DEMOCRAZIA DEL LAVORO

DAL BORDELLO NEL QUALE SIAMO STATI GETTATI A SEGUITO DELLA SCONFITTA (SI BADI BENE: SCONFITTA MILITARE, NON DELLE IDEE) DEL 1945, C’E’ UNA VIA D’USCITA?


DEMOCRAZIA DEL LAVORO (Per intenderci quella MUSSOLINIANA)

di Filippo Giannini
   L’11 marzo 1945, il fondatore del Partito Comunista d’Italia, Nicola Bombacci, parlando al Teatro Universale, di fronte alle Commissioni interne degli stabilimenti industriali, fra l’altro affermò: “Il socialismo non lo farà Stalin, ma lo farà Mussolini che è socialista”
E il 13 marzo successivo, parlando allo stabilimento industriale dell’Ansaldo, di fronte a più di mille operai disse: “Fratelli di fede e di lotta, guardiamoci in viso e parliamo pure liberamente: voi vi chiedete se io sia lo stesso agitatore socialista, comunista, amico di Lenin, di vent’anni fa? Sissignori, sono sempre lo stesso, perché io non ho rinnegato i miei ideali per i quali ho lottato e per i quali, se Dio mi concederà di vivere ancora, lotterò sempre. Ma se mi trovo nelle file di coloro che militano nella Repubblica Sociale Italiana, è perché ho veduto che questa volta si fa sul serio e che si è veramente decisi  a rivendicare i diritti degli operai”.
   Quale era la strada intrapresa da Nicola Bombacci? Per giungere allo Stato Organico, alla Socializzazione dello Stato, il passaggio era (ed ancora oggi dovrebbe essere) lo Stato Corporativo.
Michaal Shanks, economista di vasta esperienza internazionale, già direttore della Commissione europea degli affari sociali e presidente  del Consiglio nazionale dei consumi, nel suo libro What is wrong with the modern world? (Cosa c’è di sbagliato nel mondo moderno?) indica lo Stato Corporativo di Mussolini, di fronte al persistente crisi del liberismo e del marxismo, come l’unico modello per uscire dalle contrapposizioni vigenti nella Democrazia Parlamentare. 
Non c’è alternativa, conclude l’economista inglese: o lo Stato Corporativo o lo sfascio dello Stato.
   Oggi, anno 2011 Era LXVI dello Stato Sfascista, siamo giunti allo Sfascio dello Stato.

   È sotto gli occhi di tutti (a parte di coloro che ne godono i privilegi) le ingiustizie e le disuguaglianze che consentono e alimentano una società basata su sistemi liberali in politica e liberisti in economia. Questi sistemi sostenitori di una libertà che si trasforma inanarchia dove solo il più svelto, il più spregiudicato, il più privo di scrupoli, il più prepotente, il più imbroglione, il più ricco prevale su tutti. 
E ancora una volta ricordiamo l’ammonimento di Benito Mussolini: “La corruzione non è NEL sistema, ma è DEL sistema”, e possiamo aggiungere che ciò è ampiamente comprovato. Allora, giusto come ha scritto il giornalista Franco Monaco: “Per rifare l’Italia, per rifarla Nazione bisogna mandare all’aria anzitutto i partiti. Perché una vera democrazia è cosa ben diversa da quella di loro comodo, grottesca impalcatura di gole profonde. Una vera democrazia  non può fondarsi che sulla serietà pura e semplice del lavoro, quindi su una rappresentanza chiara, diretta e responsabile di tutte le categorie produttive”.
   Ora un po’ di storia.

   Prima con il Lodo di Palazzo Vidoni dell’ottobre 1925, poi con la Carta del Lavoro presentata il 21 aprile 1927 (sì, signori, addirittura più di ottanta anni fa) codificava, per la prima volta al mondo, i rapporti fra capitale e lavoro, cioè fra il proprietario di un’azienda e il lavoratore, basava l’intero sistema sulla collaborazione di classe in contrapposizione all’allora vigente lotta di classe, rendendo, in pratica, due forze non più ferocemente antagoniste, ma collaborative nel comune interesse. 
Di nuovo Franco Monaco (Quando l’Italia era ITALIA, pag. 47): “Questa unitarietà di comportamento dei datori di lavoro e dei lavoratori non poteva essere basata che su una loro uguaglianza totale: giuridica, politica ed economica. Perciò l’ordinamento corporativo ridimensionava il capitale, gli toglieva la vecchia arroganza padronale, lo faceva diventare strumento tecnico dell’economia, senza per altro mettere in discussione la proprietà privata”
La Carta del Lavoro fu la premessa legislativa necessaria per l’impalcatura dell’apparato corporativo. 
Con la creazione nel luglio 1926 del Ministero delle Corporazioni, nel 1930 vide la luce il Consiglio Nazionale delle Corporazioni.  
   L’insieme dell’edificio corporativo andava costruito in tempi assennati perché sottoposto a continue verifiche, limature, variazioni, aggiunte. 
A seguito di ciò, con la legge del febbraio 1934 il sistema corporativo appariva quasi compiuto, mancava solo la sostituzione della ormai praticamente esautorata Camera elettiva con un organo espresso dalle corporazioni. Le elezioni plebiscitarie a lista unica, nel marzo 1934 e conseguente impresa etiopica, avevano probabilmente ritardato la variazione istituzionale e la creazione del nuovo assetto rappresentativo corporativo.
   Nel 1939 entrò in funzione la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, organo legislativo e rappresentativo, con 600 deputati chiamati Consiglieri Nazionali.
   La nascita dello Stato Corporativo rappresentò il tentativo di superare i limiti del così detto Stato liberale e l’incubo dello Stato sovietico. Il Secondo conflitto mondiale infranse l’esperimento in una fase che era già cruciale a causa dell’isolamento internazionale provocato dalle sanzioni e dall’autarchia. 
Così si espresse il Direttore de Il Giornale d’Italia in un vecchio articolo.
    Il Dottor Sebastiano Barolini di Pontinia (Lt) ha scritto che ha avuto la ventura di studiare il Diritto Corporativo che pone l’uomo al centro della Società e, riassumendo: 
1) Ridimensionamento dello strapotere dei padroni attraverso la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese; 
2) Partecipazione dei lavoratori agli utili delle imprese; 
3) Partecipazione dei lavoratori alle scelte decisionali onde evitare chiusure di aziende o licenziamenti improvvisi senza che ne siano informati per tempo i dipendenti, i quali sono interessati a trovare altre soluzioni atte a non perdere il posto di lavoro; 
4) Intervento dello Stato attraverso i suoi funzionari immessi nei consigli di amministrazione allorquando le imprese assumono interesse nazionale a maggior difesa dei lavoratori (altro che l’intervento di Marchionne); 5) Diritto alla proprietà in funzione sociale e cioè lotta alle concentrazioni immobiliari e diritto per ogni cittadino, in quanto lavoratore, alla proprietà della sua abitazione; 
6) Diritto alla iniziativa privata in quanto molla di ogni progresso sociale di contro all’appiattimento collettivista e alle concentrazioni capitaliste; 
7) Edificazione si una giustizia sociale che prelevi il di più del reddito ai ricchi e lo distribuisca fra le classi più povere attraverso la previdenza sociale, l’assistenza gratuita alla maternità e all’infanzia, le colonie marine e montane per i bambini poveri, l’assistenza agli anziani, il dopolavoro per i lavoratori, i treni popolari e via dicendo; 
8) Eliminazione dei conflitti sociali attraverso la creazione di un apposito Tribunale del Lavoro in base al principio che un cittadino non può farsi giustizia da sé altrettanto deve valere per i conflitti sociali ad evitare scioperi e serrate che tanti danni provocano alle parti in causa ed alla collettività nazionale; 
9) Abolizione dei sindacati di classe ormai ridotti a cinghie di trasmissione dei partiti che li controllano e creazione dei sindacati di categoria economica con conseguente modifica del Parlamento in una Assemblea composta da membri eletti attraverso le singole Confederazioni di categoria dei datori di lavoro e dei lavoratori; 
10) Attuazione, particolarmente nel Mezzogiorno, della bonifica integrale, che toglie ai latifondisti le terre incolte, le rende produttive e le distribuisce in proprietà gratuita ai contadini poveri.
   Nell’Enciclica di Pio XI Quadragesimo anno, si legge fra l’altro: “Ciò che ferisce gli occhi è che ai nostri tempi non vi è solo concentrazione della ricchezza, ma l’accumularsi altresì di una potenza enorme, di una dispotica padronanza dell’economia in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari ed amministratori del capitale di cui però dispongono a loro grado e piacimento”
Insieme alle famose Encicliche Rerum Novarum Centesimus Annus si può affermare che le Encicliche papali sono la trasposizione politica dei problemi sociali che avevano proposto la Chiesa.
   Quindi rivolgiamo una esortazione ai giovani, ne va del vostro futuro: dedicatevi allo studio del Diritto corporativo e ignorate le interessate e fraudolenti, mendaci voci che vi parlano di spinte corporative o di iniziative settoriali corporative
Lo Stato Corporativo è tutto l’opposto perché è volto, attraverso l’esame dei programmi proposti dalle singole Confederazioni di categoria, a formulare una seria e globale programmazione economica ben diversa da quelle inconsistenti dall’attuale disonesto e incapace regime.
   Siamo ora declassati a Nazione di serie B a causa dell’incapacità e corruzione dell’attuale regime.
    A dimostrazione di quanto scritto, oltre al già citato Michaal Shanks, diamo la voce ad altri studiosi e autorità che sono al di sopra di ogni sospetto di simpatie per il passato regime.
Un riconoscimento alla validità della proposta corporativa venne addirittura da Gaetano Salvemini: 
L’Italia è diventata la Mecca degli studiosi della scienza politica, di economisti, di sociologi, i quali vi si affollano per vedere con i loro occhi com’è organizzato e come funziona lo Stato corporativo fasci­sta. Giornali, riviste, periodici specializzati, facoltà di scienze politiche, di economia, di sociologia, delle grandi come delle piccole università, inondano il mondo di articoli, di saggi, opuscoli, libri che formano già una biblioteca di dimensioni rispettabili sullo Stato corporativo fascista, le sue istituzioni, i suoi aspetti politici, i suoi indirizzi di politica economica, i suoi effetti speciali”.
      In questo contesto non possiamo non ricordare che quando Mussolini, nel 1934, affermò. 
L’America va verso l’economia corporativa”, disse molto meno di quanto non si potrebbe credere. L’America non riusciva a superare la crisi economica che l’attanagliava e Roosevelt, favorevolmente colpito dalla politica mussoliniana, inviò attraverso Italo Balbo, “parole di apprezzamento per l’organizzazione corporativa del nostro Paese”
In merito ha scritto Vaudagna: “In Italia intellettuali, politici e giornalisti videro nel New Deal una sorta di corporativismo in embrione, che seguiva la strada aperta dal fascismo”
Roosevelt, nel contesto di una economia che era sempre stata ispirata ai principi del più sfrenato ed incontinente liberismo, introdusse , con le buone e assai più con le cattive, il coordinamento economico da parte dello Stato, la qual cosa fu, non a torto, valutato come un punto di svolta determinante.
    Zeev Sternhell, ebreo, professore di Scienze Politiche presso l’Università di Gerusalemme, col saggio “La terza via fascista” (“Mulino”  1990), nel quale, tra le molte altre considerazioni, possiamo leggere: 
Il Fascismo fu una dottrina politica, un fenomeno globale, culturale, che riuscì a trovare soluzioni originali ad alcune grandi questioni, che dominarono i primi anni del secolo”. L’autore continua a spiegare: “Le ragioni dell’attrazione esercitata dal Fascismo su eminenti uomini della cultura europea, molti dei quali trovarono in esso la soluzione dei problemi relativi al destino della civiltà occidentale>
Sono proprio le soluzioni sociali ad attrarre maggiormente il giudizio del  professore di Scienze Politiche:
Il corporativismo riuscì a dare la sensazione a larghi strati della popolazione che la vita fosse cambiata, che si fossero dischiuse delle possibilità completamente nuove di mobilità verso l’alto e di partecipazione”.
   Torniamo a Roosevelt. Questi aveva impostato la campagna elettorale all’insegna del New Deal, ossia ad un vasto intervento statale in campo economico, proponendo un’alternativa al liberismo capitalista. 
Una volta eletto Roosevelt (e questo nel dopoguerra venne accuratamente nascosto) inviò, nel 1934, in Italia Rexford Tugwell e Raymond Moley, due fra i suoi più preparati uomini del Brain Trust per studiare il miracolo italiano.
   E allora, per tornare al titolo di questo pezzo, riprendiamo uno stralcio del lavoro di Lucio Villari:
“Tugwell e Moley, incaricati alla ricerca di un metodo di intervento pubblico e di diretto impegno dello Stato che, senza distruggere il carattere privato del capitalismo, ne colpisse la degenerazione e trasformasse il mercato capitalistico anarchico, asociale e incontrollato, in un sistema sottoposto alle leggi e ai principi di giustizia sociale e insieme di efficienza produttiva”.
 Roosevelt inviò Rexford Tugwell a Roma per incontrare Mussolini e studiare da vicino le realizzazioni del Fascismo. Ecco come Lucio Villari ricorda il fatto tratto dal diario inedito di Rexford Tugwell in data 22 ottobre 1934 (Anche l’Economia Italiana tra le due Guerre, ne riporta alcune parti; pag. 123): 
Mi dicono che dovrò incontrarmi con il Duce questo pomeriggio… La sua forza e intelligenza sono evidenti come anche l’efficienza dell’amministrazione italiana, è il più pulito, il più lineare, il più efficiente campione di macchina sociale che abbia mai visto. Mi rende invidioso… Ma ho qualche domanda da fargli che potrebbe imbarazzarlo, o forse no” 
   Erano gli anni che da tutto il mondo (e lo ripeto: da tutto il mondo) politici e studiosi venivano in Italia per studiare il MIRACOLO ITALIANO. Esattamente come oggi, vero? E chi può ci smentisca!
   Andiamo verso la conclusione e citiamo di nuovo Franco Monaco: “C’è una sola strada da percorrere, tutta italiana, ma preclusa ai grassatori: una strada da riprendere con un impegno non tribunizio, ma di studio e di ampia informazione pubblica, se si vogliono veramente ricostruire i valori crollati”.
   Per valori crollati, Franco Monaco si riferisce a quelli crollati nella non troppo lontana sconfitta militare del 1945, quando i liberatori ci imposero le loro leggi, quelle basate essenzialmente sul valore del dollaro.

Torneremo presto sull’argomento, in quanto convinti corporativisti.
Abbiamo ricevuto la mai che qui sotto riportiamo, con preghiera di “farla girare”. Cosa che facciamo con grande, grandissimo, anzi, infinito piacere.
Ed ora leggete quanto segue:
    Il giorno 21 settembre 2010 il Deputato Antonio Borghesi dell’Italia dei Valori ha proposto l’abolizione del vitalizio che spetta ai parlamentari dopo solo 5 anni di legislatura in quanto affermava che tale trattamento risultava iniquo rispetto a quello previsto dai lavoratori che devono versare 40 anni di contributi per avere diritto ad una pensione.
Ecco com’è finita:
Presenti 525
Votanti 520
Astenuti 5
Maggioranza 261
Hanno votato sì 22
Hanno votato no 498
 i 22 sono: BARBATO, BORGHESI, CAMBURSANO, DI GIUSEPPE, DI PIETRO, DI TANISLAO, DONADI, EVANGELISTI, FAVIA, FORMISANO, ANIELLO, MESSINA, ONAI,
 MURA, PALADINI, PALAGIANO, PALOMBA, PIFFARI, PORCINO, RAZZI, ROTA,
 SCILIPOTI,  ZAZZERA.
 Ecco un estratto del discorso presentato alla Camera:  Penso che nessun cittadino e nessun lavoratore al di fuori di qui possa  accettare l’idea che gli si chieda, per poter percepire un vitalizio o una pensione, di versare contributi per quarant’anni, quando qui dentro sono sufficienti cinque anni per percepire un vitalizio. È una distanza tra il Paese reale e questa istituzione che deve essere ridotta ed evitata. Non sarà mai accettabile per nessuno che vi siano persone che hanno fatto il
 parlamentare per un giorno – ce ne sono tre – e percepiscono più di 3.000 euro al mese di vitalizio. Non si potrà mai accettare che ci siano altre persone rimaste qui per sessantotto giorni, dimessisi per incompatibilità, che percepiscono un assegno vitalizio di più di 3.000 euro al mese. C’è la
 vedova di un parlamentare che non ha mai messo piede materialmente in Parlamento, eppure percepisce un assegno di reversibilità. Credo che questo sia un tema al quale bisogna porre rimedio e la nostra proposta, che stava in quel progetto di legge e che sta in questo ordine del
 giorno, è che si provveda alla soppressione degli assegni vitalizi, sia per i deputati in carica che per quelli cessati, chiedendo invece di versare i contributi che a noi sono stati trattenuti all’ente di previdenza, se il deputato svolgeva precedentemente un lavoro, oppure al fondo che l’INPS ha
 creato con gestione a tassazione separata. Ciò permetterebbe ad ognuno di cumulare quei versamenti con gli altri nell’arco della sua vita e, secondo i criteri normali di ogni cittadino e di
 ogni lavoratore, percepirebbe poi una pensione conseguente ai versamenti realizzati.
    Proprio la Corte costituzionale, con la sentenza richiamata dai colleghi questori, ha permesso invece di dire che non si tratta di una pensione, che non esistono dunque diritti quesiti e che, con una semplice delibera dell’Ufficio di Presidenza, si potrebbe procedere nel senso da noi prospettato,che consentirebbe di fare risparmiare al bilancio della Camera e anche a tutti i cittadini
E ai contribuenti italiani circa 150 milioni di euro l’anno.
 
Non ne hanno dato notizia né radio, né giornali, né TV OVVIAMENTE. Facciamola girare noi!!!
   Oggi, 9 ottobre 2011 sempre LXVI Era Sfascista, il Presidente Giorgio Napoletano ha lanciato questo monito: <Dobbiamo ridare dignità e decoro alla politica >. La risposta data dal Parlamento italiano il 21 settembre (risposta poco sopra riportata), non è adeguata al monito?

FRANCESCO COLOMBO DETTO "FRANCO"

FRANCESCO COLOMBO DETTO “FRANCO”
nato a Milano, 26 luglio 1899 – ucciso a Lenno, 28 aprile 1945).

Fu il comandante della Legione Autonoma Mobile Ettore Muti.

Nel 1918, arruolato nel Regio Esercito insieme ai cosiddetti “Ragazzi del ’99”, partecipò alla prima guerra mondiale come aviere e fu squadrista della prima ora. Dopo la conquista del potere da parte del fascismo divenne responsabile del Gruppo rionale “Montegani” intitolato ad un aviatore caduto nella prima guerra mondiale.

