison, la Edison Medal, che questa volta accettò come ultimo disperato tentativo per evitare l’oblio.

Superata la mezza età, Tesla, nonostante le sue innovative scoperte, era a corto di soldi, spostandosi da un albergo a basso prezzo ad un altro, passando le giornate a nutrire piccioni e aspettando che qualche altro magnate, desideroso di diventare ricco a sue spese, finanziasse la realizzazione dei suoi progetti. Non ci sono notizie precise relative alla data precisa della sua morte. Si suppone che sia morto il 7 gennaio 1943, all’età di 86 anni. Tesla viveva solo, in una stanza d’albergo. Il suo corpo senza vita venne trovato circa 24 ore dopo la sua morte e venne quasi immediatamente cremato.
Più di 2000 persone presenziarono il suo funerale a Manhattan. Così, questo vecchio, dopo una lunga esistenza dedicata all’evoluzione della scienza e del benessere dell’Umanità, morì solo, povero e quasi dimenticato.
Solo pochi mesi dopo la sua morte la Corte Suprema Federale gli riconobbe la paternità della radio. Ancora una volta la sua vita è coerente con quanto egli scrisse o disse: ” Lasciamo che il futuro dica la Verità, e giudichiamo ciascuno secondo la propria opera e gli obiettivi” [27].

“La scienza non è nient’altro che una perversione se non ha come suo fine ultimo il miglioramento delle condizioni dell’ umanità”. Nikola Tesla

RIFERIMENTI:

1 – Affermazione con cui Nikola Tesla apre la propria autobiografia, reperibile su Internet all’indirizzo http://www.amasci.com/tesla/biog.txt.

2- http://www.radiomarconi.com/marconi/popov/sentenza.html

3 – Autobiografia citata, pp.3-4

4 – Anche se un’altra fonte usata nel nostro lavoro sostiene che Tesla non giunse mai al compimento degli studi poiché si era lasciato irretire dal gioco d’azzardo, vedi http://www.yale.edu/scimag/Archives/Vol71/Tesla.html

5 – http://www.crystalinks.com/tesla.html p 6.

6 – http://www.pbs.org/teslla/ll/ll_colspr.html .

7 – Vedi siti biografici http:// http://www.yale.edu/scimag/Archives/Vol71/Tesla.html , p3, http:// www. frank.germano.com/nikolatesla.htm, p. 1

8 – http:// http://www.members.tripod.com/RandyHiatt/teslapage2.html, p.2.

9 – Michael Pupin, From Immigrant to Inventor, Charles Scribner’s Sons, NY, pages 285-286.

10 – http://www.myhero.com/hero.asp?hero=nikolaTesla, p3, http://www.frank.germano.com/nikolatesla.htm, p2.

11 – http://www.frank.germano.com/nikolatesla.htm, p 3.

12 – Vedi O’ Neill, Prodigal Genius: the Life of Nikola Tesla, Brotherhood of Life Inc,1996, Albuquerque, NM. L’indice dei capitoli di questa biografia è disponibile on line sul sito http://www.geocities.com/Area51/Shadowlands/9654/tesla/prodigal.html. Cliccando sui link che portano ai titoli dei capitoli si possono leggere i singoli capitoli della biografia. L’episodio citato si trova nel paragrafo 5 del I capitolo, reperibile all’indirizzo http://www.brotherhoodoflife.com/ProgenPart1.html

13 – Citazioni trovate in http://www.crystalinks.com/tesla.html, pp 4-6.

14 – http://www.storiainrete.com/enigmi/tesla/tesla.htm. Vedi anche articolo di Tresoldi, Campo tachionico e radioestesia: ipotesi di identificazione della portante radiestesica, nel libro di Galliani, Campo Tachionico, Tecniche Nuove, 1999 pp 105-106.

15 – http://www.pbs.org7tesla/ll/ll_colspr.html

16 – http://www.angelfire.com/wi/nikolatesla/myreport.html, pp. 1-2, http://www.pbs.org/tesla/ll/ll_todre.html pp.1-2. Per una rassegna degli aricoli dell’epoca, http:// http://www.frank.germano.com/nikolatesla.htm, pp 4 e seguenti.

17 – http://www.pbs.org/tesla/ll/ll_todre.html p 1, http://www.frank.germano.com/nikolatesla.htm , p 4.

18 – http://www.members.tripod.com/RandyHiatt/teslapage2.html , p 4.

19 – http://www.pbs.org/tesla/ll/ll_todre.html

20 – http://www.concentric.net/ Jwwagner/ntes-p2.html . Per una rassegna completa dei brevetti e delle scoperte di Tesla, si consiglia il volume di stampo autobiografico Nikola Tesla, The fantastic Inventions of Nikola Tesla, Adventures Unlimites Press, 1993, Kempton, Illinois

21 – Notizia frammentaria trovata nel sito http://www.crystalinks.com/tesla.html , p 2.

22 – http://www.frank.germano.com/nikolatesla.htm , http://www.concentric.net/ Jwwagner/ntes-p2.html , http://members.tripod.com/RandyHiatt/teslapage2.html .

23 – http://www.alpcom.it/hamradio/radio2.html

24 – http://www.storiainrete.com/enigmi/tesla/tesla.htm

25 – http://www.frank.germano.com/nikolatesla.htm , p 2, http://www.crystalinks.com/tesla.html .

26 – http://www.members.tripod.com/RandyHiatt/teslapage2.html , p. 3 .

27 – http://www.frank.germano.com/nikolatesla.htm , p 4.

I segreti scomparsi di Nikola Tesla

http://www.stampalibera.com/?p=2372

ELIE WIESEL: «IL PIÙ AUTOREVOLE TESTIMONE VIVENTE» DELLA SHOAH ?

Di Carlo Mattogno

Elie Wiesel a Montecitorio

In occasione della decima “Giornata della Memoria” Elie Wiesel è stato invitato nell’aula di Montecitorio, dove ha tenuto un breve discorso infarcito di melensa retorica e condito di strambe scempiaggini, come l’appello a Fini e Berlusconi di «introdurre un disegno di legge che designi l’attentato suicida come crimine contro l’umanità», o l’auspicio che Ahmadinejad «dovrebbe essere arrestato e tradotto di fronte alla Corte dell’Aia e accusato di incitamento a crimini contro l’umanità»[1]. Considerato che le proposte vengono da uno che spalleggia i massacratori israeliani…

Le sue dichiarazioni più importanti, vedremo poi perché, sono queste:

«Io, il numero A-7713, sono qui a portarvi un messaggio su avvenimenti accaduti duemila anni più tardi. […].