La squadra d’azione Ettore Muti
Il 18 settembre 1943, fu costituita ufficialmente la Squadra d’Azione Ettore Muti inglobando altre quattro squadre formatesi precedentemente sotto il comando di Francesco Colombo. Le prime reclute furono arruolate tra fascisti di provata fede.
Quando Aldo Resega, nuovo segretario cittadino del risorto Partito Fascista Repubblicano, lo incontrò per la prima volta dopo la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, mentre si stava installando nei locali della federazione del P.F.R. criticò la presenza all’interno della squadra di alcuni elementi di dubbia moralità e gli chiese di operare una selezione, ma Colombo gli rispose:
« Quando Garibaldi partì da Quarto per andare a liberare l’Italia non chiese ai suoi garibaldini di presentare all’imbarco sul Rubattino il certificato penale…Eppure fece l’Italia! Io, che tu definisci un balordo, con i miei balordi, farò piazza pulita dai traditori, dai gerarchi vigliacchi, dall’antifascismo…Li hai visti i gerarconi di allora aderire al nuovo fascismo repubblicano? No!… quelli non ci sono più: hanno tradito! Ma ci siamo noi ora, stà tranquillo, Resega, che ce la faremo! Tutti i giorni ci ammazzano e tu vuoi che si faccia la fine del topo? Quali forze abbiamo che facciano rispettare le nostre vite, le nostre famiglie e le nostre case? Ora provvederà lo squadrismo milanese! »
(Francesco Colombo rispondendo alle obiezioni del federale Aldo Resega)

Questa presa di posizione determinò la nascita di due distinte correnti nella città di Milano: quella moderata, che faceva capo allo stesso federale Aldo Resega e poi a Vincenzo Costa e sostanzialmente alla maggioranza degli iscritti al Partito Fascista Repubblicano, e quella estremista, capeggiata dal comandante della Muti.
Il 16 dicembre, come testimoniato dal vice federale Vincenzo Costa, si approvò nel corso di una riunione del PFR lo scioglimento della Squadra d’Azione:
« Resega aveva presentato un elenco di elementi dal passato turbolento, già espulsi dal vecchio partito e tra quelli da eliminare dalla vita politica del nuovo partito erano nomi noti, tra i quali Alemagna, vice comandante della squadra Muti, e l’avvocato Mistretta. Anche il capo della squadra politica aveva redatto un simile elenco che in qualche caso coincideva con quello di Resega. Lo scioglimento delle squadre d’azione avrebbe provocato certamente la ribellione di alcuni loro componenti, che avrebbero visto nei provvedimenti un cedimento che lasciava campo libero agli antifascisti; il questore Coglitore assicurò al ministro degli Interni che l’arresto dei designati all’epurazione sarebbe avvenuto da mezzanotte all’alba del 19 dicembre con un’operazione simultanea. »
(Vincenzo Costa nel suo diario in data 16 dicembre 1943)
Ma furono gli omicidi, commessi dai GAP, di Piero de Angeli il 17 dicembre e la mattina dopo dello stesso federale Aldo Resega a far prevalere momentaneamente la fazione di Colombo e della sua Squadra.
« Da oggi noi squadristi prenderemo il comando di Milano; basta con la bontà, con la generosità: qui ci fanno fuori tutti! »
(Dichiarazione di Francesco Colombo in seguito all’omicidio di Aldo Resega)

Colombò elevò a federale di Milano, Dante Boattini. Il questore Domenico Coglitore che si era dimesso in seguito all’omicidio di Aldo Resega fu sostituito con il colonnello Camillo Santamaria Nicolini. Il nuovo federale Boattini decise di non procedere più allo scioglimento della “Muti”.

Comandante della Legione Autonoma Mobile Ettore Muti
La Legione Autonoma Mobile Ettore Muti nacque ufficialmente il 18 marzo 1944 e Colombo fu nominato questore dal Ministro degli Interni Guido Buffarini Guidi, grado corrispondente nell’esercito al grado di colonnello.
Il 19 marzo 1944 Colombo partì per il Piemonte insieme ai primi scaglioni della Legione che si recavano in zona operativa (1º Battaglione “Aldo Resega”, 2º Battaglione “De Angeli” e Compagnia speciale “Baragiotta”). Costituì quindi il comando nell’ex sede della Gioventù italiana del littorio di Cuneo. Rientrò a Milano il 27 marzo lasciando il comando delle operazioni militari al tenente colonnello Ampelio Spadoni. Qui i reparti della “Muti” furono impiegati principalmente nel presidio delle principali località del cuneese e nell’attività di rastrellamento. Dopo il 28 maggio alcune compagnie furono dislocate anche nel vercellese.
Il 7 giugno in località Brossasco Colombo fu lievemente ferito nel corso di una imboscata mentre effettuava uno dei suoi consueti giri di ispezione nel cuneese, mentre il 14 agosto assumendo direttamente il comando della Compagnia Speciale “Baragiotta-Salines” partecipò a un rastrellamento a Varzi in provincia di Pavia.

Il ridotto della Valtellina
Negli ultimi giorni della RSI, anzi nelle ultime ore, Colombo suggerì al Duce di preferire il ridotto valtellinese assicurando che anche in quello i “documenti” (il famoso carteggio oggetto delle mire di Winston Churchill) sarebbero stati protetti altrettanto bene che in Svizzera. Quando Mussolini lasciò Milano fu scortato anche da arditi della “Muti”[22]. Colombo, dopo aver inutilmente atteso i reparti provenienti dal Piemonte, partì per Como il 26 aprile con circa 200 legionari rimasti ancora a Milano ricongiungendosi con Pavolini. Avendo perso Mussolini nel frattempo ripartito per Menaggio la colonna fascista stipulò un accordo con il CLN per avere libero transito, ma il mattino del 27 aprile, contravvenendo agli accordi, i partigiani bloccarono la strada presso Cernobbio intimando la resa. I reparti fascisti furono sciolti. Anche Colombo si risolse a sciogliere i reparti della “Muti”:
« Ragazzi, è finita. Abbiamo tenuto duro fino in fondo. Ci siamo battuti, duramente, perché nessuno pensasse che la nostra sconfitta fosse dovuta a viltà; perché l’onore è necessario ad un popolo per sopravvivere; perché l’Italia riprendesse quel posto segnato da millenni di storia. Ma ora ho il dovere di impedire inutili spargimenti di sangue. Mi hanno assicurato che quelli che non si sono macchiati di gravi reati saranno lasciati liber. Questo è il momento più brutto della nostra vita, ma dobbiamo sopravvivere. Per il domani, una volta raggiunta la pace, vi sono speranze. Forse molte più di quanto non immaginiamo. E’ necessario riaffermare il valore sacro dei nostri principi, i principi del Fascismo. Dovremo denunciare i futuri falsificatori della Storia, indicandoli come dei servili mercanti. La storia della nostra Legione è stata breve ma intensa. Non disperdiamone il seme. »
(Francesco Colombo scioglie i reparti della “Muti” giunti fino a Como)

L’ultima spedizione
Il figlio di Mussolini Vittorio e l’ex vice segretario del PRF Pino Romualdi anch’essi a Como furono convinti da un ufficiale del servizio segreto Alleato a raggiungere Mussolini a Menaggio per convincerlo a consegnarsi agli Alleati. Alla spedizione in partenza si unì anche Colombo. A garantire l’incolumità dei membri della spedizione fu Giovanni Dessy munito di un apposito lasciapassare ma a Cadenabbia, la piccola colonna formata da due macchine incappò in un posto di blocco partigiano. Nonostante Dessy mostrasse le credenziali del CLN. queste non furono prese in considerazione e gli occupanti delle vetture furono sequestrati e portati a San Fedele. Qui Dessy riuscì a far rilasciare Romualdi che non era stato riconosciuto. Colombo fu trattenuto per due giorni poi il 28 aprile fu condotto a Lenno e sommariamente fucilato. La sua tomba oggi si trova nel campo 10 del Cimitero Monumentale di Milano, dove sono sepolti i caduti della Repubblica Sociale Italiana.



Il segretario del PFR Alessandro Pavolini e il comandante della “MUTI” Franco Colombo in visita alla caserma della Legione Autonoma “ETTORE MUTI” in via Rovello (Milano 1945) 


LEGIONARI DELLA MUTI




Milano Piero Parini e Francesco Colombo presso l’Arena Civica con gli arditi della Compagnia Giovanile “Alfiero Feltrinelli”

La Giustizia nel Regno delle Due Sicilie

La Giustizia nel Regno delle Due Sicilie

Un interessante e documentato intervento del nostro Ubaldo Sterlicchio, appassionato e puntuale ricercatore delle cose delle Due Sicilie, tra passato e… presente. 

La storiografia risorgimentalista ha fatto sì che la giustizia borbonica fosse consegnata alla Storia come una fra le peggiori dell’esperienza europea, asserendo inoltre che il Regno delle Due Sicilie aveva una burocrazia farraginosa ed arretrata. 
Invece non era così! 
Se volgiamo infatti lo sguardo, con la necessaria attenzione e con onestà intellettuale, alla legislazione penale ed al sistema carcerario borbonici, ci accorgiamo di quanto ciò sia falso e di come, invece, sia purtroppo vero che la storia venga scritta sempre dai vincitori. 
Oggi, senza tema di smentita, possiamo affermare che il Regno delle Due Sicilie eccelleva sotto gli aspetti sociale, culturale, industriale, economico, amministrativo, ed aveva delle leggi all’avanguardia in numerosi settori.
In particolare, il sistema giudiziario meridionale è stato riconosciuto da molti studiosi come il più avanzato dell’Italia preunitaria, in linea con la grandissima scuola napoletana del diritto. 
Ed è appena sufficiente consultare, presso l’Archivio di Stato di Napoli – fondo Archivio Borbone – la «Col-lezione delle Leggi e de’ Decreti Reali del Regno delle Due Sicilie», per rendersi conto della modernità e dell’elevato livello di civiltà giuridica che caratterizzavano l’Ordinamento duosiciliano.
Legislazione penale
Sin dal 1774, era stato introdotto nell’impianto processuale borbonico l’obbligo della Motivazione delle Sentenze, in linea con le teorie illuministe del giurista napoletano Gaetano Filangieri (1753-1788); ed, allorquando la tortura giudiziaria vigeva ancora con tutta la sua ferocia nel cosiddetto liberale Piemonte, le leggi borboniche già da un pezzo l’avevano vietata. 
Era stabilito, inoltre, che la corrispondenza privata non potesse venire in alcun modo manomessa e che non fosse lecito imprigionare un povero debitore senza un giudizio di merito che ne avesse accertato la frode e le relative responsabilità.(1)
A distanza di un secolo e mezzo dall’annessione del Meridione d’Italia al Piemonte, è possibile affermare, con cognizione di causa, dati e documenti alla mano, che le leggi napoletane erano ottime, tanto che, nel 1852, Napoleone III inviò a Napoli una speciale commissione di giuristi e di alti funzionari, perché studiassero la bontà di quelle leggi.(2)
È, infatti, molto interessante esaminare i seguenti articoli della legge del 29 maggio 1817, titolata: «De’ conciliatori, de’ giudici, de’ tribunali, e delle Gran Corti in generale».
Art. 81: «In parità di voti [fra i magistrati componenti le Corti di Giustizia, n.d.r.], sarà seguita l’opinione più favorevole al reo».
Art. 194: «L’Ordine Giudiziario sarà subordinato solamente alle autorità della propria gerarchia. Niun’altra autorità potrà frapporre ostacolo o ritardo all’esercizio delle funzioni giudiziarie o alla esecuzione dei giudicati».
Art. 196: «Niuno potrà essere privato di una proprietà o di alcuno de’ dritti, che la legge gli accorda, che per effetto di una sentenza o di una decisione passata in giudicato».
Art. 219: «Tutte le sentenze e tutti gli atti dei giudici, de’ tribunali e delle Gran Corti, saranno scritti in italiano; le sentenze saranno motivate nel fatto e nel diritto».(3)
Sarebbero sufficienti solo queste quattro norme per attestare, in maniera incontrovertibile, la modernità e l’elevato livello di civiltà giuridica che, già nei primi decenni del XIX secolo, caratterizzavano il sistema penale borbonico.
Il 21 maggio 1819 fu promulgato da Ferdinando I (1751-1825) una sorta di Testo Unico, diviso in 5 parti: leggi civili, leggi penali, leggi della procedura ne’ giudizi civili, penali e per gli affari di commercio, che realizzava una fondamentale unificazione legislativa nel Regno.(4)
Il Codice Penale, in particolare, prevedeva che i magistrati venissero reclutati per concorso e non per nomina regia, come avveniva in altre parti d’Italia; quelli, poi, che componevano le 21 Gran Corti Criminali, presenti nei principali capoluoghi del Regno, dovevano essere in numero pari poiché, in caso di equilibrio nel giudizio, si doveva decidere osservando il già citato principio secondo cui «l’opinione è per il reo». 
Questa norma sulla composizione paritaria delle Grandi Corti, in merito alla quale si potrebbe scrivere e parlare per ore, scaturiva da un’applicazione talmente evoluta del principio giuridico del favor rei, che con la scomparsa del Regno borbonico non ha più trovato applicazione, perché non è più affiorata in forma compiuta nella retriva coscienza giuridica dell’Italia post-unitaria.
È interessante poi notare come, nella parte dello stesso Codice dedicata alle pene, non si facesse alcun cenno a reati d’indole sessuale; ciò in difformità da quanto avveniva in altre legislazioni contemporanee. 
Nel libro II, tit. VII, cap. II, concernente «Dei reati che attaccano la pace e l’onore della famiglia», l’art. 345 puniva genericamente «ogni altro atto turpe o sregolato d’incontinenza che offenda il pudore pubblico», perseguendo nella stessa misura sia gli eterosessuali che gli omosessuali. 
Al contrario, 20 anni dopo, nel 1839, con l’introduzione in pompa magna del Codice Penale per gli Stati di S.M. il Re di Sardegna, in vigore in Piemonte, Liguria, Sardegna e Savoia, l’art. 439 contemplerà la punizione della «libidine contro natura», anche se avvenuta senza violenza e fra a-dulti consenzienti, sanzionando così l’omosessualità.(5) L’art. 425 del successivo Codice penale per gli Stati di S.M. il Re di Sardegna del 1859 riprenderà le disposizioni del codice del 1839; e sarà quest’ultimo Codice ad essere esteso al neonato Regno d’Italia, dal 1860 in poi, fino alla sua sosti-tuzione con il primo codice penale veramente italiano, il Codice Zanardelli, nel 1889. In questo modo, la criminalizzazione dell’omosessualità fu estesa al nuovo Regno.
Con un decreto del gennaio 1824, ai fini di una più rapida definizione dei procedimenti giacenti, fu introdotto l’istituto della «transazione», molto simile all’odierno «patteggiamento», tra il pubblico ministero ed il reo, nel contesto di un procedimento abbreviato;(6) si pensi che entrambi questi istituti («patteggiamento» e «rito abbreviato») saranno introdotti nel diritto processuale italiano solamente il 24 ottobre 1989, vale a dire ben 165 anni dopo!
Soprattutto Ferdinando II di Borbone (1810-1859) legiferò e si adoperò ai fini della più corretta amministrazione della Giustizia, garantendo in primis l’assoluta indipendenza della Magistratura dagli altri poteri dello Stato. Inoltre, ben sapendo «che nella pubblicità dei giudizi è riposta la più solenne guarentigia della loro rettitudine, e che codesta pubblicità è la scuola migliore che aver possa un popolo… ordinò e richiamò essenzialmente in osservanza la discussione pubblica di tutte le cause, mirando anche al motivo della gloria del foro, affinché non scemasse il pregio dell’eloquenza degli avvocati con lasciar trasandata la perorazione delle cause».(7)
Con l’ordinanza del 18 novembre 1833, lo stesso re prescrisse poi ai Procuratori Generali del Regno di segnalare al Ministro della Giustizia, con rapporto circostanziato, i pronunziati delle Corti a pene capitali, affinché il Re fosse messo in condizioni di provvedere – motu proprio – per l’eventuale grazia o commutazione di pena.
Durante tutto il Regno di Ferdinando II, infatti, nessuna sentenza capitale, pronunciata per motivi politici, fu mai eseguita: furono tutte tramutate in carcere, quando i condannati non furono addirittura graziati,(8) fatto unico nell’Europa di quei tempi! 
Pertanto, alla luce di quanto appena detto, si può ben affermare che, nel Regno borbonico, al momento dell’unità d’Italia, la pena di morte risultava essere stata, di fatto, abolita, tanto che lo storico Paolo Mencacci osservò: «a giudicare coi criteri odierni, che ritengono la pena di morte una barbarie, il Regno delle Due Sicilie, nel decennio che precede l’unificazione, è senz’ombra di dubbio uno Stato modello».(9)
Il 25 febbraio 1836, Ferdinando II abolì anche la pena dei lavori forzati perpetui che, invece, nei decenni post-unitari, fu largamente inflitta dal Governo italiano ai cosiddetti «briganti» meridionali.
Per tutelare infine la privacy degli imputati, con un decreto del 1849, lo stesso re Ferdinando II vietò che i giornali ed i periodici pubblicassero gli atti istruttori delle cause penali in pendenza di giudizio. La trasgressione comportava la reclusione, oltre ad un’ammenda.
Sistema carcerario
 Con una circolare del 24 ottobre 1800, il re Ferdinando IV (poi I), promulgò norme innovative in favore dei carcerati, ordinando che per i detenuti poveri il Fisco – e cioè lo Stato – sostenesse le spese per il loro vitto. Questo avveniva mentre, nelle restanti carceri europee del tempo, i familiari dovevano provvedere a fornire il companatico per i congiunti chiusi in prigione.
Nel 1817 Ferdinando I di Borbone emise un decreto assolutamente all’avanguardia per i tempi. Il provvedimento prevedeva, in primis, la costituzione di una speciale Commissione per ogni «valle», che vigilasse sul regolare funzionamento delle carceri, sulla salubrità e sicurezza dei locali e sulla qualità del cibo somministrato ai reclusi. Il provvedimento regio conteneva, inoltre, le norme relative alla concessione di quegli appalti che provvedessero, all’interno delle strutture carcerarie, alle più elementari necessità dei detenuti, come la pulizia, la rasatura, il lavaggio della biancheria sporca, il ricovero dei malati in apposite strutture sanitarie. Ogni prigione doveva essere fornita di un cappellano, di un medico e di un cerusico.
Nel Codice del 1819 si legge anche che: «…il pavimento del carcere si laverà ogni 15 giorni… il carcere si imbiancherà ogni sei mesi, sarà mantenuto anche il barbiere dei poveri …e non potrà pretendere compenso alcuno dai detenuti …il barbiere raderà i capelli a tutti coloro che giungeranno al carcere e si dichiareranno poveri. Raderà a costoro la barba una volta a settimana. Il fornitore stipendierà anche il lavandaio dei poveri; le biancherie dei letti e le camicie saranno cambiate ogni 8 giorni, se pure non occorresse farlo più sovente».(10)
Nel 1845, Ferdinando II emanò un decreto sulla legislazione carceraria che, se fosse stato integralmente applicato (infatti, lo fu solo parzialmente, soprattutto a causa delle gravissime problematiche provocate dalle continue rivolte, fomentate dai facinorosi rivoluzionari liberal-massoni, che il Regno dovette affrontare durante quel turbolento periodo storico), avrebbe senz’altro reso il sistema penitenziario borbonico il più moderno del mondo. Il decreto, infatti, prevedeva la suddivisione dei carcerati in varie categorie, a seconda dell’età e del delitto commesso, nonché la loro separazione in strutture diverse, per evitare che il contatto fra i detenuti per reati poco gravi e i detenuti per reati di maggiore entità, potesse avere una cattiva influenza sui primi; la destinazione al lavoro dei condannati alla reclusione, fino ad allora abbandonati nel più terribile ozio, presso manifatture da costituirsi all’interno degli stessi penitenziari; l’istruzione religiosa e morale. Il decreto conteneva, altresì, norme sulla struttura architettonica del carcere, che avrebbe dovuto rispondere ai requisiti della vigilanza, della sicurezza, della salubrità, della capacità e del contenimento della spesa.(11)
Il regime borbonico, infatti, si dimostrò all’avanguardia anche nel settore dell’edilizia carceraria ed una particolare menzione merita, a tale proposito, l’esperimento del penitenziario di Santo Stefano.
In un’epoca in cui non esisteva il concetto moderno di detenzione nel rispetto della «dignità umana» ed in cui il carcere era inteso solo e soprattutto come «vendetta sociale» e, quindi, esclusivamente come luogo di espiazione e di castigo, i cattolicissimi re Borbone, ispirandosi alla clemenza dettata dal Vangelo, la legge perfetta posta alla base del loro Ordinamento Statale, fecero proprie le tesi «roussoiane» secondo le quali «L’uomo non è cattivo per nascita, ma perché è la società che lo circonda a condizionarlo negativamente. Pertanto, se lo si sottrae all’ambiente perverso e lo si introduce in un mondo sano e regolato, egli si redime».(12) Gli ideali cristiani ebbero, quindi, un peso determinante nel campo criminologico borbonico, aiutando a comprendere che il periodo di isolamento in carcere, e quindi la pena detentiva, dovesse servire alla correzione della personalità del reo; per usare la dizione che rinveniamo nell’articolo 27 della Costituzione della Repubblica italiana, dovesse «tendere alla rieducazione del condannato».
Il carcere che, nel mondo dell’epoca, era caratterizzato da promiscuità e trattamenti inumani, da noi divenne «penitenziario» e cominciò così a farsi strada la teoria dell’emenda del reo, in base alla quale la funzione della pena deve essere quella di «correggere il comportamento criminoso, al fine di reinserire il soggetto nella società».
Forti di tali principi, i Borbone concepirono il carcere come un luogo di redenzione e non più solo come punizione (quale rappresaglia di una società offesa) e realizzarono un regime penitenziale fra i meno disumani d’Europa. Essi progettarono, prima d’ogni altro Stato europeo, una riforma in tal campo che teneva conto delle esigenze elementari dei carcerati e della necessità di educarli, al fine di permettere loro di iniziare una nuova vita, una volta espiata la pena. I Borbone, pertanto, compirono la prima riforma carceraria che tenne conto dell’umanità del condannato, statuendo che i luoghi di detenzione non dovessero essere più quelle incivili prigioni, dove i detenuti soffrivano la reclusione nella più bieca ed inumana promiscuità, ammassati in locali senza servizi igienici e dove molte volte convivevano donne, bambini e uomini. Si rese, quindi, evidente la necessità di assicurare ambienti adeguati per spazio e cubatura, igienici e dove i condannati, separati per sesso, e molte volte per tipologia di reato, ricevessero anche assistenza sanitaria e religiosa, e potessero svolgere un’attività lavorativa.(13)
È con questo altissimo concetto etico e morale che vennero commissionati al maggiore del Genio Militare Antonio Winspeare senior (1739-1820) il progetto ed all’ingegnere Francesco Carpi la rea-lizzazione del «primo carcere di recupero della storia mondiale», nell’isola di Santo Stefano, attigua a Ventotene, nelle Pontine. Siamo nel 1795 e, quando tutte le carceri del mondo sono ricavate in umidi ed oscuri sotterranei di antichi palazzi, oppure nelle soffitte, nelle torri e nelle segrete di freddi castelli, i Borbone realizzano una struttura penitenziaria all’avanguardia, la cui progettazione e costruzione si rifaceva ai criteri architettonici del cosiddetto panoptikon, suggeriti dal filosofo in-glese Jeremy Bentham (1748-1832).(14)
Visitando la struttura carceraria, tuttora accessibile, appare evidente la sua funzionalità e la perfetta e facile fruibilità, da parte dei detenuti in semilibertà, degli spazi comuni e delle aree circostanti. La pianta a «ferro di cavallo» rispondeva a varie esigenze. Innanzitutto psicologiche: i reclusi avevano vista solo verso l’interno e la forma tondeggiante, come l’isola stessa, dava l’idea di un arroccamento completo. Poi anche pratiche, in quanto la struttura ad emiciclo del panoptikon permetteva ad un solo sorvegliante, posto al centro, di controllare tutte le celle contemporaneamente.(15)
È evidente poi come le celle individuali, ricavate su tre piani, fossero in realtà degli «alloggi» dove i «rilegati», oltre che a dormire, dovevano provvedere a cucinare e ad accudire a se stessi attraverso una sorta di autogestione. A partire dalle prime ore del mattino, essi si recavano nei campi a terrazze dove lavoravano la vigna, coltivavano gli ortaggi, i cereali e curavano gli animali da latte e da carne. I salari, così guadagnati, potevano poi venire spesi nella cittadella carceraria posta immediatamente a ridosso del corpo centrale dove, oltre ad una «locanda» ben attrezzata (ma senza alcol!), i reclusi potevano disporre di un «locale barberia», di un «cortile giochi» (bocce, zicchinetta, strumml’, lippa), di una «lavanderia» e di una «canonica» con annessa cappella.
Come già detto, la presenza dei carcerieri era estremamente limitata, sia nelle aree di detenzione notturna, che in quelle diurne; infatti, al centro dell’emiciclo era stata ricavata, una «cappella/punto di osservazione», da cui un solo guardiano, a distanza e con estrema discrezione, era in grado di te-nere sotto controllo tutte le 99 celle; nella stessa cappella, tra l’altro, a cura del Cappellano del car-cere, veniva celebrata la Santa Messa mattutina e recitata la preghiera del Vespro alla presenza di tutti i detenuti, senza la necessità che gli stessi si muovessero dall’interno delle proprie celle.(16)
Ed era proprio questa un’altra peculiarità delle «carceri borboniche»: il servizio religioso, molto cu-rato, nel quale i sacerdoti si impegnavano, non solo con le funzioni sacre, ma anche con altri compiti assistenziali per i carcerati.
Eppure, i detrattori continuano a definire il Regno dei Borbone «lo Stato dove si edificavano infernali carceri per inumani trattamenti».
Niente di più falso!
Mentre, a seguito della politica radicalmente anti-cattolica del governo italiano, le quotidiane celebrazioni religiose nelle prigioni del Sud, dopo l’unità furono abolite.(17)
Purtroppo, proprio con l’unità d’Italia, il carcere di Santo Stefano perse la sua peculiarità e fu trasformato in carcere duro ed ergastolo. Dove prima alloggiava un solo detenuto, ne furono posti due, poi ne furono stipati quattro e poi sei, mentre cessarono quasi del tutto le attività esterne, lasciando che la disperazione prendesse il sopravvento sulla speranza che un tempo sorreggeva gli antichi originari reclusi.
I Borbone, diffamati oltremodo quali «feroci e sanguinari tiranni», furono invece, fra i sovrani europei, coloro che per primi avviarono una moderna riforma carceraria e si distinsero fra tutti, dando prova di maggiore sensibilità rispetto agli stessi governanti inglesi, i quali si limitavano ad approvare i progetti dei riformatori, guardandosi bene, tuttavia, dal metterli in atto, con la conseguenza che le loro carceri, malgrado una propaganda mirante a tesserne gli elogi, risultavano le più terribili e disumane di tutta l’Europa.(18) Anticipando le più moderne teorie e realizzazioni carcerarie, i Borbone riuscirono, con questo incredibile esperimento riabilitativo, a reinserire nella società di allora molti detenuti operando un sicuro vantaggio per la collettività e per le pubbliche e private casse.
L’esperienza di Santo Stefano, venuta alla ribalta di recente per l’interessamento diretto dell’UNESCO, dà il definitivo colpo di grazia alle calunnie artatamente costruite dalla storiografia ufficiale sul «feroce regime carcerario borbonico» che, come abbiamo avuto modo di vedere, risultava essere invece tra i più organizzati, umani e tolleranti del mondo.(19)
Telese Terme, luglio 2013.
dott. Ubaldo Sterlicchio
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Note
(1) Carlo Alianello, “La conquista del Sud”, Rusconi, Milano, 1982, pag. 109.
(2) Ibidem.
(3) “Collezione delle Leggi e de’ Decreti Reali del Regno delle Due Sicilie”, Napoli, 1817.
(4) “Codice per lo Regno delle Due Sicilie”, Napoli, dalla Real Tipografia del Ministero di Stato della Cancelleria generale, 1819.
(5) Doctor J., “Diritto e carceri nelle Due Sicilie”, in http://www.frontemeridionalista.net, 4 gennaio 2011.
(6) “Collezione delle Leggi e de’ Decreti Reali del Regno delle Due Sicilie”, Napoli, 1824.
(7) Carlo Alianello, op. cit., pagg. 167-168.
(8) Erminio De Biase, “L’Inghilterra contro il Regno delle Due Sicilie”, Controcorrente, Napoli, 2002, pag. 61.
(9) Angela Pellicciari, “L’altro Risorgimento“, Piemme, Casale Monferrato, 2000, pag. 188.
(10) “Codice per lo Regno delle Due Sicilie”, menzionato nella precedente nota nr. 4.
(11) Gabriella Portatone, “Il sistema penitenziario borbonico nell’ultimo lavoro di Giovanni Tessi-tore”: “L’utopia penitenziale borbonica. Dalle pene corporali a quelle detentive”, Milano, Franco Angeli, 2002.
(12) Alessandro Romano, “Nell’isola di Santo Stefano fu edificata dai Borbone la prima vera strut-tura carceraria della storia”, http://www.reteduesicilie.it, 13 maggio 2011.
(13) Antonio Nicoletta, “La giustizia dei Borbone”, Siracusa, 5 novembre 2007.
(14) Jeremy Bentham, “Panopticon ovvero la casa d’ispezione”, a cura di Michel Foucault e Michelle Pierrot, Venezia, Marsilio, 1983 [Ed. originale: Panopticon or the inspection-house, London, T. Payne, 1791]; da http://it.wikipedia.org/wiki/Panopticon. L’idea alla base del Panoptikon («che fa vedere tutto») era quella che – grazie alla forma radiocentrica dell’edificio e ad opportuni accor-gimenti architettonici e tecnologici – un unico guardiano potesse osservare (optikon) tutti (pan) i prigionieri in ogni momento, i quali non dovevano essere in grado di stabilire se fossero guardati o meno, portando alla percezione, da parte dei detenuti, di un’invisibile onniscienza del guardiano, che li avrebbe condotti a mantenere sempre la disciplina come se fossero stati sempre visti. Dopo anni di questo trattamento, secondo Bentham, il retto comportamento «imposto» entrerebbe nella mente dei prigionieri come unico modo di comportarsi possibile, modificando così indelebilmente il loro carattere. Lo stesso filosofo descrisse il panottico come «un nuovo modo per ottenere potere mentale sulla mente, in maniera e quantità mai vista prima». La struttura del panottico è composta da una torre centrale, all’interno della quale deve stazionare l’osservatore, circondata da una costruzione circolare, dove sono disposte le celle dei prigionieri, illuminate dall’esterno e separate da spessi muri, disposte a cerchio, con due finestre per ognuna: l’una rivolta verso l’esterno, per prendere luce, l’altra verso l’interno. I carcerati, sapendo di poter esser osservati tutti insieme in un solo momento dal custode, grazie alla particolare disposizione della prigione, dovrebbero assumere comportamenti disciplinati e mantenere l’ordine in modo quasi automatico. Il regime carcerario del panoptikon prevedeva, inoltre, che ad ogni singolo detenuto fosse assegnato un lavoro; si avviava così il processo di passaggio da una formula carceraria contenutiva ad una formula produttiva. Molte prigioni al giorno d’oggi hanno ripreso qualche spunto dall’idea del panottico e addirittura la strut-tura è stata proposta anche per la costruzione degli ospedali.
(15) Antonio Nicoletta, “La giustizia dei Borbone”, opera citata.
(16) Alessandro Romano, “Nell’isola di Santo Stefano”, opera citata.
(17) Gigi Di Fiore, “Controstoria dell’unità d’Italia. Fatti e misfatti del risorgimento”, Rizzoli, Mi-lano, 2007, pag. 274.
(18) Antonio Nicoletta e Gabriella Portatone, opere citate.

(19) Alessandro Romano, opera citata.

MSI: il grande inganno

Maurizio Barozzi (14/6/2013)
Dedico questo saggio al camerata Vincenzo Vinciguerra e alla Federazione Nazionale Combattenti della RSI.
Vinciguerra soldato politico tombatosi volontariamente nel carcere di Stato per legittimare la ricostruzione della verità sullo stragismo, riscattando le infamità di tanti e la FNCRSI per la dirittura morale e la testimonianza storica del fascismo repubblicano.