Proprio in questi giorni, sessantacinque anni fa, mio padre Shlomo, figlio di Nissel e Eliezer Wiesel, numero A-7712, moriva di inedia e malattia nel campo di sterminio di Buchenwald»(corsivo mio).

Fini ha introdotto l’ospite così:

«Quello odierno è un evento eccezionale, perché è la terza volta, nella centenaria storia del Parlamento italiano, che un ospite parla solennemente all’Assemblea. È un onore che Elie Wiesel merita ampiamente, perché è davvero un personaggio eccezionale. Egli, infatti, è il più autorevole testimone vivente, tra i sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti, degli orrori della Shoah»(corsivo mio).

Indi ha proseguito:

«Da decenni Elie Wiesel ci incoraggia in questo fondamentale impegno attraverso il suo magistero morale, l’energia del suo carisma intellettuale e umano, la forza del suo impegno civile, per non dimenticare e per far progredire la causa dei diritti umani e della pace nel mondo. […].

Oltre che testimone oculare della Shoah, Wiesel è una persona piena di fede e di amore»(corsivo mio).

Elie Wiesel è un impostore?

Ciò ha richiamato l’attenzione su un articolo scritto in ungherese il 3 marzo 2009[2], tradotto in inglese il giorno dopo[3] e in italiano nel mese di aprile[4]. In estrema sintesi, Miklós Grüner, che fu deportato dall’Ungheria ad Auschwitz nel maggio 1944, indi trasferito al campo di Monowitz e infine evacuato a Buchenwald nel gennaio 1945, dichiarò che al campo strinse amicizia con due fratelli, Lázár Wiesel, nato nel 1913, che aveva il numero di matricola A-7713, e Ábrahám Wiesel, nato nel 1900, numero di matricola A-7712. In pratica, Elie Wiesel si sarebbe appropriato dell’identità di Lázár Wiesel e avrebbe usurpato quella di Ábrahám per il padre. Miklós Grüner aggiunge che, in occasione di un incontro con Elie Wiesel, che gli era stato presentato come il suo amico Lázár Wiesel, questi rifiutò di mostrargli il numero di matricola tatuato sull’avambraccio. Egli allora intraprese delle ricerche e scoprì che un Elie Wiesel non era mai stato internato in un campo di concentramento e che non figurava in alcuna lista ufficiale di deportati.

Le dichiarazioni di Miklós Grüner sono state ripetute da molti, ma senza indagare oltre. Non resta dunque che sottoporle a verifica in base alla sana metodologia critica revisionistica.

Premetto i dati anagrafici di Elie Wiesel:

nato a Sighet, Romania, il 30 settembre 1928, da Shlomo e Sarah Frig, figlia di Dodye Feig, deportato a Birkenau il 16 maggio 1944[5].

Anzitutto bisogna verificare l’attendibilità dell’accusatore. Ciò che si può dire con certezza riguardo a Miklós Grüner, è che egli si trovava a Buchenwald nel maggio 1945. In un “Questionario per detenuti dei campi di concentramento” del Military Government of Germany appare infatti il suo nome, e anche la data di nascita – 6 aprile 1928 – corrisponde. Il numero di matricola è annotato a mano in alto a sinistra: 120762[6].

Documento 1

Questionario relativo a Miklós Grüner. Buchenwald, 6 maggio 1945

Ma il personaggio chiave della vicenda è Lázár Wiesel. Fortunatamente esiste la sua scheda personale relativa al suo internamento nel campo di Buchenwald che permette di verificare le affermazioni di Miklós Grüner. In questa scheda[7], in alto, a sinistra, appare l’annotazione manoscritta “Ung. Jude”, “Ebreo ungherese”, al centro, “Ausch. A 7713”, “Auschwitz A-7713”, il vecchio numero di matricola di Auschwitz, a destra “Gef.-Nr.: 123565”, “Numero di detenuto 123565”, il nuovo numero di matricola di Buchenwald. Il detenuto era nato il 4 settembre 1913 (l’anno di nascita di Lázár Wiesel dichiarato da Miklós Grüner) a Maromarossziget ed era figlio di Szalamo Wiesel, che si trovava a Buchenwald, e di Serena Wiesel nata Feig, internata al KL Auschwitz. Il timbro “26.1.45 KL. Auschwitz” significa che Lázár Wiesel era stato registrato a Buchenwald il 26 gennaio 1945 in provenienza da Auschwitz.

Documento 2

Scheda personale di Lázár Wiesel (KL Buchenwald)

Va precisato che Maromarossziget [Máramarossziget in ungherese], l’attuale Sighetu Marmaţiei (in rumeno) è la medesima località che Elie Wiesel chiama Sighet[8].

Il nome “Szalamo” è identico a “Shlomo”, mentre “Serena” richiama foneticamente “Sarah”.

Riassumo nella tavola che segue i risultati della verifica esposta sopra:

Lázár Wiesel

Elie Wiesel

Numero di matricola

A-7713

A-7713

Data di nascita

4 settembre 1913

30 settembre 1928

Luogo di nascita

Máramarossziget = Sighet

Sighet

Nome del padre

Szalamo = Shlomo

Shlomo

Nome della madre

Serena Feig

Sarah Feig

Domicilio del padre inizio 1945

Buchenwald

Buchenwald

Miklós Grüner ha pienamente ragione: Elie Wiesel si è appropriato dell’identità di Lázár Wiesel.

Un’altra accusa formulata da Miklós Grüner riguarda l’origine del libro di Eli Wiesel “La Nuit” (in italiano “La notte”). Nella versione ungherese dell’articolo indicato nella nota 2 si dice che esso fu pubblicato in ungherese a Parigi nel 1955 dal suo amico Lázár col nome di Eliezer e col titolo “A világ hallgat” (E il mondo tace). Nella traduzione inglese dell’articolo di Grüner (vedi nota 3) invece il titolo suona “Un di Velt hot Gesvigen”, che è in jiddisch. Una ricerca sul titolo in ungherese non ha portato ad alcun risultato. Il libro in jiddisch invece è documentabile. Esso è infatti registrato nella Bibliography of Yiddish Books on the Catastrophe and Heroism[9], n. 549 a p. 81. L’annotazione, in jiddisch, dice: Eliezer Wiesel, Un di Welt hot geschwign (E il mondo ha taciuto). Buenos Aires, 1956. Unione Centrale degli Ebrei polacchi in Argentina. Collana L’ebraismo polacco, vol. 117, 252 pagine. Di questo libro esiste una traduzione in inglese che corrisponde al capitolo VII di “La Nuit”. Ne parlerò alla fine dell’articolo.