Quella che andremo qui a riassumere per sommi capi, è la genesi di un partito di destra, conservatore, reazionario e filo americano, ergo manutengolo dei nostri colonizzatori: il Movimento Sociale Italiano, che per sua natura e sottomissione al quadro Atlantico, in tutti i suoi cinquanta anni di vita, ha sempre tradito gli interessi nazionali in barba a quella Patria di cui si riempiva retoricamente la bocca (e non solo per l’accettazione delle basi NATO e la subalternità dei nostri vertici militari al sistema Atlantico, ma anche per il sabotaggio che le sue posizioni politico economiche apportavano sistematicamente ad ogni minima iniziativa geopolitica, contraria agli interessi occidentali, soprattutto sul piano energetico e che il nostro paese di tanto in tanto riusciva a impiantare).
Oggi, gli epigoni di questo partito, coerenti con le precedenti posizioni politiche, una volta buttati a mare simboli e orpelli del passato che oramai non pagavano più in termini di voti, sono finiti a Gerusalemme a dichiarare che il fascismo è il “male assoluto”, mostrando finalmente sincerità e chiarezza.
Una precisazione: per questo mio saggio, di cui il quotidiano “Rinascita” ha pubblicato una prima versione stringata, ed altri analoghi scritti, lo stesso giornale ha voluto fare una precisazione, a mio giudizio, esatta.
Il giornale ha, infatti, osservato che «peccano di una certa volontà di “reduction ad atlanticum”». La critica è giusta e nessuno, meglio di me, sa come la Storia non si può scrivere sotto l’aspetto complottistico e che, in ogni caso, agiscono e interagiscono forze di diversa natura che creano cause e concause, che poi finiscono per determinare certi avvenimenti. Così come sono, altrettanto perfettamente conscio, che gli uomini, in virtù della loro natura umana, agiscono dietro motivazioni, impulsi e convinzioni che non si possono sempre ridurre a malafede o appiattire in un senso solo.
Ma i miei articoli, così come questo mio saggio, non hanno il compito di spiegare e ricostruire tutte le situazioni e tutte e motivazioni che hanno prodotto determinati comportamenti. La mia ricostruzione, infatti, è una semplice “inchiesta storica” e come tale deve essere intesa. Agli storici che verranno, il trarne le conclusioni.
Un partito retrivo e di “vecchi”
In definitiva la funzione pluriennale subalterna alla DC e il ruolo di “ascaro” per gli Atlantici, ha fatto sì che il MSI finisse per rappresentare una minoranza di italiani ovvero, escluse poche eccezioni, la parte più retriva, bottegaia, borghese e bigotta, ma soprattutto che non potesse mai avere una politica propria, dei contenuti culturali e ideologici significativi, ma soltanto degli “stati emotivi”, delle reazioni viscerali, delle prese di posizione politiche di retroguardia.
Tutta la politica e gli ideali missisti, infatti, si sono prevalentemente sostanziati per 50 anni, in un anticomunismo viscerale e per certi aspetti demenziale; in una retorica nazionalista tra l’altro condizionata dal filo atlantismo e il filo americanismo; in una ipocrita esaltazione, di stampo nostalgico del ventennio fascista e della figura del Duce ad uso e consumo di una base quale serbatoio elettorale, limitata dalle leggi vigenti e sfrondata di tutti gli aspetti rivoluzionari e antiborghesi del fascismo.
E sorvoliamo il suo ruolo ultraconservatore nel campo sociale.
La “nullità” sostanziale di questo partito ha fatto si che, in un certo senso, divenisse il “partito dei vecchi”. Era noto, infatti, che il MSI, che pur aveva le sezioni piene di ragazzi, soprattutto adolescenti o entro i 21 anni, per i quali giocano un forte ruolo i sentimenti e gli stati emotivi, sempre e puntualmente alle tornate elettorali si evidenziava che questi stessi ragazzi, completati gli studi, laureatisi e/o entrati nel mondo del lavoro, non votavano affatto per il MSI: si erano in qualche modo distaccati, come dimostravano le proiezioni dei votanti, sopratutto al Senato dove era richiesta un età un poco più avanzata.
Il grande inganno
Eppure alle sue origini, questo movimento, fece credere di essere l’erede ed il mezzo con cui i reduci del fascismo repubblicano avrebbero potuto riprendere a fare politica nella Repubblica democratica e antifascista: il grande inganno.
Prima di andare avanti, però, dobbiamo fare una doverosa premessa.
La nostra disamina, spietata, ma storicamente ineccepibile, andrà a toccare i sentimenti di tante persone che, in tutta buona fede, hanno militato nel MSI credendo che questo partito, in qualche modo, fosse l’erede del fascismo.
Molti, magari hanno anche vissuto nel MSI di loro zona, esperienze e politiche che ingenuamente presumevano aderenti a certi ideali fascisti, quindi si sono battuti e forse hanno anche pagato un grosso prezzo personale. Chiusi in una loro nicchia non hanno visto o non hanno voluto vedere quella che era la realtà e la vera sostanza di questo partito. A tutti costoro non possiamo dire nulla, ci mancherebbe, se non addebitargli una buona dose di santa ingenuità.
Sottolineo comunque il termine buona fede, perchè questo partito, corrotto e corruttore, che in qualche modo offriva piccole possibilità di accedere al Parlamento o negli Enti locali, accaparrarsi qualche carica ben remunerata nel partito o nella società e di trafficare in svariate situazioni, ha fatto sì che molti di coloro che ci venivano in contatt0, finivano per sporcarsi le mani e la coscienza.
Parlo soprattutto per coloro che dal dopoguerra agli anni ’60 vi profusero, energie, dedizione, lacrime e sangue.
Per quelli che vennero dopo e militarono nel MSI il discorso è, in molti casi, diverso perchè la reiterata politica reazionaria e conservatrice di questo partito, il suo ruolo di ascaro degli atlantici, aveva finito per avvicinargli e assimilargli nuove generazioni tipicamente di “destra”, una destra americaneggiante, bigotta, borghese, anche semi benestante, dando vita anche al disgustoso fenomeno dei giovani “neofascisti pariolini”, in rayban, kashmir e camperos.
Da qui, alle moderne destre, tenute alla greppia da Berlusconi e insulsa manifestazione di folclore di abietta politica bottegaia, il passo è stato breve.
Quindi, nell’attualità, non possiamo neppure più parlare di “neofascisti” che magari hanno disatteso, se non tradito, il fascismo, come si poteva dire dei precedenti missisti, perchè questi moderni destristi, sono la totale antitesi del fascismo.
Comunque sia, per valutare storicamente e soprattutto tangibilmente, quello che è stato il MSI e la sua funzione essenzialmente antifascista, possiamo prendere a riferimento la Federazione Nazionale Combattenti della RSI.
I fascisti della FNCRSI
La FNCRSI (da non confondersi con sigle quasi simili) costituitasi nel 1947 con decine di migliaia di reduci del fascismo repubblicano, ha infatti rappresentato non soltanto la testimonianza storica del fascismo repubblicano, ma anche il punto di riferimento ideale e politico per i fascisti nel dopoguerra.
Capita l’antifona e soprattutto ben valutati uomini e fatti, sfrondandoli dalle menzogne e dalla propaganda, già dai primi anni ’50, questi ex combattenti fascisti repubblicani, indicarono chiaramente ai camerati di non riconoscere nel MSI una qualsiasi continuità con il fascismo repubblicano.
Di conseguenza la FNCRSI a tutte le elezioni politiche o locali che seguirono negli anni, diede sempre indicazione di astenersi o votare scheda bianca.
Una presa di posizione non solo politica, ma sostanziata da precise motivazioni storiche ed ideologiche, tanto che accadde, alle elezioni del 1958, che dalle pagine del Secolo d’Italia, il giornale para missista diretto da Franz Turchi, facoltoso fondatore e proprietario, riportava in prima pagina uno squallido invito di J. Valerio Borghese di votare alla Camera il figlio del suo amico Franz Turchi, Luigi. Ricordiamo questo episodio perchè è molto importante per valutare la storia e la funzione della FNCRSI.
Devesi sapere che la FNCRSI era usa, in rispetto dei valori combattentistici che rappresentava, ad offrire la sua Presidenza a personalità di rilievo, di un certo carisma e di un glorioso passato combattentistico, anche se questi personaggi, non potevano sempre definirsi propriamente fascisti.
Così era stato per Rodolfo Graziani, così era in quell’anno per Borghese.
Inevitabilmente Borghese, per aver così platealmente disatteso le indicazioni del Direttorio FNCRSI, venne posto sotto inchiesta e nel corso del 1959 fu cacciato via dalla FNCRSI per ignominia.
Nell’aprile del 1967 la FNCRSI, i cui dirigenti e militanti affermavano orgogliosamente: «Noi non siamo fascisti, NOI SIAMO I FASCISTI», e si stavano battendo in favore della lotta del popolo arabo aggredito dai sionisti e del popolo vietnamita aggredito dagli americani, avendo oramai da anni ben inquadrato il MSI (partito che di lì poco sarebbe ancor più degenerato nella Destra Nazionale di Almirante), nella sua Mozione conclusiva alla VII Assemblea Nazionale di Treviso, espresse sul MSI una valutazione storico politica, pacata, ma senza equivoci:
«Il MSI, che nella leadership militare e politica USA rispetto agli Stati Europei trova l’unica garanzia di fronte ad una aggressione sovietica è poi costretto ad accettare gli altri due punti dell’occidentalismo; Yalta ed il sistema democratico. Ogni prospettiva rivoluzionaria viene in tal modo a chiudersi ed il problema politico di fondo diventa quello dell’inserimento e della collaborazione con il sistema, magari con la giustificazione di volerlo modificare. Tutta l’azione politica del MSI è stata una testimonianza di questo indirizzo riformista e collaborazionista. La linea di colloquio al vertice con la DC (culminata con Tambroni e tappezzata di voti «dati e non richiesti» o addirittura «non graditi» dai vari Zoli e Segni) ne è la prova maggiore ma la stessa qualificazione di partito di destra sollecitata in mille modi e poi provocata mediante l’apparentamento coi monarchici hanno fatto assumere al MSI addirittura la funzione di scialuppa di salvataggio o di valvola di scarico del sistema democratico. È inutile ripercorrere le tappe di un cammino ignobile che sta ora per terminare, ma non possono tacersi gli effetti che il sacrificio dell’indirizzo politico rivoluzionario ha prodotto nella stessa struttura organizzativa del MSI e che consistono esattamente nella strutturazione di vertice del partito (la cricca al potere), nell’abbandono della preparazione dei quadri, nella rescissione di ogni rapporto con una dottrina politica derivante da una concezione del mondo e nella conseguente adozione di una tematica e di una prassi politica impostata sulle piccole idee occasionali, più o meno provocate dalle deficienze altrui».
Ricordato questo, cerchiamo adesso di capire come sia potuto avvenire il “grande inganno” che portò alla creazione del MSI, anche se poi resta difficile stabilire chi già in partenza era in malafede o chi invece, entrato in buona fede nel “nuovo” contenitore, come accennato già corrotto e potenzialmente corruttore, in malafede vi è divenuto con il tempo. In politica, del resto, queste distinzioni, tranne i casi di tradimento e corruzione evidente, hanno scarso valore e non rari sono i personaggi che perseguono fini diametralmente opposti a quelli che per la loro storia e attestazione politica dovrebbero praticare e magari lo fanno perchè convinti di seguire una via opportuna e utile anche ai loro ideali.
Nella genesi del MSI e in cosa questo partito ha finito per rappresentare, due fattori, in particolare, vanno considerati: il retaggio ambivalente della RSI che costituì il serbatoio a cui, in parte, attinse il MSI per i suoi quadri dirigenti e la colonizzazione statunitense del nostro paese che ne controllò e instradò l’esistenza.
Il retaggio ambivalente della RSI
Mussolini, da grande rivoluzionario, dopo l’8 settembre, non si era lasciato sfuggire la irripetibile occasione che si presentava in Italia, dove, per la prima volta nella sua storia, forze da sempre dominanti, erano fuori gioco: la grande industria, le lobby massoniche, soprattutto nell’Esercito e il Vaticano.
Oltre ovviamente Casa Savoia un tumore maligno incistato, circa un secolo prima, alla guida della Nazione per gli interessi britannici.
Fu così che Mussolini poté portare a compimento il processo storico-ideologico del fascismo, arrivando alla Repubblica Sociale Italiana e al manifesto di Verona e realizzando quel modello di società socialista da lui sempre desiderato.
Egli completava in tal modo anche il Corporativismo, un altra grande realizzazione del fascismo, ma che, senza la socializzazione, come ammise Mussolini in Repubblica, poteva essere piegato dal padronato ai suoi interessi.
Citiamo alcune conquiste rivoluzionarie della RSI: la socializzazione delle imprese; la revisione del mercato azionario liberista; un effettivo controllo sulla Banca d’Italia, di fatto commissariata; il cooperativismo socializzante nei delicati settori alimentari e del vestiario per i prodotti primari e in quello immobiliare per le case al popolo. Grandi conquiste rivoluzionarie, mai raggiunte da nessuno Stato e che conferivano alla guerra in corso, la vera valenza di una “guerra del sangue contro l’oro”.
A Genova, il 15 marzo 1945, quasi all’epilogo di una guerra spietata e criminale imposta all’Europa dalle grandi plutocrazie occidentali, in piazza De Ferraris, un eccellente e genuino oratore, che era stato socialista, poi tra i fondatori del comunismo nel 1921 ed aveva conosciuto Lenin anche nelle ore pericolose della rivoluzione bolscevica, cioè il romagnolo Nicola Bombacci, classe 1879, un tempo chiamato il Lenin di Romagna, arringò una enorme folla che, più che altro, fu individuata negli operai delle industrie navali liguri e delle fabbriche siderurgiche e meccaniche di Sampierdarena, di Cornigliano, di Sestri Ponente, di Pegli e di Voltri, nonché della Valbisagno e della Valpolcevera:
«Compagni! Guardatemi in faccia, compagni! Voi ora vi chiederete se io sia lo stesso agitatore socialista, il fondatore del Partito comunista, l’amico di Lenin che sono stato un tempo. Sissignori, sono sempre lo stesso! Io non ho mai rinnegato gli ideali per i quali ho lottato e per i quali lotterò sempre …»
Ed aggiunse: «Ero accanto a Lenin nei giorni radiosi della rivoluzione, credevo che il bolscevismo fosse all’avanguardia del trionfo operaio, ma poi mi sono accorto dell’inganno … Il socialismo non lo realizzerà Stalin, ma Mussolini che è socialista anche se per vent’anni è stato ostacolato dalla borghesia che poi lo ha tradito … ma ora Mussolini si è liberato di tutti i traditori e ha bisogno di voi lavoratori per creare il nuovo Stato proletario …».
Tempo prima Mussolini ebbe a dire: «Bombacci, che vive giorni di passione, è in prima linea tra coloro che si battono per una vera rivoluzione sociale».
Ricordiamo questo per sottolineare la ricchezza di idee e di programmi, una svolta rivoluzionaria epocale che coinvolse tanti personaggi di eterogenea provenienza ed entusiasmò i fascisti repubblicani tanto che a novembre del 1943, per dare un segnale del cambiamento, Pavolini voleva costituire squadre di polizia che indossino come uniforme «la camicia nera, la tuta blu scura dell’operaio».
In prossimità della sconfitta, al Direttorio del PFR di Maderno del 3 aprile 1945, presieduto da Pavolini, si cercarono di buttare giù le indicazioni operative per una lotta da proseguire in Italia, una volta finita e persa la guerra.
Vennero abbozzate alcune direttive indicate da Pavolini, Zerbino, Solaro, Porta ed altri che prospettavano per i fascisti nel dopoguerra, anche in clandestinità, una lotta contro l’occupante e a difesa delle innovazioni sociali della RSI contro ogni restaurazione monarchica e liberista. Giova ricordare che in quella occasione e con opportuna preveggenza, solo il futuro missista Pino Romualdi, d’accordo su la costituzione di strutture clandestine fasciste, una specie di movimento clandestino dotato di mezzi finanziari e quadri dirigenti, che anzi proprio lui aveva caldeggiato, non si trovò però d’accordo sui presupposti politici, forse giudicati troppo anti “liberali”, di quelle indicazioni.
Ma come riferì Ermanno Amicucci, al tempo direttore del Corriere della Sera:
«Mussolini voleva che gli anglo americani e i monarchici trovassero il nord Italia socializzato, avviato a mete sociali molto spinte; voleva che gli operai decidessero nei confronti dei nuovi occupanti e degli antifascisti, le conquiste sociali raggiunte con la RSI».
E al socialista Carlo Silvestri, Mussolini aveva precisato:
«Vi dico che il più grande dolore che potrei provare sarebbe quello di rivedere nel territorio della Repubblica sociale i carabinieri, la monarchia e la Confindustria. Sarebbe l’estrema delle mie umiliazioni. Dovrei considerare definitivamente chiuso il mio ciclo, finito».
Riportiamo di proposito questi aneddoti e queste frasi, perché i “neofascisti” o per meglio dire gli “antifascisti missisti”, proprio queste realtà antitetiche al patrimonio ideale della RSI ebbero a perseguire!
Si da il caso però che, al tempo, Mussolini aveva anche un altro grande ed urgente problema da risolvere: quello di ricreare dal nulla uno Stato ed un Esercito, dissolti dal tradimento Badogliano, oltre a proteggere il paese da una spaventosa ritorsione dei tedeschi ignobilmente traditi. Senza uno Stato e senza un Esercito, ebbe a dire Mussolini, tutto non avrebbe avuto alcun valore.
Di fronte a queste primarie necessità Mussolini andò disperatamente alla caccia di personalità di un certo spessore, tecnici di valore, uomini in grado di dare prestigio alla Nazione o di risolvergli i tanti gravissimi problemi. E dovette anche accontentarsi di non fascisti o fascisti sui generis, che aderivano per “l’onore d’Italia”.
Di fatto alla “Salò nera” dei fascisti repubblicani, rivoluzionari e socialisti, si sovrappose la “Salò tricolore” e in buona parte furono poi questi ultimi, i cosiddetti “moderati” della RSI che spesso, per conoscenze personali e trasversali, salvata la pelle si riciclarono nel MSI, assieme a frange conservatrici di pseudo fascisti del “ventennio” che neppure avevano aderito alla RSI. E prevalentemente costoro si assicurarono i posti direttivi del partito a cominciare da quell’Arturo Michelini, tra i fondatori del MSI di cui ne divenne, dal 1954, segretario nazionale.
La colonizzazione statunitense
È indubbio che i veri vincitori della guerra, sul suolo italiano, furono gli americani, i quali poi, anche in virtù di un certo accordo con il Vaticano, riuscirono a scalzare gli inglesi da sempre influenti in Italia.
Il nostro paese venne letteralmente rimodellato sugli standard esistenziali di vita americani; la oramai obsoleta e svergognata monarchia sostituita da una Repubblica democratica; la nostra economia e finanza adeguate al libero capitalismo di mercato dell’Occidente e all’usura dei banksters, che già a Bretton Woods nel 1944 avevano progettato e varato gli Istituti, il sistema finanziario e l’ordine monetario internazionale per perpetuare il loro potere.
Naturalmente la Nazione venne subordinata militarmente alle esigenze americane che poi la inserirono nella NATO in modo che tutti gli alti comandi delle nostre FF.AA. dipendessero da quelli Atlantici.
Insomma, da allora, divenimmo una vera e propria colonia.
Ma gli americani avevano anche un altro problema: quello di realizzare in l’Italia, in prospettiva del loro ritiro militare, non solo Istituzioni, ma anche strutture militari e di polizia in grado di garantire la stabilita al loro colonialismo.
L’inevitabile esplodere della guerra fredda rendeva queste necessità ancora più impellenti, anche perchè in Italia la presenza social comunista era molto consistente e il PCI era il più forte e radicato partito comunista d’Europa.
Ma attenzione: gli americani non avevano paura, se non come ipotesi teorica, che i comunisti in Italia avrebbero potuto portare il nostro paese fuori dall’Occidente. Ben sapevano, infatti, che gli accordi di Jalta con l’URSS, di livello strategico, garantivano questo inquadramento e lo stesso PCI, a cui era stata da Mosca imposta la svolta “democratica” di Salerno nel 1944 (ben gradita ai dirigenti comunisti), sarebbe di sicuro stato ai patti.
Mai, alcun paese, del blocco dell’est sarebbe passato nel campo opposto o viceversa e infatti gli americani non mossero un dito quando i sovietici intervennero in Ungheria o in Cecoslovacchia, così come i sovietici non fecero una piega quando i rivoltosi comunisti in Grecia (riserva occidentale) vennero spazzati via, o ancora in Grecia, gli americani imposero nel 1967 il colpo di Stato dei Colonnelli.
Gli americani però sapevano benissimo che le Nazioni hanno dei loro sviluppi geopolitici e certe dinamiche internazionali possono seguire strade imprevedibili e quindi vi era pur sempre la necessità di praticare sul piano tattico una “guerra non convenzionale”, di esercitare pressioni di vario tipo a difesa della loro ingerenza, laddove, alla lunga la sola corruzione delle classi dirigenti italiane poteva non bastare.
Un esempio dei pericoli che gli Americani seriamente paventavano in prospettiva, possono descriversi nelle iniziative politico-economiche come quella di Enrico Mattei che minacciavano seriamente i loro interessi.
Mettere, pertanto, in piedi un baraccone di opposti estremismi, dividere governi, partiti, circoli culturali, ecc., in fautori della NATO in opposizione ai fautori del Patto di Varsavia, in pratica scemi & più scemi, era per loro quanto mai opportuno e previdente.
Comunque sia in Italia si imponeva la creazione di strutture, polizie, partiti e circoli politici che potessero da una parte contrastare comunque il comunismo e allo stesso tempo con il gioco della falsa alternativa “mondo libero” o “oltrecortina”, garantissero l’ingessamento del nostro paese nell’area atlantica.
Oggi sappiamo che le prime strutture di polizia, questure e gli abbozzi dei nostri servizi segreti, al tempo il SIFAR, creati dietro la supervisione di quello che era il capo dell’OSS in Italia, James J. Angleton, in mancanza di personale che non poteva fornire una militarmente inesistente ed inaffidabile Resistenza, furono create con il vecchio personale del regime fascista e anche della RSI, dagli americani recuperati ed ovviamente trasformati in perfetti afascisti e antifascisti in pectore.
Un altro super servizio, anomalo e segretissimo, detto l'”Anello”, conosciuto come il “noto Servizio”, dedito anche a pratiche a dir poco criminali, le cui basi vennero gettate a Roma nel 1944 dal generale badogliano Mario Roatta su direttive di un alto ufficiale Alleato, ebreo polacco, venne messo in piedi anche con alcuni reduci della RSI a cui altri poi si aggiunsero.
Come noto gli Alleati ebbero nei confronti dei fascisti vinti e soggetti ai massacri delle “radiose giornate”, un duplice comportamento: quando non gli interessavano li lasciavano allegramente massacrare; quando invece si trattava di ufficiali o sottoufficiali, specialmente ex appartenenti ai servizi segreti della RSI, allora spesso li salvavano con l’intento poi di recuperarli per i loro scopi.
Ma c’è di più. Noi oggi sappiamo che prima ancora della fine della guerra ci furono contatti tra alcuni esponenti della RSI e l’OSS americano, ed oltretutto gli americani avevano anche in piedi una rete spionistica, la Nemo, che comprendeva oltre a vari prelati, uomini della Resistenza, ma anche uomini della RSI.
Anche la massoneria, more solito, aveva iscritti sia nel campo della Resistenza che nella RSI.
Del resto lo stesso Mussolini, in prossimità del crollo finale, aveva lasciato liberi i suoi uomini di esplorare strade e contatti per affrontare le conseguenze della sconfitta. Ergo questi contatti, anche con l’OSS americano che, per esempio, sappiamo aveva tenuto Romualdi uno dei vicesegretari del PFR, uno dei vicesegretari del PFR, (a quanto pare Romualdi era entrato in contatto con l’OSS americano tramite Gianni Nadotti agente segreto del SIM infiltrato prima nella segreteria federale di Parma e poi nella vicesegreteria del PFR a Milano, sempre dietro Romualdi), potevano rientrare in compiti di “ufficio”, ma ci si domanda anche cosa poi accadde al momento del crollo militare dove entrarono in gioco gli agenti americani e del SIM Salvatori Guastoni e Giovanni Dessì con i quali Romualdi trattò la “tregua” della colonna armata fascista.
Costatiamo, per esempio, che la colonna armata di circa 4 mila fascisti, giunta al mattino del 26 aprile 1945 a Como, in poche ore e senza una minaccia militare incombente sul posto, si squagliò come neve al sole, soprattutto per la dabbenaggine dei comandanti fascisti che invece di proseguire verso Menaggio dove li attendeva Mussolini, si fermarono in città, si misero a discutere e poi a dialogare con il fantasma di un inesistenze CLN locale.
Fu così che mentre Mussolini, che fino all’ultimo aveva rifiutato ogni offerta di mettersi in salvo all’estero, in particolare nella Confederazione Elvetica, si stava allontanando dalle zone dove stavano per arrivare gli Alleati, nell’intento di restare libero e giocarsi le ultime possibilità di trattativa, alcuni comandanti fascisti, per loro forma mentis, mostravano di non vedere l’ora di arrendersi agli Alleati e magari con il segreto intento, oltre che salvare la pelle, di riciclarsi in futuro come anticomunisti.
Andò a finire che Mussolini, rimasto isolato e senza scorta a Menaggio, circa 31 Km. dopo Como, venne poi catturato a Dongo, mentre questi comandanti fascisti, firmarono in città una ignominiosa resa, mascherata da tregua e alcuni di loro furono in qualche modo messi in salvo, mentre altri, per esempio l'”estremista” Franco Colombo, venne fucilato.
Gli storici sono concordi nel ritenere che il fascismo cadde, e cadde male, proprio a Como all’alba del 27 aprile 1945, una pagina penosa di tipica storia italica, che in parte riscattarono Pavolini, Mezzasoma, Casalinovo, Porta, Bombacci, Vezzalini, Utimperher e gli altri che vollero seguire il Duce e morirono dignitosamente, anzi meravigliosamente.
Determinatasi la sconfitta ci fu poi la caccia al fascista, i criminali massacri di fascisti e presunti tali nelle “radiose giornate”, ed entrarono in funzione le famigerate Corti d’Assise straordinarie pronte a comminare condanne a morte ed ergastoli.
In questa situazione per l’OSS di J. J. Angleton fu uno scherzo mettersi in tasca vari esponenti e dirigenti neofascisti del primissimo dopoguerra, interessato com’era ad utilizzarli per un fronte comune contro il comunismo.
Oggi, con il senno del poi, non possiamo biasimare se alcuni neofascisti, epurati dal lavoro, braccati, minacciati, in quelle condizioni del tutto eccezionali, accettarono in buona fede le offerte di salvezza che gli prospettavano gli ufficiali Alleati e che gli facevano anche sperare in una rivincita da prendersi sui loro assassini.
Quello che è inaccettabile è il fatto che determinati “contatti” non avrebbero mai dovuto andare più in là di tanto e avrebbero dovuto, in pochissimi anni, se non mesi, essere troncati, ribaltati, specialmente dopo che risultava evidente la subordinazione del nostro paese e lo stato coloniale in cui gli americani l’avevano relegato.
Ed invece non solo queste collusioni, per la maggior parte continuarono, anzi in molte occasioni si trasformarono in vero e proprio assoldamento da parte dell’ex nemico, che nemico in ogni caso restava, ma quando gli statunitensi misero in atto le loro strategie criminali Stay Behind, il cui falso scopo era la lotta al comunismo, mentre il vero fine era l’utilizzo anche di civili per gli interessi politici e militari americani, molti di questi, oramai ex fascisti, entrarono nelle Gladio.
Ma questa è un altra sporca pagina di altre sporche storie.
Il neofascismo del dopoguerra
Fatto sta che nel 1946 la maggioranze delle formazioni clandestine neofasciste, un miscuglio di gruppi incredibile ed eterogeneo, alcuni dagli intenti genuini, altri un misto di camerati in buona e fede e qualche balordo, altri ancora sicuramente equivoci (Fasci di azione rivoluzionaria, Squadre di azione e fronti antibolscevismo o monarco-fascisti, sic!, ecc.) quasi tutti dietro la supervisione e i finanziamenti di James Angleton erano sotto controllo americano, come recita un rapporto dei servizi segreti statunitensi intitolato “Il movimento neofascista – 10 aprile 1946, segreto”:
«I neofascisti intendono stabilire un contatto con le autorità americane per analizzare congiuntamente la situazione del paese. La questione politica italiana sarà quindi collocata nelle mani degli Stati Uniti».
Anche altre personalità che, pur non fasciste, avevano avuto un ruolo militare nella RSI, ma anche mantenuto sottili fili con i comandi Marina del Sud, come per esempio il principe J. Valerio Borghese (un conservatore per tradizione e convinzioni, che alcuni fascisti repubblicani avrebbero voluto fucilare per le sue collusioni con elementi dell’Ammiragliato badogliano) appositamente salvato da Angleton, anche se messo per qualche tempo in galera, vennero subito utilizzate dagli americani.
E in questi “utilizzi”, c’è anche qualcosa di abietto che deve essere ancora ben appurata. Un documento USA, per esempio, classificato top secret, del 20 febbraio 1946 recita: «molti elementi neofascisti provenienti dal nord Italia sono stati inviati in Sicilia».
E in Sicilia, guarda caso, usando l’isola come base strategica e con l’apporto mafioso, gli americani vi stavano giocando il controllo del mediterraneo e sulla stessa Italia scalzando gli inglesi.
Non è stato dimostrato con prove incontrovertibili, ma sembra credibile che prima di quel maledetto 1 maggio del 1947 erano sbarcati in Sicilia una pattuglia di uomini della ex (c’è da aggiungere: veramente ex!) Decima Mas, fatti addestrare da J. J. Angleton, così come si deduce da altri “rapporti” e vari indizi fanno sospettare che a Portella della Ginestra, agli uomini di Salvatore Giuliano si sovrapposero anche uomini in possesso di lanciagranate, bombe-petardo di produzione americana, che lasciarono schegge di metallo in alcune vittime.
Comunque sia gli uomini di Borghese non solo agirono pro USA nella Sicilia del 1947, ma è noto, comprovato ed ammesso dagli stessi, che aiutarono militarmente il nascente stato di Israele, offrendo agli israeliani supporto, addestramento e sostegno militare.
Con queste premesse, che già mostrano chiaramente il come e il perchè, i neofascisti finirono poi per diventare gli ascari degli atlantici, si arrivò alla nascita del MSI.
Premesse nella costituzione del MSI: il “Senato”
Romualdi (di cui parleremo diffusamente più avanti), chiamato il “dottore”, dalla sua latitanza (era ricercato e sul suo capo pendeva il pericolo di una condanna a morte, ma comunque teneva molteplici contatti e quindi doveva essere alquanto ben protetto) coordinava e ispirava un gruppo di persone che formavano il “Senato”, una specie di organismo dirigente dei reduci creato anche da Puccio Pucci, amico di Romualdi, con l’ausilio di Olo Nunzi (ex sindacalista, già nella segreteria politica di Pavolini) e presieduto dallo stesso Romualdi.
Puccio Pucci, ex capo di Stato Maggiore delle Brigate Nere, collaboratore di Pavolini e presidente del Coni, era stato incaricato da Pavolini di costituire cellule clandestine per continuare la lotta nel dopo guerra, assieme ad Aniceto Del Massa, saggista, poeta, filosofo e cultore di scienze tradizionali ed esoteriche, (il famoso PDM dalle loro iniziali).
Progetto che nel dopoguerra si dissolse del tutto e valutando le situazioni che poi portarono alla costituzione del MSI, lascia a pensare che, di fatto, il Pucci, non venne disturbato dagli Alleati, ma ancor più fa riflettere la carriera successiva di questo ex stretto collaboratore di Pavolini: un appunto del SIFAR (Servizio Informazioni Forze Armate) del 1955 dice che il ministro dell’interno Ferdinando Tambroni:
 «ha recentemente provveduto alla ricostituzione dell’apparato anticomunista noto sotto il nome di Ufficio Affari Speciali del Viminale, costituito nel 1954 dall’allora presidente del Consiglio on. Scelba per intensificare l’azione anticomunista. Tambroni avrebbe preso tale decisione di fronte alle pressioni dell’ambasciatore americano a Roma signora Luce. Il nuovo organismo si chiamerà Ufficio Studi e Documentazione e sarà diretto dal dott. Puccio Pucci, già in servizio presso la segreteria dell’on. Scelba e attualmente addetto al Gabinetto del ministro Tambroni».
Cosicchè quello che avrebbe dovuto essere uno dei dirigenti clandestini per la lotta fascista contro l’occupante, finirà di collaborare invece con il ministero degli interni nella riorganizzazione di quello che poi, anni dopo, divenne il famigerato AA.RR. di Umberto Federico D’Amato, già uomo di J. J. Angleton.
Di questa accennata struttura del “Senato”, sempre poco si è saputo. Di certo Romualdi radunò personalità del vecchio regime e qualche giornalista.
Sicuramente ne fecero parte o la frequentarono, Valerio Pignatelli (già esponente, stimato da Mussolini, della resistenza clandestina dei fascisti repubblicani al sud durante l’occupazione Alleata, ma che una volta catturato dagli americani, si legge in un loro documento segreto:
«… la sua cattura si rivela un colpo grosso per le informazioni che egli fornisce e per l’autorevolezza del personaggio … In qualità di militare e di proprietario terriero, il soggetto è fortemente allarmato dall’espansione del comunismo)»;
Nino Buttazzoni, uomo di Borghese, amico dell’Ammiraglio Agostino Calosi della Marina del Sud, valente militare che poi si mise anche a disposizione degli israeliani. Fu l’ammiraglio Calosi, a sua volta attraverso la sionista Ada Sereni, a indurre Buttazzoni ad operare militarmente per gli israeliani;
Bruno Puccioni, avvocato fiorentino del 1903, era stato Consigliere Nazionale della camera dei Fasci e Corporazioni e ufficiale in Africa decorato da Rommel. Sfollato, dopo la caduta di Firenze, sull’Alto Lago di Como, crocevia delle ultime tragiche ore di Mussolini, venne ospitato a Villa Camilla a Domaso, dai conti Sebregondi.
Il suo esser stato un fascista moderato, aver aiutato gli ebrei, il porsi ora in una posizione defilata, l’amicizia con i tedeschi e contemporaneamente con i partigiani del luogo e agganci vari sia nella Resistenza che tra le autorità della RSI, fecero di lui l’elemento ideale a cui un po’ tutte le componenti politiche e militari potessero fare affidamento per i più disparati motivi e intercessioni. Caduto in disgrazia, venne arrestato dai fascisti, ma al contempo era anche sospettato dai partigiani di collusioni con questi ed i tedeschi. I comunisti lo definirono, nel dopoguerra, “una nota spia fascista di Firenze, a cui era stato concesso, dopo la Liberazione, un attestato di innocenza”. La sua residenza a Villa Camilla, alle spalle della montagna, via vai di clandestini, fu un appoggio e un centro strategico per i partigiani della 52a Brigata Garibaldi, il gruppetto che ebbe la ventura di catturare il Duce e che il Puccioni in qualche modo controllava e gli faceva da consigliori. A lui, in quelle ore drammatiche, fecero un primo riferimento i partigiani Pier Bellini delle Stelle “Pedro”, Urbano Lazzaro “Bill”, il brigadiere della Guardia di Finanza Antonio Scappin “Carlo” e lo svizzero Alois Hoffman, detto “mister sterlina”. Il tutto avveniva sotto l’egida degli Alleati a cui tornava utile questo ponte tra “fascisti” e partigiani);
Arturo Michelini, (che non aveva aderito alla RSI e aveva preferito restare a Roma anche dopo l’occupazione Alleata);
Ezio Maria Gray (un nazionalista che dopo il 25 luglio aveva mandato un telegramma di congratulazioni a Badoglio);
l’archeologo Biagio Pace (di cui giravano voci di esser stato un confidente dei Carabinieri che erano in relazione con il governo del Sud);
l’ex ministro delle Finanze della RSI Domenico Pellegrini Giampiero (una delle più belle ed efficienti figure tra i ministri di Mussolini);
qualche giornalista come Giorgio Pini (stimato da Mussolini ed esponente della “sinistra fascista”);
Alberto Giovannini, nel 1946 fondatore della rivista “Rosso e Nero” (intendeva conciliare il fascismo con il socialismo, ma successivamente finì a scrivere nell’ambito di vari giornali e riviste liberali o di destra);
Giovanni Tonelli di “Rivolta Ideale” (che successivamente divenne una specie di organo del MSI) e varie altre personalità.
Assimilabile a costoro vi era poi Giorgio Almirante, ex capo di Gabinetto al Ministero della Cultura Popolare di Ferdinando Mezzasoma, di cui parleremo diffusamente più avanti.
Come si vede un mixer di ex fascisti, personaggi ambigui e sinceri fascisti repubblicani.
Al contempo Romualdi in quei primi mesi del 1946, prendeva contatti con tutti i partiti ad esclusione delle sinistre e ovviamente sia con monarchici e repubblicani e a tutti prometteva che poteva tenere a bada i fascisti facendo capire (cambiando i termini a seconda dell’interlocutore) che comunque fosse andato il referendum Monarchia-Repubblica del 2 giugno ’46 e le conseguenze di ordine pubblico che potevano esserci, i fascisti avrebbero potuto rimanere estranei o intervenire e fronteggiare gli avversari della monarchia o della repubblica e naturalmente i “rossi”. In cambio chiedeva una specie di “amnistia” per tutti i reduci fascisti in quei tempi braccati, incriminati, epurati e sottoposti ad ogni genere di persecuzione legale.
Era ovvio che dietro la pur lodevole e opportuna richiesta in favore dei reduci, queste offerte, prive di una vera valenza ideale, nascondevano progetti ambigui e sicuramente reazionari, senza contare il “ponte”, tra l’altro già gettato da tempo, che veniva a consolidarsi con quella Monarchia, infame e traditrice della nazione che i fascisti Repubblicani avrebbero dovuto considerare come la peste.
A luglio del 1946 Romualdi, referendum concluso e vinto con qualche imbroglio dalla Repubblica, sul primo numero di “Rivoluzione”, un giornale clandestino dei FAR (Fasci di Azione Rivoluzionaria), preconizzava futuri scontri di piazza, asserendo, in sintesi, che tutti gli schieramenti anticomunisti, vigliacchi per natura, si sarebbero trovati in difficoltà ed allora, secondo lui, i fascisti potevano sfruttare l’occasione, perchè ci sarebbe stato bisogno di chi è capace di fronteggiare validamente il comunismo.
Un vero programma subalterno alle componenti reazionarie del paese con l’offerta del potenziale umano costituito dai fascisti.
Noti diverranno anche i traffici che imbastirà successivamente Almirante con ambienti democristiani e clericali. Una compromettente lettera di Almirante venne ritrovata nelle tasche di Franco De Agazio, direttore del Meridiano d’Italia, assassinato dai comunisti della Volante rossa nel marzo 1947, probabilmente perchè stava scoperchiando compromettenti aspetti sulle vicende dell’oro di Dongo e sulla identità del famigerato “colonnello Valerio”, spacciato falsamente come il fucilatore del Duce. Gli scriveva Almirante:
«Caro De Agazio, a nome del Movimento ti prego di una missione urgente e importantissima. Abbiamo avuto notizia sicura che il cardinale Fossati di Torino ha convocato parecchie persone e personalità allo scopo di addivenire alla fondazione in Piemonte di squadre di resistenza anticomunista. Tu capirai cosa significa e cosa può significare ciò. Affidiamo quindi a te la missione di andare a Torino, possibilmente con altra persona di tua fiducia, di farti ad ogni costo ricevere dal Fossati e di prospettargli la possibilità che il MSI collabori con lui. Gli puoi dire -perché è vero- che i gesuiti di qua ci conoscono, ci approvano e ci appoggiano».
En passant sottolineiamo che questo De Agazio, ex giornalista della “Stampa”, venne poi spacciato, da missisti e avversari, per neofascista (era stato messo in galera per “collaborazionismo”), quando non lo era affatto, se non in senso superficiale ed anzi durante la RSI aveva anche avuto seri problemi con i fascisti repubblicani. Insomma, era un naturale precursore di quel Franco Servello (che gli era nipote), già caporedattore e successivo direttore del Meridiano, altro elemento che, come vedremo, godeva di grande fiducia presso gli Alleati).
Le riunioni costitutive del MSI
La riunione decisiva, ma i “giochi” erano già fatti, per la costituzione del MSI, un partito reazionario mascherato da neofascismo, da utilizzare come bassa manovalanza anticomunista, riunione tra i cui promotori vi era stato anche un certo Costantino Patrizi, legato alla Democrazia Cristiana e amministratore del periodico “Rataplan”, si tenne il 26 dicembre 1946 nello studio del padre di Arturo Michelini, un avvocato già iscritto al partito liberale.
Tutta la genesi che aveva portato a questi risultati non era stata semplice, perche il pur variegato mondo dei reduci del fascismo repubblicano era tutto meno che reazionario, ed anzi molti erano idealmente su posizioni decisamente rivoluzionarie. Bisognava quindi agire con circospezione, gradualità ed inganno nel distillare le gocce di veleno che dovevano fare di questo partito la guardia bianca degli americani e dei peggiori e più gretti interessi borghesi.
Ma i furbastri erano però agevolati dal fatto che politicamente potevano convincere la gente che in quel momento si necessitava di una certa duttilità e bisognava anche aprirsi a componenti eterogenee come del resto era avvenuto nel passato. Ragionamenti politicamente anche logici e plausibili, se non fossero in malafede.
In politica, infatti, ci può anche stare che si accantonino posizioni estremiste e magari si apra ad altre componenti; oltretutto, viste le leggi vigenti non era possibile una ricostituzione del partito fascista.
Ma qui il progetto del MSI, gli ideali che avrebbe dovuto perseguire e le sue aperture politiche, furono tutte in un senso solo: quello reazionario e conservatore estraneo al fascismo repubblicano, di cui ne costituivano una netta antitesi, essendo invece strategicamente utili ai nostri colonizzatori statunitensi, così come era negli scopi di chi lo stava, con l’inganno, creando.
Ancora precedentemente, sempre nello stesso studio dei Michelini, si erano spesso riuniti, vari personaggi, cosiddetti “padri fondatori”, di cui abbiamo già visto alcuni profili e altri li vedremo più avanti, fatto sta che quelle a riunioni parteciparono:
Jaques Guiglia capo dell’Ufficio stampa della Confindustria; Arturo Michelini; Giorgio Almirante; in qualche modo dalla clandestinità poteva dirsi idealmente presente Pino Romualdi; Ezio M. Gray, che trovò quelle prime premesse programmatiche troppo sbilanciate a sinistra (figurarsi!) e quindi lui, nazionalista e ultra conservatore, entrò nel partito, ci mancherebbe altro!, solo successivamente; Nino Buttazzoni, Giovanni Tonelli (il suo giornale, “Rivolta Ideale”, proclamerà: «è avvenuta la fusione dei più importanti movimenti politici e sociali nel nome della patria»; il principe Valerio Pignatelli.
Tra i presenti c’è il generale Ennio Muratori impegnato in una specie di fronte anticomunista pregno di ex badogliani e collaboratore di Nino Buttazzoni nella costituzione di gruppi filo monarchici.
Un certo ruolo lo ebbe anche Cesco Giulio Baghino giornalista, che a novembre del 1946 aveva costituito un piccolo partito, il MIUS, Movimento italiano di unità sociale, tra i cui esponenti c’erano Giorgio Almirante e Giorgio Bacchi,
Anche Giorgio Pini e qualche altro camerata, che rappresentavano la corrente di sinistra del fascismo, furono presenti e diedero un grosso contributo.
Per ultimo abbiamo lasciato di citare la figura, già tratteggiata, dell’avvocato Bruno Puccioni (amico di Romualdi) perchè è emblematica e significativa per illustrare i personaggi che ebbero un ruolo determinante nelle discussioni e nelle riunioni che portarono alla nascita di un MSI già ambiguo e bacato in partenza.
Tra tutti questi; Guiglia, Michelini, Romualdi, Puccioni, Buttazzoni, Pignatelli e Muratori avevano avuto contatti con ambienti legati ai servizi segreti americani e guarda caso erano fortemente impegnati ad imprimere al nascente MSI una linea decisamente, ma meglio sarebbe dire, esclusivamente, anticomunista.
Giorgio Pini e gli altri di “sinistra”, purtroppo furono ben presto piegati dalle manovre e dai mezzi in possesso di chi doveva far nascere e crescere la creatura missista in un certo modo. Successivamente se ne andranno schifati dal MSI.
Il 30 maggio del 1949, come citano le cronologie Beltrami Nemesio, sulla rivista “Il pensiero nazionale”, dedica un articolo al congresso nazionale del MSI previsto per il 28 giugno, rilevando che:
«Almirante, Michelini, Russo Perez hanno in mano le chiavi del movimento, le chiavi anche della cassa, nominano dall’alto fiduciari e federali e sono appoggiati e manovrati dai sottosegretari DC Marazza e Andreotti».
E in seguito se ne andarono da questo partito anche personalità di valore assoluto per esempio Domenico Pellegrini Giampietro ministro delle Finanze della RSI (in pochi mesi di governo repubblicano mostrò al mondo come si sarebbe dovuto procedere per sottrarre le finanze della Nazione dall’usura bancaria, commissariò di fatto la Banca d’Italia e compì il miracolo di lasciare il Bilancio dello Stato in attivo), oppure come il professor Manlio Sargenti, capo gabinetto al ministero dell’Economia Corporativa e tra gli estensori del manifesto di Verona, uno dei padri della Socializzazione.
Molti anni dopo chiesero a Sargenti come considerò il momento in cui il MSI condivise l’adesione alla NATO, dopo accese discussioni interne e dopo che a marzo del 1949 c’erano state veementi opposizioni in Parlamento, e questi rispose che in quel momento si perse lo “spirito” del partito.
Ma in sostanza, se andiamo a ben vedere non è neppure un fatto di correnti di destra o di sinistra, che in politica sono diversificazioni normali e comprensibili, qui si trattava di creare un partito da mettere al servizio di innominabili poteri, tra cui la subordinazione agli americani costituiva, in ogni senso, un vero e proprio tradimento degli interessi nazionali.
A dare il loro contributo alla nascita del MSI, comunque, ci furono anche tanti e tanti altri bravi camerati, molti dei quali ben presto, capita l’antifona, uscirono disgustati da quella latrina nella quale si infilavano strati qualunquisti del disciolto Uomo Qualunque, persino ex monarchici ed ex venticiqueluglisti e arrivisti di ogni genere.
Molti di coloro, pur fascisti e in buona fede, che restarono nel partito, con il tempo, grazie alle tante sirene che il “gioco democratico” offriva, subirono una lenta, ma inevitabile corruzione, prima di tutto dell’animo e poi, un poco alla volta di tutti i loro ideali che una attitudine e una politica sostanzialmente antifascista, non poteva non determinare.
Ma, a dimostrazione della grande varietà del genere umano, non mancarono neppure inguaribili sentimentali che, in mancanza di una vera alternativa politica, vollero restare nel MSI fino alla loro morte, ben sapendo, o non volendo sapere, in che letamaio si trovavano. Ma tant’è, sono oramai tutti ricordi e discorsi inutili, fatti con il senno del poi e che appartengono al passato.
Toniamo invece alla riunione decisiva del 26 dicembre 1946.
I padri fondatori del MSI
Consideriamo meglio i più importanti tra quelli che furono definiti i “padri fondatori” del MSI, perchè dai loro profili, come dai precedenti per alcuni già tratteggiati, è poi facile comprendere da che mani era nato il MSI.
Qui non ci interessa e neppure si pone il quesito se costoro agirono in malafede per interessi personali o se una visione ed una attitudine di destra e conservatrice era loro implicita, naturale e connaturata. Qui va considerata solo la loro nefasta opera da cui partorì quel movimento, di fatto, “antifascista”; il resto lo lasciamo agli storici e alla coscienza, se c’è l’hanno mai avuta, delle persone.
Di sicuro però disonesto fu il modo e il procedere con cui furono ingannati i reduci del fascismo.
Come abbiamo visto ci furono anche validi e bravi camerati in buona fede, personaggi anche importanti che dedicarono tutto sé stessi alla nascita di questo partito, ma qui li omettiamo, perchè purtroppo le regole del gioco, gli appoggi trasversali di cui godevano i malversatori del fascismo, erano tanti e tali che non ci fu niente da fare e il MSI seguì la strada che per lui avevano tracciato americani, lobby massoniche e circoli industriali, dietro benedizione vaticana, una strada il cui fine principale era, sul piano ideale, quello di spostare a destra i reduci del fascismo repubblicano e sul piano operativo quello di fornire una massa di manovra in funzione anticomunista.
Sorvoliamo su Giacinto Trevisonno dei “Reduci indipendenti”, figura marginale che poi Romualdi volle subito come segretario della costituita giunta esecutiva del partito, in quanto poco esposto con il fascismo, e vediamo altri personaggi importanti che poi si investirono di cariche nel partito.
Arturo Michelini, che non aveva aderito alla RSI, fu il vero burattinaio di tutta l’operazione (mentre Romualdi, dietro le quinte della clandestinità ne fu l’artefice politico) anche perchè, la sua figura di afascista, faceva da garante a quei potentati e finanziatori per la nascita del partito, vale a dire, a parte l’OSS americano: ambienti confindustriali, Vaticano, lobby massoniche e la stessa Democrazia Cristiana.