Michael Wiesberg espone al riguardo informazioni degne di nota:

Wiesel stesso ha fatto vari accenni alla storia della nascita del suo libro. Naomi Seidman ha rilevato che proprio Wiesel, in Alle Flüsse fließen ins Meer (Tutti i fiumi portano al mare) ha richiamato l’attenzione sul fatto di aver consegnato all’editore argentino Mark Turkow il manoscritto originale di “La Nuit”, redatto in jiddisch, nel 1954. A suo dire non l’aveva più rivisto, cosa che Turk nega recisamente. Questo manoscritto fu pubblicato nel 1955 a Buenos Aires col titolo Und di Velt hat Geshveyn (E il mondo ha taciuto). Wiesel pretende di averlo scritto durante una crociera in Brasile nel 1954. Però in una intervista dichiarò che solo nel maggio 1955, dopo un incontro con Mauriac[10], decise di rompere il suo silenzio. “E quell’anno [il 1955], nel decimo anno, cominciai la mia storia. Poi fu tradotta dallo jiddish in francese e io gliela mandai. Fummo molto, molto amici fino alla sua morte”.

Naomi Seidman, nelle sue ricerche su “La Nuit”, mise in chiaro che tra la versione in jiddisch e quella in francese di “La Nuit” ci sono notevoli differenze, precisamente riguardo a lunghezza, tono, intenzione e temi trattati nel libro. Ella attribuisce queste differenze all’influenza di Mauriac, che può essere descritto come una personalità molto particolare»[11].

A questo riguardo, dunque, il meno che si possa dire è che l’origine del libro resta incerta e confusa.

Elie Wiesel è un falso testimone?

Accertato ciò, resta da stabilire se Elie Wiesel sia anche un falso testimone di Auschwitz. Esamineremo perciò la sua “testimonianza oculare”, come è esposta in «quello che è considerato il suo capolavoro»(Fini), La notte[12]. Già nel 1986 Robert Faurisson scrisse un articolo intitolato Un grand faux témoin: Élie Wiesel[13]. Di recente Thomas Kues ne ha redatto un altro dal titolo Una donnola travestita da agnello[14]. Entrambi affrontano la questione in termini generali. È giunto il momento di un’analisi tematica più approndita. Bisogna premettere che la caratteristica principale della testimonianza in questione è che racconta senza descrivere; Elie Wiesel pone grande attenzione ad evitare qualunque dettaglio verificabile e ciò che dice di Birkenau, di Auschwitz, di Monowitz e di Buchenwald è talmente indefinito che la sua narrazione si potrebbe tranquillamente riferire ad un luogo della Siberia o del Canada.

a) La deportazione

Elie Wiesel non indica il giorno della sua deportazione ad Auschwitz. La sua narrazione parte comunque da un riferimento cronologico preciso: «il sabato precedente Shavuòth, la Festa delle Settimane»(p. 19). Nel 1944 questa festa cadde il 28 maggio 1944[15], che era una domenica. Il giorno in questione era perciò il 27 maggio. Il primo trasporto di Ebrei partì da Sighet il giorno dopo, 28 maggio: «Infine, all’una venne dato il segnale di partenza»(p. 23). Elie Wiesel menziona poi «la giornata di lunedì»(p. 25), l’alba del giorno dopo (p. 25) e la successiva notte (p. 27) e alla fine precisa: «Sabato, il giorno del riposo, era il giorno scelto per la nostra cacciata»(p. 28) e quello fu appunto il giorno della sua deportazione (p. 29): il 3 giugno 1944.

La durata del viaggio non è indicata, ma i trasporti dall’Ungheria impiegarono da tre a quattro giorni per arrivare ad Auschwitz-Birkenau. Elie Wiesel trascorse la notte a Birkenau e l’indomani fu trasferito ad Auschwitz dove gli fu tatuato il numero A-7713 (p. 47). Tuttavia, a suo dire, «era una bella giornata d’aprile» (p. 45).

Questa cronologia è completamente inventata. Se egli partì da Sighet il 3 giugno 1944 non poté arrivare ad Auschwitz in aprile. Per di più, il numero A-7713 fu assegnato il 24 maggio, giorno in cui furono immatricolati 2.000 Ebrei ungheresi con i numeri A-5729–A-7728[16]. Secondo Randolph L. Braham, un trasporto ebraico per Auschwitz partì da Máramarossziget il 20 maggio 1944[17]. Considerati quattro giorni di viaggio, questo è il trasporto di Lázár Wiesel, cui fu assegnato il numero A-7713 appunto il 24 maggio. Ma tutte queste cose, evidentemente, Eli Wiesel non le sapeva.

b) L’arrivo a Birkenau

Elie Wiesel racconta:

«Ma si arrivò in una stazione. Chi si trovava vicino alle finestre ce ne disse il nome: – Auschwitz. Nessuno l’aveva mai sentito dire. […].

Verso le undici il treno si rimise in movimento. Ci si affollava alle finestre. Il convoglio rotolava lentamente. Un quarto d’ora dopo rallentò ancora. Dalle finestre scorgemmo dei reticolati: capimmo che doveva trattarsi del campo. […].

E mentre il treno si era fermato noi vedemmo questa volta delle vere fiamme salire da un alto camino, nel cielo nero. […].

Noi guardavamo le fiamme nella notte. Un odore abominevole aleggiava nell’aria. Improvvisamente le porte si aprirono. […].

Davanti a noi, quelle fiamme. Nell’aria, quell’odore di carne bruciata. Doveva essere mezzanotte. Eravamo arrivati. A Birkenau»(p. 34).

Questa narrazione è insensata già dal punto di vista topografico. La stazione da cui partiva il binario di diramazione verso Birkenau (la cosiddetta “vecchia rampa”) correva obliquamente a est della recinzione del campo ad una distanza – in linea d’aria – minima di circa 500 metri . Il binario di raccordo era lungo circa 700 metri.

A Birkenau c’erano quattro crematori, denominati II, III, IV e V. I camini dei crematori più vicini (II e III) distavano in linea d’aria circa 1.400 metri, quelli più lontani (IV e V) circa 1.800 metri. Il binario di raccordo, per gli ultimi 400 metri, procedeva perpendicolarmente alla recinzione del campo, sicché dalle finestrelle del treno non si potevano vedere i crematori II e III, che si trovavano più avanti nella stessa direzione, mentre i crematori IV e V erano coperti da almeno 12 file di baracche, inoltre ciascuno era dotato di 2 camini.