Negli anni successivi Michelini assunse praticamente una posizione dittatoriale nel MSI (a gennaio 1954 ne divenne il segretario nazionale) grazie al controllo della “borsa” del partito, a cui impresse un linea sostanzialmente liberale, una posizione politica che di fatto fallì solo dopo il crollo del breve ed effimero governo Tambroni e la nascita del centro sinistra, quando fu evidente che la DC preferiva, a destra e come controparte, il PLI e non il MSI, che teneva relegato al perenne ruolo di ruota di scorta nei momenti di necessità di “numeri” in parlamento.
Di Pino Romualdi, dei suoi contatti pregressi con l’OSS (solo per prassi di ufficio?), si è già detto. È noto poi che mentre i vari Pavolini, Colombo ecc., erano considerati fanatici e irriducibili estremisti, una nota interna del Sim-Nord Italia (S.I.M.N.I.), degli ultimi mesi di guerra, attestava che Pino Romualdi fosse degnissimo sotto tutti gli aspetti morali.
Sappiamo poi che, nel 1947, elementi terroristici ebraici ebbero, proprio da Romualdi, la disponibilità di esplosivi da loro utilizzati in alcuni attentati. Molti anni dopo Romualdi, uomo mentalmente di destra, nel confessare questi traffici non si rese conto se ne poteva anche dedurne che se gli ebrei si fidavano di lui e ci intrattenevano certi delicati contatti, mentre oltretutto gli pendeva una condanna a morte ed era ricercato, non solo doveva godere di valide protezioni, ma era anche evidente che gli ebrei stessi probabilmente non lo dovevano considerare un fascista irriducibile, nè tanto meno un nemico.
Fu Romualdi che, alla nascita del MSI, ne tracciò le prime linee direttive tipicamente reazionarie, come per esempio quella di prepararsi per una insurrezione anticomunista, di restare in un primo momento equidistanti dal contenzioso monarchia-repubblica, ma di fatto di appoggiare i monarchici.
Finì ovviamente per rappresentare, all’interno del MSI, l’ala di destra del partito e almeno in questo fu coerente con la sua mentalità e convinzioni. Romualdi oltretutto, precedentemente alla nascita del MSI, dalla sua latitanza, aveva avuto modo di incontrare, sondare e conoscere molti ex presunti fascisti del ventennio, che non avevano aderito alla RSI o comunque non erano venuti al Nord con Mussolini, ma ora si trovavano ugualmente nei guai per il loro passato nel clima post liberazione. Trattavasi di gente decisamente anticomunista, in genere conservatori, che tornarono utili quando poi si dovettero formare i quadri dirigenti del MSI.
En passan ricordiamo che su Romualdi girava anche una diceria, con buona pace per la onorabilità della madre, ovvero quella che fosse un figlio di Mussolini. Come possa essere uscita fuori una idiozia del genere non si sa, forse un minimo di somiglianza nelle foto, forse la comune origine romagnola, ma più che altro il livello demenziale di buona pare della base missista. Eppure, leggende metropolitane del genere, che poi non erano rare in quell’ambiente, spesso rendevano anche in termini di voti.
Tra i padri fondatori abbiamo Giorgio Almirante che eletto a Roma da un nuovo Comitato Centrale nel giugno 1947 successe poi a Trevisonno e fu il secondo segretario.
Questo figlio di attori, che si rivelò in seguito un abile guitto politico rivestendo, da abile saltimbanco, all’interno del partito, spazi di destra, oppure facendosi pseudo assertore di posizioni sociali che immancabilmente ad ogni congresso disattendeva, aveva ricoperto la carica di capo gabinetto del ministro Messasoma al Minculpop.
Il 25 aprile Almirante saluta Fernando Mezzasoma che gli dice «vado a morire con il Duce» e quindi con preveggente saggezza lui si invola dall’altra parte. Conscio della discrasia in questi due comportamenti dirà poi che fu il ministro a vietargli di seguire la “colonna Mussolini” (mah!).
Raccontò che si era rifugiato in casa di un israelita a Milano un certo Levi che lui, durante la guerra, ma guarda un po’, aveva a sua volta nascosto al ministero, successivamente mantenendosi clandestino se ne andò a Torino.
Sia come sia non si capisce, o forse si capisce fin troppo bene, come Almirante, sia pure un funzionario di ministero, ma già collaboratore alla “Difesa della Razza”, dal gennaio 1945 tenente della Brigata Nera autonoma ministeriale, che pur aveva anche ricoperto qualche piccolo ruolo, anche se non militarmente attivo, nelle azioni antipartigiane e un bando di avvertimento con sua firma verso i renitenti alla leva, era stato trasmesso alla prefettura del Grossetano, non fosse incriminato e ricercato per “collaborazionismo”, vera mosca bianca, visto che in quei tempi, si può dire che venivano incriminante persino semplici ausiliarie della RSI, potendo così operare indisturbato alla nascita del MSI. Lui no, non ebbe persecuzioni inquisitorie da parte delle nuove istituzioni, imposte dagli Alleati e nate dalla Resistenza.
Di lui resta infine da dire che concluse la sua esistenza politica, in sintonia con i suoi veri “ideali”, quegli ideali di destra che fino al congresso missista di Pescara del 1965 aveva sempre occultato facendosi anche paladino della corrente sociale di “Rinnovamento” che poi, a quel congresso immancabilmente tradì, scatenando ire, violenze e rimostranze di un ampia base così turlupinata che era giunta a Pescara piena di speranze di cambiamento.
Ebbene con l’avvento degli anni ’70 in avanti, finalmente, Almirante trasformò, o meglio adeguò, perchè di fatto lo era sempre stato, il MSI in Destra Nazionale, inglobando, anche nelle alte cariche del partito, gli ex monarchici, liberali e democristiani di destra falliti, tromboni trombati dei Servizi, generali delle FF.AA., industriali anelanti allo stato forte e, perchè no, vecchi ordinovisti in cerca di un “ombrello”.
E finalmente il MSI assunse, anche esternamente, il suo vero aspetto reazionario, bottegaio, forcaiolo e ultra atlantico che neppure con il “liberale” Michelini aveva avuto.
Da questo momento le nuove generazioni che si identificavano o si avvicinavano a questo partito, potevano oramai definirsi un “qualcosa” di informe, genericamente di destra, ma decisamente antifascista, ancor più che in precedenza e nonostante il perdurare di certa simbologia atta a carpire voti agli ingenui.
Altro importante fondatore è Biagio Pace.
Docente di Archeologia, Pace aveva ricoperto negli ultimi anni del ventennio la carica di consigliere nazionale della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Quel 26 dicembre presiedette la riunione costitutiva.
Di Pace si diceva che era stato un confidente dei carabinieri passati con i partigiani e come tale era stato scoperto dal principe Valerio Pignatelli che ne chiese l’espulsione dal partito. Ma Almirante e altri rifiutarono e sembra che fu per questo che Pignatelli fu lui a dimettersi. Che dire? Nulla.
 Un esponente di rilievo da annoverare, se forse non proprio tra i primissimi fondatori del MSI, perchè vi arrivò o venne chiamato, ad assumere certe cariche un attimo dopo la sua costituzione, fu Augusto De Marsanich, la cui sorella Teresa Iginia De Marsanich, sposata con l’israelita Carlo Pincherle, era la madre di Alberto Moravia.
De Marsanich era un uomo alquanto indicato, per garantire gli ambienti industriali, avendo a suo tempo ricoperto la carica di presidente del Banco di Roma e quella di presidente dell’Alfa Romeo. Assieme a Michelini e Nino Tripodi fu il massimo interprete della operazione di inserimento del MSI nello schieramento parlamentare di destra, facendosi anche fautore di una linea “moderata” che mirava a fare del MSI l’interlocutore della Democrazia Cristiana.
Fu il furbo De Marsanich, al primo congresso missista di Napoli del giugno 1948, a coniare l’ambiguo slogan «non rinnegare e non restaurare», utile a fregare la base ancora di sentimenti fascisti, rassicurandola con quel “non rinnegare” (quando invece sostanzialmente si era rinnegato di tutto e di più) e mettendo le mani avanti con il “non restaurare” per giustificare la mancanza di iniziative e prese di posizione che il MSI, se fosse stato un vero partito che si rifaceva al fascismo repubblicano, avrebbe almeno dovuto prospettare.
Fu ancora principalmente De Marsanich (che ricoprì la carica quale terzo segretario nazionale dal 15 gennaio 1950, quando Almirante decadde da analoga carica, al 1954) ad aver pilotato gradualmente e con grande destrezza, piegando le tante resistenze, la sporca operazione che portò il MSI ad appoggiare ed avallare senza riserve l’Alleanza Atlantica per il nostro paese.
E sempre sotto il suo “interregno” si perfezionò quella sporca manovra tendente a porre, sul piano sociale, il MSI come propugnatore di un Corporativismo senza capo nè coda (ovviamente mettendo nel dimenticatoio la Socializzazione) in modo da fare del partito uno strumento liberista e filo capitalista.
Di socializzazione, infatti, nelle sedi missiste, non se ne parlò più fino a quando, nella prima metà degli anni ’60 non venne rispolverata demagogicamente dalla corrente di base “Rinnovamento” guidata da Almirante per giochi interni di potere.
More solito, alla vigilia del congresso missista di Pescara del giugno 1965, come accennato, Almirante si accordò con la segreteria Michelini e liquidò di nuovo e per sempre, “Rinnovamento” e la socializzazione.
Non indifferente fu anche l’opera di Franco Maria Servello, filo americano doc, anche se in quei primi anni del dopoguerra tendeva a non mostrarlo, ma tanto filo americano che negli anni ’60 dopo una sua pubblica presa di posizione in favore della NATO, i fascisti della FNCRSI, ne riportarono le sue frasi attribuendole ad un certo «Servello, di nome e di fatto».
Questo Servello, che ha attraversato tutta la storia del MSI, per poi finire coerentemente in Alleanza Nazionale, nei mesi precedenti la fine della guerra, mentre i fascisti combattevano e morivano per difendere l’Italia invasa dagli Alleati, scriveva su un giornale al sud occupato dagli americani e dietro loro autorizzazione. Colpisce che poi, come se nulla fosse, lo si ritrovi allegramente e con importanti ruoli, nelle fila del neofascismo.
Servello, nel 1947, da caporedattore, dopo l’assassinio di De Agazio, prese in mano la direzione de “il Meridiano d’Italia” e poi del “Meridiano Illustrato”, un rotocalco con belle illustrazioni e qualche buon articolo, ma finalizzato più che altro a rivalutare sul piano nostalgico il regime fascista, Mussolini e i meri aspetti nazionalistici della guerra (ricordi che ben pagavano sul piano elettorale), guardandosi però bene dall’illustrare adeguatamente la parte socialista e rivoluzionaria del fascismo.
Almeno fino alle importanti elezioni del 18 aprile 1948, “Il Meridiano”, pur riportando un cernita eterogenea di firme, molte anche valide e di fascisti, tirava la volata al Movimento Nazionale per la Democrazia Sociale dell’ex deputato qualunquista Emilio Patrissi. Successivamente, riportata la direzione a Milano, divenne fiancheggiatore del MSI.
Raccolti, infatti, dal MSI, circa il 2 percento dei voti, e ottenuti 6 deputati e 1 senatore, il Servello con una lettera al delegato missista per l’Alta Italia, Achille Cruciani, dichiarava di voler contribuire ad unificare attorno al MSI le “forze nazionali” (anticomuniste, ovviamente!).
Il Patto Atlantico   
Le vicende di Servello e del Meridiano d’Italia, ci consentono anche di considerare una altra sporca pagina della storia del MSI, quella della sua accettazione della NATO, il Patto Atlantico.
Si badi bene, il Patto Atlantico non fu solo una “alleanza militare” per fronteggiare un ipotetico e oltretutto, stante Jalta, inesistente pericolo sovietico. Questo “Patto” era invece un “sistema” attraverso il quale gli statunitensi avrebbero potuto creare strutture politiche e militari che ingessassero e subordinassero agli Stati Uniti le singole nazioni e i rispettivi Stati Maggiori, perpetuando il loro colonialismo in Europa. Nazioni che erano state già conformate, inglobate e subordinate nei meccanismi economici finanziari dell’Occidente iper capitalista e dell’usura bancaria.
La scelta di Servello di puntare sul MSI, risulterà anche opportuna, per partecipare, da dentro, all’infuocato dibattito che nei primi mesi del 1949 spaccava il MSI tra “Possibilisti”, favorevoli al Patto Atlantico, e “Terzaforzisti”, decisamente contrari.
Come noto il governo italiano ad aprile 1949 firmò a Washington questo patto scellerato che poi, tra lacerazioni, proteste e polemiche, il parlamento ratificò a luglio.
Più che ambigua risulterà la linea politica del Meridiano, su questo argomento, visto che ci scriveva anche Concetto Pettinato, tutt’altro che fascista intransigente, ma contrario all’Italia nell”Alleanza, mentre il Servello, evidentemente conscio che anche la base missista al tempo era prevalentemente contraria, tenne una posizione più che ambigua, scaltra.
Al congresso missista di Roma dell’estate del 1949, terminato il 1 luglio, infatti, pur “ritenendo” negativa (ma guarda un po’!) l’adesione al Patto Atlantico, Servello chiedeva di «conferire ai vertici del partito il potere di valutare e orientare definitivamente questo mandato, nella eventualità che intervengano fatti nuovi di enorme importanza».
Almirante e De Marsanich, si dichiararono favorevoli.
E voilà, il gioco era fatto a nome dell’unità.
Per salvare la faccia i parlamentari missisti si astennero a luglio nella votazione di ratifica del Patto Atlantico, ma le premesse per far passare al più presto, tra i militanti del MSI, l’accettazione di questa alleanza scellerata, erano oramai gettate.
Nel frattempo Pio IX, di fatto favorevole al Patto Atlantico, il 1 luglio 1949 emanò la scomunica verso i fedeli che professano la dottrina del comunismo, soprattutto chi lo difende e ne fa propaganda.
Come era negli intenti di molti, il nuovo Segretario Nazionale, De Marsanich dal gennaio 1950 (sembra che ambienti democristiani, per mantenere un certo “dialogo”, avevano pretese un segretario meno implicato possibile con il passato fascista), riuscì poi a completare l’accettazione della adesione del MSI alla NATO.
Anzi con il tempo questo partito ne divenne un fanatico difensore.
“Il Meridiano” proseguì le pubblicazioni con una linea contraddittoria, vista la penna di Pettinato e altri che divergevano anche da quelle tendenze missiste che appoggiavano l’intervento americano in Corea.
Il gioco delle parti: le richieste di “scioglimento”.
Sono stati quelli, fine anni ’40, primi anni ’50, momenti cruciali per l’assestamento a destra del MSI e la sua definitiva trasformazione reazionaria.
In particolare dopo una serie di gravi scontri con i comunisti, sopratutto a Roma, accadde che il democristiano ministro degli interni Scelba nel 1950 proibì di tenere il terzo congresso missista a Bari.
Successivamente Scelba arrivò a presentare un disegno di legge, approvato a giugno del 1952, la cui formulazione avrebbe potuto anche consentire di chiedere lo scioglimento del MSI, per tentata ricostruzione del Partito fascista, punirne l’apologia del fascismo, ecc., il che era tutta da ridere.
Probabilmente ci fu un gioco delle parti visto che in tal modo la dirigenza missista moderata, come era nei desiderata della Democrazia Cristiana, avrebbe azzittito ogni opposizione interna che si rifaceva al fascismo, tutti si sarebbero rifatti una certa “verginità” verso la base, potendosi nascondere dietro lo “stato di necessità” e il pericolo di scioglimento, mentre agli avversari, comunisti compresi, che ben sapevano che il MSI era tutto meno che fascista, tornava utile, in nome dell’antifascismo, dipingerlo come tale e chiederne la messa al bando, che però non conveniva a nessuno.
Un gioco delle parti, atto anche a ricatti e alchimie politiche che, negli anni successivi, si ripeté più volte, ma ovviamente senza essere mai portato a compimento.
Come stavano le cose, rispetto alla volontà dei missisti di rifarsi al fascismo e volerlo restaurare, lo aveva capito anche Guglielmo Giannini (giornalista, drammaturgo, fondatore dell’Uomo Qualunque) che ben conosceva i suoi polli, il quale il 9 aprile del 1948 in un articolo intitolato: “Ah! Ah! Ah! Questo branco di fessi!”, già apparso su “Il Buonsenso”, scrisse che il MSI rappresenta uno:
«”squadrismo di seconda mano a disposizione della Democrazia cristiana”; privi di alcuna possibilità di restaurare il fascismo per mancanza di capi, difatti, che valore possono avere, si chiedeva Giannini, “poveracci del tipo di Giovanni Tonelli, di Giorgio Almirante e d’altri fregnoni che non sono mai stati niente e che non potranno mai essere niente? È dunque pazzesco, oltreché ridicolo, credere che il fascismo si possa restaurare con simili melensi cercatori di posticini”».
Per la cronaca, in quei primi anni ’50 e in queste nuove situazioni, il saltimbanco, da una posizione politica del partito all’altra, Almirante, si spostò ora su posizioni di “sinistra” e si mise a fare l’intransigente, il che è tutto dire, mentre De Marsanich, da neo segretario, cogliendo al volo l’occasione, rivolse un appello a Monarchici e Liberali, onde stipulare un “patto di unità d’azione” tra tutte le destre.
A dicembre del 1951, infatti, il Comitato Centrale del MSI deliberò a maggioranza l’apparentamento con i monarchici del PNM per le elezioni amministrative del 1951- ’52: il 25 luglio e Badoglio erano oramai un lontano ricordo.
Anche il Meridiano finirà per gettare la maschera facendosi portavoce di quella corrente che interpretava il connubio con i monarchi, ex badogliani, come una necessità tattica.
A cosa e a chi serviva il MSI
Sostanzialmente la nascita di un partito, quale il MSI, in quei primi tempi, difficili e turbolenti del dopoguerra, rispondeva a vari interessi, tutti di carattere reazionario ed esigenze antinazionali.
Considerando, infatti, la presenza di una larga base di reduci e militari della RSI e anche di Italiani, che gli antifascisti definivano “nostalgici” (a dicembre del 1944, con la guerra che oramai aveva imboccato la tragica fase finale e con tutte le sofferenze e privazioni della popolazione, Mussolini al Lirico di Milano e poi per le strade ottenne ancora un enorme successo di folla entusiasta), la nascita di un partito che controllasse e rappresentasse queste masse, conveniva a tanti.
A cominciare dagli statunitensi, interessati ad ufficiali, sotto ufficiali, funzionari e gente specializzata a cui affidare compiti e incarichi che gli consentissero di mettere in piedi strutture di una certa affidabilità per le loro politiche future in Italia, di cui abbiamo già parlato.
C’era poi da tenere in considerazione il mondo industriale e la borghesia in genere, non poco spaventata dalla forte presenza social comunista nel paese e del sindacato CGIL nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro. Anche se questi social comunisti, avevano meravigliosamente obbedito, alle disposizioni Alleate, del resto sollecitate dagli industriali, per la immediata abolizione delle Leggi fasciste sulla socializzazione delle imprese, la presenza dei “rossi” e dei sindacalisti sui posti di lavoro, con le loro rivendicazioni, spesso sacrosante (basti pensare a come venivano fatti lavorare gli operai edili, con orari assurdi, senza alcuna protezione e senza adeguate attrezzature e indumenti, o le condizioni dei lavoratori dell’agricoltura in molte zone riserva esclusiva di latifondisti egoisti e privi di scrupoli), davano fastidio ed incutevano timore agli industriali e alla borghesia.
Stessa cosa poteva dirsi del Vaticano che, attraverso l’accordo con gli americani, aveva puntato tutto sulla DC per la gestione del potere in Italia, ma a cui non dispiaceva la presenza di frange di destra, anche attivisti, a difesa dei valori (e degli interessi) della Chiesa.
Ultima, ma non ultima, si rendeva necessaria la ricomposizione, specialmente negli alti ranghi, tra i militari che avevano aderito alla RSI e quelli che erano rimasti con il governo del Sud. In pratica un opera di “pacificazione”, dove però e con il tempo la componente ex RSI sarebbe stata dissolta, relegata a funzioni meramente reducistiche, più che altro attraverso elargizioni di qualche riconoscimento morale, economico e pensionistico, perchè era implicito in partenza che le Istituzioni, partorite dalla Resistenza, grazie alle truppe Alleate, sarebbero state democratiche e antifasciste.
In un secondo momento, constatato che il nascente MSI, presentatosi su basi di destra, nazionaliste e qualunquiste, si stava assestando verso una percentuale interessante, anche se decisamente minoritaria di voti, la sua funzione divenne oltremodo utile per avere un serbatoio di riserva, una ruota di scorta per la DC, come risorsa in momenti di crisi, alchimie politiche, per esercitare pressioni verso i suoi alleati di governo o per fronteggiare gli avversari, in località problematiche.
Insomma, per il MSI era stato ritagliato un ruolo politico miserevole, subalterno a quei poteri e quelle forze conservatrici che lo avevano creato. E questo ruolo lo mantenne per tutti i suoi 50 anni di vita.
Questo andazzo lo si percepì subito, quando nel novembre 1947, i primi tre eletti missisti alle amministrative (a quella prima sua uscita elettorale il MSI prese 24,600 voti), per il Comune di Roma, misero i loro voti a disposizione per la elezione del sindaco democristiano Rebecchini.
In quello stesso novembre Lando Dell’Amico, un giornalista addentro a vari segreti dei partiti e della Repubblica, scrive su “La Repubblica d’Italia” una nota sulla sua espulsione dal MSI, definendone i dirigenti:
«due dozzine di gerarchi ottusi, alleati con la Democrazia cristiana, con la monarchia e con gli americani [che] non vanno confusi con una massa di giovani onesti, disinteressati, leali e repubblicani».
Ancor più, come ricorda Vinciguerra nel suo articolo “Una diversione strategica: il MSI”, alle decisive elezioni del 18 aprile 1948 (lo testimoniò il missista Gianni Roberti), nelle famiglie dei missini venne data l’indicazione di spartire i voti tra il proprio partito e la DC, ritenuta una congrua “diga al comunismo”, veicolando lo slogan: «Chi vota DC vota bene, chi vota MSI vota meglio» e fornendo anche squadre di attivisti per consentire ai democristiani di affiggere manifesti e fare propaganda sostenendo gli scontri con i comunisti.
A proposito di quelle elezioni, come riporteranno le cronologie il 18 aprile 1948:
«a Sedegliano (Udine), elementi dell’organizzazione ‘O’ fra i quali Turco Franco Florindo, reduce della RSI e iscritto al MSI, piazzano le mitragliatrici nelle case poste di fronte ai seggi elettorali, in collaborazione con i carabinieri locali».
Come vedesi il ruolo da truppe cammellate era iniziato ben presto.
E tutte queste componenti reazionarie e conservatrici, attraverso la nascita del MSI, colsero in pieno gli obiettivi che si erano prefissi:
Gli americani, oltre ad un serbatoio di manovalanza varia, ben “filtrata” e garantita, per le loro future “Gladio” (all’uomo ulteriore selezione venne successivamente realizzata attraverso la creazione di Ordine Nuovo), si assicurarono anche uno strato di popolazione, deviata, distorta, rincoglionita dai dirigenti missisti, che si facesse paladina del loro cosiddetto “mondo libero” e del Patto Atlantico, spacciando una vera e propria colonizzazione del paese, come un baluardo atto a impedire che «i cavalli dei cosacchi venissero ad abbeverarsi in Piazza S. Pietro».
Gli interessi industriali e la borghesia trovarono le loro guardie bianche in questo partito che, messi in sordina gli ideali rivoluzionari di Mussolini, sulla socializzazione e altri aspetti sociali “sconvenienti”, ridisegnò una sua politica economica e sociale, oltretutto sulla carta, di carattere meramente “corporativo” e, di fatto, sostanzialmente conservatrice (le cronologie riportano che il che l’11 febbraio 1948 «a Roma, una nota al ministero degli Interni registra alcune informazioni circa i finanziamenti al MSI e alla sua attività paramilitare: «un importante accordo concluso tra il MSI e alcuni industriali dell’Alta Italia, già sovvenzionatori del fascismo … per l’apporto di fondi per un maggiore incremento dell’organizzazione del movimento»; nonché la creazione «a Roma di una brigata composta di ex combattenti ed elementi fascisti per la difesa esterna della capitale contro gli attacchi comunisti», affidata al comando di un ex console della Milizia»).
Passato il dopoguerra e cessato del tutto il pericolo “rosso” per gli industriali, andò anche a finire che la funzione di guardia bianca degli interessi capitalisti, da parte dei missisti, non era più necessaria, anzi era sconveniente, perchè la grande Industria mirava ad una sua razionalizzazione ed espansione anche sui mercati esteri e quindi rapporti e contatti anche con i sindacati di sinistra, del resto oramai “democraticizzati”. Cosicchè questo scomodo e ripugnante partito, l’Industria che conta, proprio non se lo filerà più e il MSI dovette accontentarsi di essere al servizio della piccola e media borghesia.