Non per nulla, a mia conoscenza, nessun testimone ha mai preteso di aver visto i camini dei crematori dal treno di deportazione.

Documento 3

Fotografia aerea del campo di Birkenau del 31 maggio 1944

(NA, 60 PRS/462, D 1508, Exp. 3056)

I cerchi racchiudono i crematori; da sinistra: II, III, IV e V. L’edificio a forma di “T” contrassegnato con le lettere “ZS” è la Zentralsauna. “EG” è l’edificio di entrata (Eingangsgebäude), la freccia indica la diramazione ferroviaria dalla stazione

L’arrivo al campo è narrato da Elie Wiesel in modo straordinariamente indefinito, con grande cura nell’evitare qualunque particolare verificabile: oltre al «camino», di cui mi occupo al punto c), egli menziona soltanto «dei reticolati», indi, all’interno del campo, un «incrocio»(p. 37), «una fossa» e «un’altra fossa»(pp. 37-38), una «baracca»(p. 40) e «una nuova baracca»(p. 41).

Nessun accenno a tutto ciò che attrasse l’attenzione di tutti i veri deportati, come è documentato dalle fotografie del cosiddetto Album di Auschwitz[18] (che furono scattate qualche giorno dopo l’arrivo del convoglio di Lázár Wiesel): l’edificio di entrata (Eingangsgebäude) col suo arco, sotto il quale passavano i treni per entrare al campo, la banchina (la cosiddetta “rampa ebraica”, Judenrampe) con tre binari all’interno del campo, le recinzioni e le innumerevoli file di baracche a destra e a sinistra, le lunghe strade che tagliavano il campo in lungo e in largo, i fossati di drenaggio, le altane, i bacini antincendio, i crematori II e III alla fine della banchina.

Documento 4

L’edificio di ingresso (Eingangsgebäude) del campo di Birkenau © Carlo Mattogno

Poi il racconto diventa un po’ meno vago:

«Un barile di petrolio sulla porta. Disinfezione. Ci si bagna tutti. Poi una doccia calda. In gran fretta. Usciti dall’acqua, si è cacciati fuori. Correre ancora. Ancora una baracca: il magazzino. Lunghissime tavole. Montagne di casacche per detenuti. Noi corriamo. Quando passiamo ci lanciano pantaloni, giacca, camicia, calzini»(pp. 41-42).

Scena completamente inventata. All’epoca a Birkenau esistevano quattro impianti di disinfestazione e disinfezione (Entwesungs- und Desinfektionsanlagen). Quello principale era la cosiddetta Zentralsauna (Entwesungsanlage, BW 32), a forma di T davanti alla recinzione ovest del campo, con tre camere di disinfestazione ad aria calda (Heissluftentwesungskammern), tre autoclavi a vapore (Dampf-Desinfektionsapparate), sala doccia dotata di spogliatoio e vestitoio, sala barbieri; i due impianti BW 5a e 5b, situati nei settori BIb e BIa, parimenti forniti di sala doccia dotata di spogliatoio e vestitoio, ma l’uno con camera a gas di disinfestazione a Zyklon B, l’altro con due camere di disinfestazione ad aria calda; infine l’impianto del campo zingari BIIa, con 8 apparati di disinfestazione elettrici (elektrische Entlausungsapparate)[19]. Nei primi tre impianti, equipaggiati con spogliatoio (Auskleiraum) e vestitoio (Ankleideraum) tutte le operazioni si svolgevano all’interno degli edifici. La procedura di disinfestazione non prevedeva l’impiego di petrolio. Ma di tutto ciò Elie Wiesel non aveva alcun sentore.

Degna di menzione è anche la storiella in voga negli anni Cinquanta del buon detenuto che suggerisce ai nuovi arrivati di dichiarare un’età superiore o inferiore a quella reale per sfuggire alle “camere a gas”. A Elie Wiesel, che non aveva ancora 15 anni, il buon detenuto disse di dichiararne 18, a suo padre, che ne aveva 50, consigliò di dire 40 (p. 36). Si tratta di un racconto sciocco, perché ogni trasporto era accompagnato da liste dei deportati in cui era indicato, tra l’altro, cognome, nome e data di nascita di ciascuno, sicché all’atto della registrazione la pia menzogna sarebbe stata scoperta inevitabilmente; inoltre olocausticamente falso, perché, secondo una pubblicazione del Museo di Auschwitz, si gasavano bambini e ragazzi al di sotto di 14 anni[20], mentre per gli adulti non esisteva un limite fisso. Nei registri dei decessi (Sterbebücher) di Auschwitz, per il 1943 (per il 1944 non è rimasto alcun registro) sono attestati 4.166 casi di persone tra i 51 e i 90 anni[21].

c) “Il” camino fiammeggiante

Elie Wiesel non aveva alcuna idea di quanti crematori esistessero a Birkenau, come fossero fatti e dove si trovassero. Sebbene in un punto si lasci sfuggire un accenno alquanto fantasioso a «sei crematori»(p. 69), egli menziona sempre “il” camino, non si sa di quale crematorio, come se ce ne fosse uno solo. Di fatto i camini di Birkenau erano 6: quale sputava fiamme?

Egli insiste pure su questo singolare fenomeno: «–Vedete, laggiù, il camino? Lo vedete? Le fiamme le vedete? (Sì, le vedevamo, le fiamme)»(p. 36). Così sappiamo anche dove si trovava il camino: «Laggiù»!(Corsivo mio).

La storiella dei camini fiammeggianti andava in gran voga negli anni Cinquanta, quando Elie Wiesel scrisse La Notte (1958). Ormai non la prende più sul serio neppure un Robert Jan van Pelt, che si è industriato per dimostrare che i camini dei crematori di Birkenau fumavano… e basta[22]. In effetti questa storiella non ha alcun fondamento tecnico, come ho spiegato in un articolo specifico[23].

Documento 5

Un convoglio di Ebrei ungheresi nel campo di Birkenau – Fine maggio 1944. Le frecce indicano i camini dei crematori II e III, senza “fiamme” né fumo (da: L’Album d’Auschwitz, p.51)

d) Le “fosse di cremazione”

Questo è l’aspetto più orrorifico della sua “testimonianza oculare”:

«Non lontano da noi delle fiamme salivano da una fossa, delle fiamme gigantesche. Vi si bruciava qualche cosa. Un autocarro si avvicinò e scaricò il suo carico: erano dei bambini. Dei neonati! Sì, l’avevo visto. L’avevo visto con i miei occhi… Dei bambini nelle fiamme. […]. Ecco dunque dove andavamo. Un po’ più avanti avremmo trovato un’altra fossa, più grande, per adulti. […]. Continuammo a marciare. Ci avvicinammo a poco a poco alla fossa da cui proveniva un calore infernale. Ancora venti passi. Se volevo darmi la morte, questo era il momento. La nostra colonna non aveva da fare più che una quindicina di passi. Io mi mordevo le labbra perché mio padre non sentisse il tremito delle mie mascelle. Ancora dieci passi. Otto. Sette. Marciavamo lentamente, come dietro un carro funebre, seguendo il nostro funerale. Solo quattro passi. Tre. Ora era là, vicinissima a noi, la fossa e le sue fiamme. Io raccoglievo tutte le mie forze residue per poter saltare fuori dalla fila e gettarmi sui reticolati. In fondo al mio cuore davo l’addio a mio padre, all’universo intero e, mio malgrado, delle parole si formavano e si presentavano in un mormorio alle mie labbra: Yitgaddàl veyitkaddàsh shemé rabbà…Che il Suo Nome sia elevato e santificato…Il mio cuore stava per scoppiare. Ecco: mi trovavo di fronte all’Angelo della morte… No. A due passi dalla fossa, ci ordinarono di girare a sinistra, e ci fecero entrare in una baracca»(pp. 37-38).

Dove si svolge la scena? Come al solito, Elie Wiesel si guarda bene dal fornire il minimo punto di riferimento topografico. Secondo la storiografia olocaustica, le “fosse di cremazione” si trovavano in due siti: all’esterno del campo, di fronte alla Zentralsauna, nell’area del presunto “Bunker 2[24] e nel cortile nord del crematorio V. La prima possibilità deve essere esclusa perché, in tal caso, Elie Wiesel avrebbe dovuto menzionare l’uscita dal campo e un percorso di varie centinaia di metri in aperta campagna. Resta la seconda.

Nello studio Auschwitz: Open Air Incinerations[25] ho dimostrato, grazie all’analisi di tutte fotografie aeree di Birkenau disponibili, che la storia delle “fosse di cremazione”, per numero, superficie e finalità, non trova alcun riscontro nella realtà. L’unico sito di cremazione documentariamente attestato che esistette a Birkenau era dislocato dietro il crematorio V e aveva una superficie di circa 50 metri quadrati (mentre, secondo la propaganda olocaustica, il presunto sterminio degli Ebrei ungheresi avrebbe richiesto “fosse di cremazione” con una superficie totale di circa 5.900 metri quadrati), come si vede in questa fotografia:

Documento 6

Fotografia aerea di Birkenau del 23 agosto 1944 – Cortile nord del crematorio V

Il sito fumante è molto esiguo, come risulta dal confronto con il Krematorio V (a sinistra), che era largo circa 13 metri

Va inoltre rilevato che, per raggiungere questo, sito bisognava passare necessariamente accanto ai crematori IV e V, che non sarebbero certo sfuggiti ad un acuto osservatore di camini come Elie Wiesel, dato che ne avevano ben quattro; per di più, in prossimità di esso non c’era nessuna baracca, ma solo il crematorio V. Infine il reticolato più vicino (quello nord), sul quale si sarebbe voluto gettare il nostro testimone, si trovava al di là del fossato di drenaggio che correva lungo la recinzione.

Oltre che storicamente infondata, la storia è anche assurda, perché, se Elie Wiesel si fosse realmente avvicinato fino a due passi da una vera “fossa di cremazione”, che, per assolvere la sua funzione, avrebbe dovuto avere una temperatura minima di 600°C, si sarebbe ustionato mortalmente.

La scena dell’autocarro che scarica bambini in una “fossa di cremazione” fa parte anch’essa dell’armamentario propadandistico del dopoguerra. Essa fu illustratada David Olère in un quadro del 1947 che poi è servito di ispirazione per i “testimoni oculari” successivi[26].

Il racconto di Elie Wiesel è dunque falso e assurdo; ma è anche chiaramente pretestuoso: se egli e suo padre erano stati “selezionati” per il lavoro, perché furono portati in prossimità della “fossa di cremazione”? Per scoprire il preteso “terribile segreto” di Auschwitz e propalarlo tra altri detenuti in altri campi?

Si tratta evidentemente di un banale artificio per poter giustificare una “testimonianza oculare” orrida puramente fittizia.

e) Il trasferimento ad Auschwitz

Dopo una notte trascorsa in una baracca del campo zingari, Elie Wiesel fu trasferito al campo principale di Auschwitz. Anche in questo caso la descrizione del tragitto è oltremodo vaga:

«La marcia era durata una mezz’ora. Guardandomi intorno mi accorsi che i reticolati erano dietro di noi: eravamo usciti dal campo. Era una bella giornata d’aprile. Profumi di primavera aleggiavano nell’aria. Il sole calava verso occidente. Ma appena dopo pochi passi vedemmo i reticolati di un altro campo. Un cancello di ferro, con su in alto scritto:“Il lavoro rende liberi”. Auschwitz»(p. 45).

Così egli non si accorse neppure all’uscita dal campo di essere passato sotto l’arco dell’edificio di ingresso di Birkenau. Lungo il tragitto non notò nulla, né il ponte sopra la ferrovia, né il lungo viale che portava al campo di Auschwitz. La scritta “Arbeit macht frei” invece la notò subito (ma non in tedesco!), come la può notare chiunque abbia sentito parlare di Auschwitz.

Non c’è bisogno di dire che egli si guarda bene dal descrivere, sia pure sommariamente, il nuovo campo. Ivi giunto, fu accolto nel Block 17, di cui ovviamente non dice nulla.

«Nel pomeriggio ci misero in fila. Tre prigionieri portarono un tavolo e degli strumenti chirurgici. Con la manica del braccio sinistro tirata su ognuno doveva passare davanti alla tavola. I tre “anziani”, ago alla mano, ci incidevano un numero sul braccio sinistro. Io diventai A-7713»(p. 47).

Anche questa descrizione è fasulla. Ho già esposto l’impostura del numero di matricola. Aggiungo che, come riferisce Tadeusz Iwaszko,

«i nuovi arrivati (Zugang) venivano portati negli edifici dei bagni, che ad Auschwitz I si trovavano nel blocco nr. 26»[27].