Il Vaticano, a cui in genere poco andava di sporcarsi le mani con i missisti, non disdegnava comunque la loro presenza e la loro funzione, tipicamente borghese con tutta la retorica “Dio, Patria e famiglia” e simili, per non parlare della difesa ad oltranza che il MSI portava avanti per il Concordato. Patti Laternanesi che oramai non avevano più alcun motivo di perpetuarsi visti, oltre ai presupposti politici che li avevano partoriti, gli onerosi costi per la Nazione e il venir meno della controparte quale un vero Stato Nazionale come poteva esserci nel ventennio.
Significativo che il 21 gennaio del 1950 il giornale “Lotta politica”, organo del MSI, informerà che Pio XII aveva ricevuto in udienza una delegazione del Movimento femminile italiano, benedicendone l’attività.
DC e Pacificazione dei militari. Dei vantaggi assicuratisi, con la nascita del MSI, dalla Democrazia Cristiana, abbiamo detto, così come per l’opera di ricostruzione delle FF.AA., pacificando gli ex nemici, repubblichini e militari del Sud (fenomenale fu un manovra, anche a proprio vantaggio elettorale. di Giulio Andreotti recatosi nel 1952 ad Arcinazzo romano ad abbracciare Rodolfo Graziani).
Non resta che sottolineare come ogni componente rivoluzionaria del fascismo venne dissolta e al suo posto subentrò decisamente la componente “nazionalista”, borghese, la ex Salò tricolore ancor più “cloroformizzata” e annacquata, in sintonia totale con vari settori delle FF. AA., dimenticandosi che erano nate dal tradimento badogliano e che ora erano inquadrate e subordinate nel sistema NATO nostro colonizzatore.
E anche questa “sintonia”, questa affinità di intenti che portava il missista a simpatizzare spontaneamente con la”divisa” e l'”uomo d’ordine”, in nome dell’anticomunismo (e specifichiamo in un clima e in un ambito del tutto diversi da quelli dei fascisti del 1919, che agivano con presupposti rivoluzionari in una nazione sufficientemente indipendente e vittoriosa), ritornava poi opportuna quando lo Stato Maggiore, come diversivo strategico e attraverso i suoi Servizi, aveva necessità di “arruolare” i neofascisti per compiti reazionari, se non “illegali”, simili a truppe cammellate a difesa delle Istituzioni antifasciste e della NATO.
Il “neofascista” delatore, colluso con i Servizi, con i Commissariati o i Carabinieri, nasce, oltre che per corruzione, proprio da questa affinità “ideale” con l'”ufficiale”, con l'”uomo d’ordine”, da un malinteso spirito nazionalista e borghese.
E tutto questo doppiogiochismo del partito è anche sottolineato dalla scelta fatta dai missisti di eleggere a nome e simbolo del nuovo partito la fiamma tricolore che, come ricorda ancora Vinciguerra, era il simbolo del Movimento Sociale Francese, MSF, movimento conservatore che raggruppava principalmente ex combattenti, ed in cui, ovviamente, quel “Sociale”, nella denominazione di questi partiti reazionari, era solo uno specchietto per le allodole.
Se qualcuno pensa che stiamo esagerando, che le cose non stanno propriamente così e che magari ci sono anche stati momenti e iniziative missiste di genere diverso e in sintonia con il retaggio sociale della RSI, se lo tolga dalla mente.
Per avere la certezza del ruolo reazionario del MSI, esclusa qualche iniziativa e qualche intervento del tutto sporadico se non retorico o subdolo, basta andarsi a leggere la collezione del Secolo d’Italia e, se possibile, andarsi a recuperare le mozioni, gli atti e gli interventi parlamentari che riguardano mezzo secolo di storia del MSI, per avere la certezza che questo partito ha SEMPRE operato in senso antinazionale in conseguenza della sua subordinazione agli Stati Uniti, e in senso anti socialista (intendendo per socialismo quel patrimonio di Leggi, di ideali e di programmi del fascismo, soprattutto quello repubblicano) in ossequio alla sua acquiescenza e complicità con la borghesia e il mondo industriale.
È veramente raro che ci sia stata qualche iniziativa geopolitica nell’interesse dell’Italia, qualche necessità di praticare una via “terzo mondista” per alleviare un poco il cappio Atlantico che, contro i nostri interessi, era stretto al collo del paese, che non abbia visto il MSI o suoi esponenti di traverso, ovviamente con la solita scusa che si “apriva” ai comunisti o agli amici dei sovietici.
Niente, il partito perseguiva prevalentemente scelte politiche, sociali ed economiche di stampo borghese e tutte le posizioni di politica internazionale di subalternità al quadro atlantico.
Ed era tutta da ridere, se non ci fosse da piangere, assistere negli anni a come questi esponenti missisti, spesso delusi dagli americani (usi a perseguire gli interessi USA anche tramite accordi segreti con i sovietici, nello spirito di Jalta), si disperavano e si strappavano le vesti, pretendendo di insegnare loro, agli americani, come ci si doveva comportare con i “rossi”.
Così come quando nel 1985 il presidente del Consiglio Craxi (che pur precedentemente aveva operato in senso filo americano rispetto alla faccenda dei missili da installare nella nuova base di Comiso in Sicilia) ebbe un alzata di orgoglio, che forse in futuro gli costò l’esilio e la morte, e si oppose alla prepotenza e ingerenza sul nostro suolo degli americani a Sigonella (un evento quello che, se subìto, avrebbe anche messo in pericolo la credibilità del governo Craxi verso i paesi arabi): Craxi ovviamente si trovò di traverso, nel suo governo, il “confratello” Spadolini e fu investito da veementi attacchi del parlamentare missista Mirko Tremaglia, mentre il MSI, preso dalla volontà di sostenere gli americani e il suo ipocrita “nazionalismo”, si lacerava tra sconcerto e polemiche.
Oggi, molti storici e politologici hanno giustamente valutato che se proprio vogliamo avere un termine di paragone con la politica del fascismo, al suo senso dello Stato, ritroviamo più “fascismo”, in alcuni sprazzi di politica, confacenti agli interessi geopolitici nazionali, in uomini di governo come Enrico Mattei, Amintore Fanfani, Aldo Moro o Bettino Craxi e forse persino Andreotti, tanto per citarne alcuni, che fascisti non erano, anzi erano decisamente antifascisti, che non in Michelini o Almirante. Il ché è tutto dire!
Penoso è stato anche l’accennato “mutamento genetico” determinatosi nella base di questo partito, nel suo elettorato, mano a mano abbandonato dai reduci veri fascisti repubblicani e schifato dagli italiani sensibili, intelligenti e perbene che non si facevano ingannare dalle esternazioni forcaiole di Almirante.
Si iniziò con un apparentamento con il movimento conservatore dell’Uomo Qualunque e frange reazionarie del paese, si proseguì con questa fiamma tricolore che con la sua politica, la sua propaganda, di giorno in giorno, estirpava dal suo mondo, come i petali da una margherita, gli ideali del fascismo, che obbligava i suoi aderenti a parteggiare in ogni campo per gli americani, magari per quelli più conservatori e di destra (famoso nei primi anni ’60 l’appoggio missista dato al miliardario candidato americano repubblicano Barry Goldwater, o gli squallidi manifesti affissi dai missisti per accogliere nel 1968 Nixon a Roma), a sostenere la NATO, ad opporsi a qualunque seria rivendicazione sociale, con la scusa dell’anticomunismo, fino ad arrivare a mettere nelle sezioni le bandiere dei Colonnelli greci e della macelleria cilena di Pinochet e a far accettare come Presidente del partito il monarchico Covelli e l’ex Badogliano, Ammiraglio NATO, Birindelli.
A tutto questo si aggiunga il disgustoso esempio dato durante ogni elezione, dove questi vomitevoli candidati missisti spendevano e spandevano a piene mani per le loro campagne elettorali “all’americana”, ovviamente personalizzate (ci tenevano, perbacco al posticino parlamentare o Comunale!) e si cimentavano in squallide e cannibalesche lotte intestine. Rinomate furono a Roma e in provincia le contrapposizioni “elettorali” dei Turchi, padre e figlio Luigi, con il clan di Caradonna, ma ridicola, penosa e ancor più squallida fu la megalitica campagna elettorale di tal Ernesto Brivio, autodefinitosi l’ultima raffica di Salò, che poi dovette scappare e rifugiarsi in Libano per truffe reiterate e fallimento.
Questo era il MSI ed è facile capire come, negli anni, possa essere cresciuta e deformatasi la sua base e che genere di soggetti si vennero poi a iscrivere e simpatizzare con questo partito. Per vederne gli epigoni, non avete che da recarvi a qualche party o comizio delle attuali destre.
Nessuno pretendeva la rivoluzione
Allargando il discorso e prevenendo certe obiezioni, si può tranquillamente sostenere che nessuno pretendeva la ricostituzioni di un partito fascista, tra l’altro vietato dalle Leggi immediatamente introdotte dai “liberatori” e quindi dalla Costituzione e neppure si poteva pretendere che questo partito scendesse sul piano rivoluzionario, stante la presenza americana e il quadro internazionale per il quale, se una rivoluzione era preclusa ai comunisti, tanto più lo sarebbe stata per i fascisti.
Preso atto della situazione del momento, i vincoli coercitivi e le necessità di “tornare alla vita” dei reduci fascisti, nessuno si sarebbe scandalizzato se esteriormente certi programmi rivoluzionari del fascismo repubblicano si fossero annacquati, certi programmi camuffati per ragioni tattiche, diluendoli nel tempo a seconda delle possibilità che si sarebbero presentate in futuro, a patto però che la classe dirigente di questo partito avesse mantenuti integri certi ideali e soprattutto avesse manifestato la ferma volontà di perseguirli.
Viceversa non solo il MSI nacque con intenti subdoli, ponendosi al servizio dei peggiori nemici del fascismo, occupanti compresi e quindi la sua attitudine politica, non poteva che essere contro gli interessi nazionali, ma per realizzare il “grande inganno” questo partito fece l’esatto contrario, ovvero procedette a ritroso come il gambero, annacquando, eliminando, distorcendo, uno dopo l’altro gli ideali del fascismo che in un primo momento non poteva del tutto ignorare. In pochi anni il gioco era fatto, molti veri fascisti si erano allontanati schifati e il partito era divenuto un vero e proprio antifascismo camuffato da “neofascismo”.
Sarebbe stata certamente possibile la creazione di un partito, riferimento per i reduci della RSI che agisse nell’ambito costituzionale senza assumere le vesti, le ideologie e le attitudini via, via sempre più marcate, del conservatorismo e della reazione.
Sarebbe bastato, per non tradire il fascismo repubblicano e soprattutto per assolvere ai sacrosanti compiti di una rinascita nazionale, che il nuovo partito si fosse investito, sia pure con tutta la tattica necessaria, di alcune attitudini politiche e che si facesse portatore di legittime e sacrosante istanze.
Ne citiamo, generalizzando, un paio assolutamente indispensabili e irrinunciabili, paragonando, al contempo, con quello che invece andò a fare il MSI:
primo: sul piano politico questo partito, che si definiva continuatore di quello che il fascismo aveva rappresentato per la rinascita della Nazione, avrebbe coerentemente dovuto assumere posizioni, sia pure duttili, ma consone agli interessi geopolitici nazionali e quindi sostenere con forza tutte quelle rare iniziative che cercavano di trovare un ruolo e una “terza via” internazionale all’Italia, in particolare nell’abito mediterraneo, con riflessi nel medioriente e in sintonia con i paesi Arabi, e risorse energetiche (soprattutto petrolio, ma anche nucleare) autonome per il nostro paese.
Non c’era infatti da rivendicare solo Trento e Trieste e si sarebbe agito in sintonia con i veri interessi geopolitici della nazione.
Ed anche qui, invece, la posizione ultra Atlantica di questo partito, appositamente nato con perfidi fini, fu un costante boicottaggio di tutte le aperture terzomondiste (non si deve dialogare con gli amici dei sovietici, si giustificavano) e di tutti i tentativi socio economici di emancipazione dal ruolo subalterno in cui la nazione era costretta, ma che ovviamente ledevano gli interessi anglo americani.
Forte, decisa, convinta e praticata sul campo, del pari, avrebbe dovuto essere la lotta all’atlantismo, il rifiuto di considerarsi parte del cosiddetto “mondo libero”, tra l’altro sul piano culturale ed esistenziale il peggior “nemico dell’uomo” e delle nostre tradizioni europee, un “mondo libero” che invece i missisti, per farlo “digerire” ponevano in demenziale contrapposizione ai cosiddetti paesi “oltrecortina” ove i “comunisti mangiano i bambini”.
Negli anni ’50 un poeta e uomo di teatro coreano, vedendo come era stato trasformato il suo paese, la Corea del Sud, dall’invasione americana, scrisse più o meno questa sacrosanta verità, che si sarebbe poi ripetuta dovunque fossero arrivati questi miserabili yankee: “dopo soli sei mesi di presenza delle truppe americane, il mio popolo era irriconoscibile, le sue tradizioni in pericolo, il vizio, le droghe, la corruzione, dilagavano”. Questo tanto per rendere un idea di quello che veramente costituiva l’americanismo con i suoi jeans, chewin gum, Coca Cola e democrazia, tanto difeso dai missisti.
Proprio i fascisti, gelosi custodi dell’indipendenza nazionale, avrebbero dovuto essere i primi ispiratori e agitatori delle manifestazioni contro la NATO e contro le criminali aggressioni statunitensi, come quella nel Vietnam. E non il PCI che assumeva questo ruolo, prevalentemente, in ossequio alle politiche di Mosca.
Ed invece il MSI, sempre in primo piano quando si trattava di andare a contestare e manifestare contro i Sovietici, arrivava addirittura a sostenere i criminali d’Occidente e le loro guerre d’aggressione. Se avesse invece intrapreso la strada dalla lotta all’Occidente e alla NATO, la decisa contestazione anche ideologica della “american way of life”, molto probabilmente si sarebbero anche ridotte al minimo le ingerenze, le collusioni e gli arruolamenti nei Servizi di farabutti che poi, nell’infame periodo della “strategia della tensione”, videro tanti personaggi di tutta quest’area politica, in qualche modo implicati, se non sporcarsi le mani, controllati e arruolati come erano, dalle Intelligence occidentali, per utilizzarli nella loro “guerra non convenzionale”.
Secondo: era dovere di questo partito, riaffermare e farsi portatore della necessità delle riforme socializzatrici, spiazzando in tal modo gli stessi partiti di sinistra che le avevano svendute, di una ricomposizione socialista dell’economia e del sociale.
Del pari, nei posti di lavoro, il partito doveva assumere la tendenza ad organizzare e ispirare le sacrosante lotte dei lavoratori, che di colpo, con l’avvento della democrazia liberista, erano stati riportati indietro di anni nelle loro conquiste e ben sappiamo che resistenze fece, soprattutto la piccola e media impresa, quando dopo il boom economico degli anni ’60, stava incrementando i guadagni, ma i salari e le garanzie dei lavoratori non procedevano di pari passo.
Ed invece, in questo ambito sociale, il MSI assunse un posizione ibrida, fatta di enunciati del tutto retorici, ma di fatto perfettamente in sintonia con gli egoismi più retrogradi del capitalismo.
Nel 1950, attraverso il deputato, avvocato missista del collegio di Napoli Gianni Roberti, che poi finì la sua carriera politica nelle fila della Democrazia Nazionale (gruppetto di deputati sottratti al MSI, al tempo si insinuava “comprati”, dalla DC negli anni ’70) arrivò a mettere in piedi la CISNAL, una specie di sindacato da pseudo “destra sociale” che dire “giallo” neppure rende l’idea, visto che la sua presenza tra i lavoratori era oltretutto inesistente, se non attraverso iscrizioni racimolate nelle sezioni del partito e spesso con manovalanza utile al piccolo padronato che se ne serviva per boicottare, anche sul piano fisico, le lotte dei lavoratori sostenuti dai sindacati tradizionali.
Non pochi furono i reduci del fascismo repubblicano che di fronte a questa squallida realtà, ritennero più consono alla realizzazione di certi ideali e programmi sociali, di entrare nel partito comunista. Non fu un fenomeno da poco, anche se poco se ne è parlato. Nel 1949 il giornale Candido di Guareschi, preoccupato dal numero di ex repubblichini che passavano con il PCI, accettando l’invito fatto da Togliatti, pubblicò una serie di vignette satiriche in proposito. E molti di questi reduci della RSI andarono a costituire quadri dirigenti sindacali o a fare i funzionari di partito nel PCI.
Caradonna emblema del missismo
Giova accennare anche ad un paio di testimonianze dell’ex deputato missista Giulio Caradonna, per cogliere appieno quello che è stato il MSI.
Se non proprio tra i fondatori, Giulio Caradonna, ebbe comunque un importante ruolo nella storia missista, ma tanto per comprendere in che clima di dissolutezza e imbecillità furono cresciuti i giovani di questo partito e al contempo come agli avversari facevano comodo alimentare un certo “immaginario collettivo”, ricordiamo che ai tempi Caradonna veniva spacciato come un “picchiatore”, anzi il capo dei picchiatori per antonomasia.
«Se la corrente elettrica è la corrente forte, chi tocca Caradonna: pericolo di morte» erano le demenziali strofette che giravano tra i giovani attivisti di sezione negli anni ’60. Come sia nata questa “leggenda metropolitana” non si sa, ma ovviamente agli avversari, a cui faceva comodo questa figura di “fascista da film”, come spesso fu definita, non pareva vero alimentare tali dicerie, nonostante che lo stesso Caradonna finì per confessare che lui tutto poteva essere stato tranne un picchiatore essendo per giunta un grande invalido a seguito di un incidente.
Di Caradonna, di cui si sussurrava, come poi fu confermato, che fosse un massone, si diceva, che quando i veri fascisti della Federazione Nazionale Combattenti della RSI, nel 1967, affissero manifesti in favore della lotta del popolo arabo aggredito dai sionisti, in Direzione del MSI, egli andasse su tutte le furie.
Pochi anni dopo, precursore ante litteram di tanti altri suoi sodali, si recò al Museo dell’Olocausto di Gerusalemme per deporre una corona di fiori.
Sintomatico, per capire certe “evoluzioni” storiche, quanto ebbe successivamente a confessare Caradonna: raccontò che per convincere ed anzi spostare ancor più a destra i reduci del fascismo repubblicano, che di destra non erano, tornavano utili gli scontri con i rossi. «Più questi attivisti si picchiavano con i social comunisti, disse, e più ci si spostava a destra» (testimonianza reperibile sul periodico “Italia Tricolore per la terza Repubblica” edito a Ravenna).
E a questo perfido gioco si prestarono di sicuro anche gli avversari a cui faceva comodo a tutti che ci fosse un partito, che ben sapevano non era fascista, ma che fosse spacciato come tale.
E il prezzo di questo infame stillicidio, facciamo notare, lo pagarono tanti camerati, visto che in quei turbolenti anni, come si apriva una sede del partito o si teneva un comizio in zone “calde”, subito avvenivano aggressioni da parte dei comunisti e si innescava la spirale delle ritorsioni e delle vendette.
Tutto pane per il Sistema e per i farabutti che gestivano il MSI e che ci rimediavano lauti posti al parlamento o negli Enti locali o ruoli ben remunerati nel partito.
Ma ancor più Caradonna ebbe anche ad illustrare, in tutta sincerità, quale era stata la vera funzione del MSI, quando disse e le sue parole andrebbero scolpite nella pietra e messe al collo di tanti ingenui da rasentare l’imbecillità, soprattutto quelli che ancora ritengono che fu Gianfranco Fini a Fiuggi a rinnegare certe idee:
«Il MSI fu una grande operazione di Michelini e Almirante che ereditarono il fascismo anticattolico, antisemita e antiborghese, di Salò e ne fecero una forza conservatrice, filoisraeliana e filo atlantica».
Più chiaro di così.
La collocazione a destra
L’ovvia e perfidamente studiata sistemazione di questo partito fu quindi alla destra dell’aula parlamentare e chi si ribellò, e furono tanti, a questa decisione, gli venne fatto presente che «a sinistra c’erano i comunisti assassini», come se a destra ci fossero gli amici. Ma quella scelta era funzionale e preveggente verso il varo di un vero partito di destra reazionario e conservatore il cui penoso e ripugnante cammino finalmente si concluse nel 1995.
Avendo comunque scelto il MSI di partecipare al sistema elettorale era evidente che da qualche parte delle aule parlamentari gli eventuali eletti si sarebbero dovuti collocare. Ma era altrettanto evidente, per quello che aveva rappresentato il fascismo repubblicano, per il portato ideale e programmatico delle sue rivoluzionarie leggi socialiste, i parlamentari di questo partito si dovevano mettere e pretendere di mettersi, a sinistra, volenti o nolenti i comunisti.
Una collocazione a sinistra che non aveva niente di ideologico, tanto più che proprio il fascismo aveva superato le categorie egheliane “destra – sinistra”, ma non potendo i parlamentari del MSI sedersi sui lampadari, questa era l’unica scelta meno “inquinante” e più consona, considerando oltretutto che a destra vi erano i partiti conservatori e reazionari e soprattutto i monarchici, traditori della patria.
A sinistra, questi parlamentari, si sarebbero potuti battere contro gli occupanti occidentali, opporsi al futuro Patto Atlantico, difendere l’indipendenza del paese, sostenere riforme e iniziative socialiste nell’economia e tanti altri programmi ancora.
A destra invece … fate voi.
Conclusioni
E concludiamo questo articolo riportando le parole di F. Gaspare Fantauzzi, alto dirigente della Federazione Nazionale Combattenti della RSI, che espresse alcune osservazioni sul “neofascismo”:
«”Neofascismo” è un neologismo impropriamente usato per indicare il MSI e le sue articolazioni sindacali e giovanili, nonché altre minori organizzazioni esterne da esso direttamente o indirettamente dipendenti; impropriamente perché non esprime quel che vorrebbe significare. Ove si tenesse nel dovuto conto della sua funzione storica, dovrebbe essere più propriamente usato per indicare un neoantifascismo, per certi aspetti peggiore dell’antifascismo proprio del CLN. Nacque e fu alimentato dalla componente più anticomunista dell’antifascismo e visse di un anticomunismo acritico e viscerale. La sua fine coincise precisamente con l’autodisfacimento dell’URSS. In sostanza, si dissolse quando il suo padrone decise non essere più necessaria la sua funzione… Coloro i quali hanno una vera fede politica, religiosa, filosofica, ecc., in linea di principio, non respingono nessuno; anzi, sanno essere duttili, generosi e concilianti quando si tratti di giudicare inosservanze o errori commessi in buona fede. Quando, però, come è avvenuto nel Convegno tenutosi a Roma nel maggio del 1965 presso l’Istituto A. Pollio, l’intera intellighènzia neofascista passò alle dipendenze dello Stato Maggiore, al fine di ingannare i propri compagni di lotta e di concorrere ad assoggettare ulteriormente la Patria al nemico, allora è sacrosanto dovere l’essere inflessibili. L’indecorosa sagra di conformismo filoamericano alla quale oggi assistiamo, pone come condizione essenziale per stabilire e conservare rapporti autenticamente trasparenti, oltre ad una più salda tenuta etica, una reciproca spregiudicatezza di giudizio».
Possiamo quindi chiudere la penosa disamina di questo ignobile partito (ci si perdoni l’uso dei tanti aggettivi spregiativi, ma li riteniamo doverosi e necessari), esprimendo un paradosso, tra l’altro esternato spesso proprio dai fascisti della FNCRSI che erano usi affermare che se il MSI avesse effettivamente rappresentato gli ideali del fascismo e una politica fascista, allora tutti i veri fascisti non potevano che definirsi “antifascisti”!
BIBLIOGRAFIA
Forniamo appresso un minimo di bibliografia affinché sia possibile una ricerca e un confronto anche sui dati e sulle citazioni da noi riportate, consigliando ovviamente di estendere sempre la ricerca e di incrociare le varie fonti.
* Parlato Giuseppe: “Fascisti senza Mussolini”, Ed. Il Mulino, 2006
* Caretto Ennio e Marolo Bruno: “Made in USA. Le origini americane della Repubblica Italiana”, Rizzoli, 1996;
* Dolcetta Marco, “Politica occulta”, Castelvecchi, 1998;
* Pietrangelo Buttafuoco, “Le uova del drago”, Mondadori 2005
* Casarrubea Giovanni, Cereghino Mario, “Lupara nera”, Ed. Bompiani, 2009
* Santarelli Enzo, “Storia critica della Repubblica. L’Italia dal 1945 al 1994”, Milano, Feltrinelli, 1996
* Villano Alfredo, “Rodolfo Graziani fascista conteso”, Ed. Storia Ribelle, Biella 2011
* AA.VV., “Storia della FNCRSI”, Prestampa a cura della FNCRSI, 2010
* Sito FNCRSI: http://fncrsi.altervista,org – Sezioni: Notiziario, Periodici, Documenti.
* Archivio Guerra Politica: http://www.archivioguerrapolitica.org/ – Sezione Vincenzo Vinciguerra – Saggi e Articoli