Elie Wiesel tace anche tutte le importanti operazioni preliminari, che evidentemente non conosceva affatto:

«La registrazione avveniva subito dopo il bagno e la consegna dei vestiti e consisteva nella compilazione di un modulo con i dati personali (Häftlings-Personalbogen) e l’indirizzo dei familiari più prossimi. […]. Il detenuto riceveva quindi un numero progressivo che per tutta la durata del suo soggiorno al KL avrebbe sostituito il suo nome. La procedura di immatricolazione si concludeva con il tatuaggio del numero sull’avambraccio sinistro»[28].

Egli parla poi dell’appello serale:

«Decine di migliaia di detenuti stavano in fila mentre le S.S. verificavano il loro numero»(p. 47)(corsivo mio).

Ma la forza del campo di Auschwitz era di gran lunga più esigua. Il 12 luglio 1944 contava circa 14.400 detenuti[29].

f) Il trasferimento a Monowitz

Dopo tre settimane di permanenza ad Auschwitz (p. 48), Elie Wiesel fu trasferito al campo di Buna (p. 50), cioè Auschwitz III o Monowitz. Anche qui nessuna descrizione del campo, nessun particolare verificabile[30]. Le poche informazioni da lui fornite sono tutte fantasiose. Egli comincia subito con una contraddizione:

«Nel nostro convoglio c’erano dei bambini di dieci, dodici anni»(p. 51).

Forse anche questi, per scampare alle “camere a gas”, avevano dichiarato 18 anni?

Indi furono «sistemati in due tende»(p. 51), come se non ci fosse posto nelle 60 baracche del campo, così descritto da Primo Levi:

«questo nostro Lager è un quadrato di circa seicento metri di lato, circondato da due reticolati di filo spinato, il più interno dei quali è percorso da corrente ad alta tensione. È costituito da sessanta baracche in legno, che qui si chiamano Blocks, di cui una decina in costruzione; a queste vanno aggiunti il corpo delle cucine, che è in muratura; una fattoria sperimentale, gestita da un distaccamento di Häftlinge privilegiati; le baracche delle docce e delle latrine, in numero di una per ogni gruppo di sei od otto Blocks. Di più, alcuni Blocks sono adibiti a scopi particolari. Innanzitutto, un gruppo di otto, all’estremità est del campo, costituisce l’infermeria e l’ambulatorio; v’è poi il Block 24 che è il Krätzeblock, riservato agli scabbiosi; il Block 7, in cui nessun comune Häftling è mai entrato, riservato alla “Prominenz”, cioè all’aristocrazia, agli internati che ricoprono le cariche supreme; il Block 47, riservato ai Reichsdeutsche (gli ariani tedeschi, politici o criminali); il Block 49, per soli Kapos; il Block 12, una metà del quale, ad uso dei Reichsdeutsche e Kapos, funge da Kantine, cioè da distributorio di tabacco, polvere insetticida, e occasionalmente altri articoli; il Block 37, che contiene la Fureria centrale e l’Ufficio del lavoro; e infine il Block 29, che ha le finestre sempre chiuse perché è il Frauenblock, il postribolo del campo, servito da ragazze Häftlinge polacche, e riservato ai Reichsdeutsche»[31].

Confrontata con questa, la non-descrizione di Elie Wiesel è tristemente patetica.

Parlando a Montecitorio, egli non ha saputo resistere alla tentazione di ostentare la conoscenza di Primo Levi:

«Ad un certo punto siamo stati assegnati alla stessa baracca, ma non era presente nella marcia della morte verso i vagoni che ci hanno portato a Buchenwald; è rimasto in ospedale»[32](corsivo mio).

Tuttavia Primo Levi fu assegnato al Block 30[33], poi al Block 45[34] e infine al Block 48[35]. In quale Block alloggiò Elie Wiesel? La risposta non è semplice. Egli menziona dapprima «il blocco dell’orchestra»[36], che si trovava effettivamente «vicino alla porta del campo»(p. 53), poi menziona un paio di volte il Block 36 («… mi misi a correre verso il blocco 36…Corsi verso il blocco 36…» (p. 74 e 77), senza precisare se vi alloggiasse; infine dichiara esplicitamente che si trovava nel Block 57 (p. 84). In pratica Elie Wiesel e Primo Levi non si trovarono mai nella stessa baracca. Una pia menzogna nel bel mezzo di Montecitorio, al cospetto di cotanti illustri uditori!

La storiella dell’estrazione di denti d’oro a detenuti vivi con conseguente chiusura del «gabinetto del dentista»(p. 55) non ha alcun fondamento. I denti d’oro venivano estratti ai cadaveri e il gabinetto dentistico (Zahnstation), che si trovava nel Block 15 ed operava sotto la supervisione delle SS, non fu chiuso.

Elie Wiesel espone poi questa narrazione riguardo a un detenuto “selezionato” per le “camere a gas”:

«Quando arrivò la selezione era già condannato e non fece altro che offrire il suo collo al boia. Ci chiese soltanto:“Fra tre giorni non ci sarò più… Dite il Kaddish per me”. Noi glielo promettemmo: fra tre giorni, vedendo alzarsi il fumo dal camino, avremmo pensato a lui, avremmo raccolto dieci uomini e avremmo fatto una funzione speciale. […]. Allora se ne andò, nella direzione dell’ospedale con un passo quasi sicuro, senza guardarsi indietro. Un’ambulanza lo aspettava per portarlo a Birkenau»(p. 78)[Corsivo mio].

Il nostro “testimone oculare” o aveva dimenticato che doveva trovarsi al campo di Monowitz, dove non esisteva alcun crematorio, oppure aveva una vista tanto acuta da riuscire a vedere il fumo “del camino” (uno dei sei, a scelta) di Birkenau, cosa un po’ improbabile, perché i due campi distavano in linea d’aria circa 5 chilometri e in mezzo c’era la città di Auschwitz.

D’altra parte, scomodare un’ambulanza per trasportare un detenuto alla “gasazione”, questo sì che era una vera “Sonderbehandlung”, un “trattamento speciale”!

In fatto di “selezioni”, Elie Wiesel afferma che ad una di esse era presente «il famoso dottor Mengele»(p. 73), che, essendo Lagerarzt del campo zingari (BIIe) di Birkenau, aveva ben altro da fare che andare a Monowitz a effettuare “selezioni”. Questo è l’unico medico menzionato da Elie Wiesel, che lo avrebbe anche accolto a Birkenau (p. 37), appunto perché era «famoso», anche tra coloro che non avevano mai messo piede ad Auschwitz.

Il nostro “testimone oculare” si concede persino un particolare verificabile: un attacco aereo alleato.

Esso avvenne «una domenica»; il giorno lo ricordava bene, perché ne approfittò «per dormire fino a tardi»(p. 61). «Il bombardamento durò più di un’ora»(p. 63). Il commento di Elie Wiesel: «Vedere la fabbrica consumarsi nell’incendio, che vendetta! »(p. 62)[corsivo mio].

Il bombardamento avvenne il 13 settembre 1944, che era un mercoledì, durò 13 minuti, dalle 11.17 alle 11.30 e distrusse solo una parte degli impianti. A Monowitz non c’era infatti «la fabbrica», ma decine e decine di impianti.

Sorvoliamo su altre scempiaggini minori, come la pena di morte comminata «in nome di Himmler»!(p. 64) e passiamo al suo ricovero all’ospedale del campo (probabilmente ispirato da quello di Primo Levi). Ciò avvenne «verso la metà di gennaio», quando gli si gonfiò il piede destro a causa del freddo e fu necessario un intervento chirurgico. Egli fu dunque ricoverato all’ospedale e non gli sfuggì che «era molto piccolo»(p. 79). Infatti era costituito da appena 9 blocchi, 2 di convalescenza (13 e 22), 2 di chirurgia (14 e 16), 1 di medicina interna con gabinetto dentistico (15), 2 di medicina interna (17 e 19), 1 con ambulatorio e ufficio degli scrivani (18) e 1 per malattie infettive.

g) Il trasferimento a Buchenwald

Alla decisione di Elie Wiesel di partire con i Tedeschi e di non aspettare i Sovietici non bisogna attribuire un qualche significato particolare, perché, nel suo contesto letterario, è psicologicamente giustificata dal timore (ingiustificato) che tutti coloro che fossero rimasti al campo sarebbero stati fucilati.

Tralascio tutte le peripezie della marcia di evacuazione e del trasporto in treno e passo subito all’arrivo a Buchenwald. Da tener presente solo la durata del viaggio: 3 giorni di sosta a Gleiwitz (p. 94), più un giorno per arrivarvi a piedi da Monowitz, «dieci giorni e dieci notti di viaggio»(p. 97) in treno, in totale 14 giorni. Riguardo a Buchenwald identica non-descrizione: impossibile identificare una qualunque parte del campo. Egli parla di docce (p. 105) ma evita accuratamente di menzionare la procedura di immatricolazione. Abbiamo visto sopra che Miklós Grüner e Lázár Wiesel, i quali a Buchenwald ci andarono davvero, ricevettero rispettivamente il numero di matricola 120762 e 123565.

Se Elie Wiesel avesse menzionato questo fatto ovvio, l’immatricolazione, avrebbe dovuto render conto di due numeri di matricola. Cosa ancora più gravosa per lui, perché nello schedario dei detenuti di Buchenwald un Elie (o Eliezer) Wiesel non compare affatto.

Esaminiamo infine se il suo racconto dell’arrivo a Buchenwald è conforme ai documenti.

Egli afferma che andò alla doccia «il terzo giorno dopo il nostro arrivo a Buchenwald»(p. 105), che era «il 28 gennaio 1945»(p. 108), sicché partì da Monowitz l’11 gennaio e arrivò a Buchenwald il 25. Nel gennaio 1945 dal complesso Auschwitz-Birkenau arrivarono a Buchenwald tre convogli di deportati[37]:

Data di partenza

Data di arrivo

Numeri di matricola

Numero detenuti

18 gennaio

22 gennaio

117195-119418

2.224

18 gennaio

23 gennaio

119419-120337

919

18 gennaio

26 gennaio

120348-124274

3.927

Nessun trasporto partì l’11 gennaio, nessuno impiegò più di 8 giorni. Quello arrivato il 26 gennaio portò sia Lázár Wiesel, sia Miklós Grüner, come risulta dai loro rispettivi numeri di matricola 120762 e 123565.

Come ho accennato sopra, il testo originario in jiddisch da cui Elie Wiesel ha tratto il capitolo VII del suo libro (il racconto del viaggio da Gleiwitz a Buchenwald) è stato tradotto in inglese da Moshe Spiegel col titolo “The Death Train[38]. I due testi sono molto simili, ma nel primo il numero dei detenuti caricati nel vagone di Elie Wiesel non è di 100 (p. 101), ma di 120[39]. Inoltre lì egli menziona anche il numero dei vagoni: 25[40]. Il numero dei detenuti del suo vagone arrivati vivi a Buchenwald è invece identico: 12 (p. 101)[41]. Perciò in questo vagone si sarebbe verificata una mortalità dell’ 88% o del 90%. Ma anche l’intero convoglio avrebbe pagato un alto tributo di morti:

«Il viaggio durò dieci interminabili giorni e notti. Ogni giorno reclamò la sua quota di vittime e ogni notte pagò il suo omaggio all’Angelo della Morte»[42].

Il giorno dell’arrivo a Buchenwald ci furono 40 morti[43].

Nei vagoni sarebbero stati caricati (25 x 100 ÷ 120 =) 2.500 ÷ 3.000 detenuti, di cui la maggioranza sarebbe morta durante il viaggio.

Si sa però che il trasporto che giunse a Buchenwald il 26 gennaio 1945 contava alla partenza, secondo la lista nominativa dei deportati, 3987 detenuti[44]; se a Buchenwald ne furono immatricolati 3.927, significa che vi furono 60 decessi, l’1,5%.

Da tutti i dati esposti sopra risulta pertanto che il racconto del viaggio da Gleiwitz a Buchenwald non può essere veritiero.

Concludendo, Elie Wiesel non è mai stato internato né a Birkenau, né ad Auschwitz, né a Monowitz, né a Buchenwald.

Per quanto riguarda suo padre Shlomo, il suo nome[45] appare nel Central Database of Shoah Victims’ Name [46] dello Yad Vashem, ma queste informazioni sono state trasmesse in data 8 ottobre 2004 da Elie Wiesel stesso!

Un’ultima osservazione. Si sostiene che la presenza di Elie Wiesel a Buchenwald sarebbe attestata da una fotografia che ritrae un gruppo di detenuti di questo campo:

«Foto di Harry Miller di lavoratori schiavi al campo di concentramento di Buchenwald dopo l’arrivo al campo delle truppe statunitensi dell’80a divisione. Scattata il 16 aprile 1945. Miklos Grüner (numero di matricola 120762) è in basso a sinistra, Elie Wiesel (numero di matricola 123565) è nella fila sopra, vicino al terzo travicello da sinistra»[47].

Tuttavia il fatto che il volto della persona ritratta nella fotografia fosse quello di Elie Wiesel si basa soltanto su una sua dichiarazione, su un suo sedicente auto-riconoscimento. Quanto al “suo” numero di matricola – 123565 – , esso apparteneva a Lázár Wiesel!

Impostura e falsa testimonianza: Elie Wiesel è proprio «un personaggio eccezionale», il simbolo vivente dell’ “Olocausto”. E chi lo esalta come «personaggio eccezionale» è degno del suo sublime «magistero morale».

Carlo Mattogno

3 febbraio 2010



[1] Si veda il resoconto stenografico in: http://www.camera.it/cartellecomuni/Leg16/files/pdf/opuscolo_giorno_della_memoria.pdf

[2] Még mindig kísérti a haláltábor (Il campo di sterminio continua a tentare ancora), in:

http://www.haon.hu/hirek/magyarorszag/cikk/meg-mindig-kiserti-a-halaltabor/cn/haon-news-FCUWeb-20090303-0604233755

[3] Auschwitz Survivor Claims Elie Wiesel is an Impostor, in:

http://www.henrymakow.com/translated_from_the_hungarian.html

[4] Auschwitz: Wiesel è un impostore, in: http://olo-dogma.myblog.it/archive/2009/04/20/auschwitz-wiesel-e-un-impostore.html

[5] Eli Wiesel, in: http://en.wikipedia.org/wiki/Early_life

[6] NARA (National Archives and Records Administration, Washington), A 3355, RG 242.

[7] Idem.

[8] Sighetu Marmaţiei, in: http://it.wikipedia.org/wiki/Sighetu_Marma%C5%A3iei

[9] YIVO Institute for Jewish Research, New York, 1962.

[10] François Mauriac, il prefatore del libro di Eli Wiesel.

[11] Michael Wiesberg, Unversöhnlich – Elie Wiesel zum 80. In: Grundlagen, Sezession 25, agosto 2008, p. 25.

[12] Giuntina, Firenze, 1986.

[13] In: R. Faurisson, Écrits Révisionnistes (1974-1998), vol. II, De 1984 à 1989. Édition privée hors-commerce., 1999, pp. 606-610. In rete: http://www.vho.org/aaargh/fran/archFaur/1986-1990/RF861017.html (francese); http://www.ihr.org/leaflets/wiesel.shtml (inglese).

[14] Elie Wiesel: la donnola travestiata da agnello, in: http://andreacarancini.blogspot.com/2010/01/elie-wiesel-la-donnola-travestita-da.html

[15] http://www.hebcal.com/hebcal/?year=1944&v=1&month=5&yt=G&nh=on&nx=on&i=off&vis=on&set=on&c=off&geo=zip&zip=&m=72&.cgifields=nx&.cgifields=nh&.s=Get+Calendar

[16] Liste der Judentransporte, Museo di Auschwitz-Birkenau, microfilm n. 727/27.

[17] R.L. Braham, A Magyar Holocaust. Gondolat Budapest-Blackburn International Incorporation Wilmington, 1988, p. 514

[18] L’Album d’Auschwitz. Édition du Suil, Parigi, 1983.

[19] Questi impianti sono stati ben descritti da Jean-Claude Pressac in: Auschwitz: Technique and Operation of the Gas Chambers. The Beate Klarsfeld Foundation, New York, 1989, pp. 53-85.

[20] Auschwitz. Il campo nazista della morte. Edizioni del Museo Statale di Auschwitz-Birkenau, 1997, p. 122

[21] Thomas Grotum, Jan Parcer, «EDV-gestützte Auswertung der Sterbeeinträge», in: Sterbebücher von Auschwirt. A cura del Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau. K.G. Saur, Monaco, New Providence, Londra, Parigi, 1995, vol. 1, p. 248.

[22] R.J.van Pelt, The Case for Auschwitz. Evidence from the Irving Trial, op. cit., p. 504.

[23] «Verbrennungsexperimente mit Tierfleisch und Tierfett. Zur Frage der Grubenverbrennungen in den angeblichen Vernichtungslagern des 3. Reiches», in: Vierteljahreshefte für freie Geschichtsforschung, anno 7, n. 2, luglio 2003, pp. 185-194.

[24] Ma nessuna fotografia aerea attesta la presenza di fumo in quest’area.

[25] Theses & DissertationsPress, Chicago.

[26] Vedi al riguardo il mio studio Le camere a gas di Auschwitz. Studio storico-tecnico sugli “indizi criminali” di Jean-Claude Pressac e sulla “convergenza di prove” di Robert Jan van Pelt. Effepi, Genova, 2009, p. 552.

[27] Auschwitz. Il campo nazista della morte, op. cit., p. 52.

[28] Idem, p. 54.

[29] D. Czech, Kalendarium der Ereignisse im Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau 1939-1945. Rowohlt Verlag, Reinbek bei Hamburg, 1989, p. 821.

[30] Tranne quello relativo alla baracca dell’orchestra del campo.

[31] P. Levi, Se questo è un uomo. Einaudi, Torino, 1984, pp. 35-36.

[32] http://www.camera.it/cartellecomuni/Leg16/files/pdf/opuscolo_giorno_della_memoria.pdf

[33] P. Levi, Se questo è un uomo, op. cit., p. 44.

[34] Idem, p. 70.

[35] Idem, p. 160.

[36] Il blocco dell’orchestra era al di fuori della numerazione delle baracche del campo, che andava da 1 a 60.

[37] Het Nederlandsche Roode Kruis, Auschwitz, Deel VI, ‘s-Gravenhage, 1952, p. 39.

[38] In: Anthology of Holocaust Literature, a cura di Jacob Glatstein, Israel Knox e Samuel Margoshes. A Temple Book, Atheneum, New York, 1968, pp. 3-10.

[39] Idem, p. 10.

[40] Idem, p. 9.

[41] Idem, p. 10.

[42] Idem, p. 5.

[43] Idem, p. 10.

[44] Andrzej Strzelecki, Endphase des KL Auschwitz. Verlag Staatliches Museum in Oświęcim-Brzezinka, 1995, pp. 338-229. Riproduzione di due pagine della lista del trasporto originale.

[45] Vi figura come Shlomo Vizel, figlio di Eliezer e di Nisel, nato a Sighet e morto a Buchenwald il 27 gennaio 1945. L’anno di nascita non è indicato.

[46] http://www.yadvashem.org/wps/portal/IY_HON_Welcome

[47] Elie Wiesel’s identity crisis, in: http://christopherhitchenswatch.blogspot.com/2009/03/elie-wiesels-identity-crisis.html

http://www.italiasociale.org/storia07/storia130310-1.html