* Fondazione Luigi Cipriani: Cronologia: http://www.fondazionecipriani.it

Tratto da: http://fncrsi.altervista.org/

Aggiunta da SOCIALE
Primo congresso del MSI.
http://pocobello.blogspot.it/2010/04/primo-congresso-del-msi.html

25 luglio 1943. L’inizio del tramonto della nazione


di: Valentino Quintana

Sono passati 70 anni da quando l’Italia fu gettata nel baratro. Perché, se l’otto settembre segna la data nefasta dell’ignominioso armistizio, del tradimento del’alleato, dello sfacelo delle forze armate, della disgregazione totale dello Stato, il 25 luglio rappresenta l’inizio di quel che avvenne 45 giorni dopo.
Quest’infausta data non fu altro che una gravissima crisi in cui egoismi, sordi rancori, obliqui interessi personali e materiali tentarono, sacrificando ignobilmente la Patria, di prevalere sugli interessi vitali della Nazione e sui diritti fondamentali del popolo italiano.
Al centro della congiura, ci fu la corona. Come Vittorio Emanuele stesso aveva dichiarato ad un giornale americano, egli voleva “farla finita col Fascismo”.
E’ molto probabile che pensasse di salvare il regno, vista la difficoltà con cui abdicò molto tempo dopo, consigliato dallo stesso Benedetto Croce e da tutti i rappresentati del governo Bonomi.
Tuttavia, gli stessi nemici lo avevano categoricamente ammonito che le sorti della monarchia fossero inscindibilmente connesse con quelle del Fascismo.
In un volume di circa 800 pagine, minuziosamente informato su La Chiesa e lo Stato nell’Italia fascista, un ben noto Professore dell’Università di Dublino dell’epoca, D.A. Binchy, aveva affermato l’anno precedente: “Aderendo alla politica dell’Asse e alla guerra a fianco della Germania, Casa Savoia ha dimostrato la sua convinzione di dover seguire la sorte del Regime fascista. il re e suo figlio non possono sperare di sopravvivere sia pure di cinque minuti, a Mussolini”.
Ma poco prima del 25 luglio gli anglo – americani avevano insinuato nell’animo di tanti italiani, facilmente disposti a dimenticare la secolare perfidia britannica, che l’Inghilterra, l’America e la Russia non stessero facendo la guerra all’Italia, ma al Fascismo, e le più rosee speranze potevano essere concepite, le più serene prospettive potevano aprirsi per il popolo italiano.
Così, una catena di inganni e di tradimenti si creò, tra i nemici, la monarchia, lo stato maggiore, un gruppo di gerarchi fascisti, alcuni ceti plutocratici. Ed essa portò al 25 luglio e da lì all’otto settembre.
Tutti furono atrocemente ingannati dal nemico, tutti si ingannarono e si tradirono a vicenda, ciascun gruppo sperando di salvare se stesso, incurante del destino degli altri, e tutti insieme assolutamente sordi ad ogni richiamo della Patria.
Come ha ricordato poche settimane fa, in uno speciale sul Corriere della Sera circa il 25 luglio Paolo Mieli, portando tre testimonianze di protagonisti del 25 luglio, poi sopravvissuti, ognuno di loro aveva sentito il bisogno di tornare a Roma per partecipare a quella riunione, quasi sentisse una voce misteriosa che li comandasse. Salvo poi purtroppo trattarsi di un suicidio inconsapevole dell’intera nazione.
Si vide così un re, che dal Fascismo aveva avuto tre corone, il titolo di imperatore e di re d’Albania, e che solo per virtù di quella forza politica aveva potuto mantenere saldo – e accrescere in prestigio e splendore – il torno già pericolosamente vacillante dopo la guerra vinta a beneficio altrui, rinnegare d’un tratto vent’anni di solidarietà, di legami intimi, di gratitudine ripetutamente e apertamente manifestata al Regime Fascista, gettando alle ortiche Mussolini come un’insopportabile zavorra.
Si vide così un soldato, che durante il ventennio era stato dal Fascismo nominato ambasciatore, governatore, capo di stato maggiore generale, Maresciallo d’Italia, marchese del Sabotino, duca di Addis Abeba, assumere il potere con lo scopo di distruggere immediatamente il Fascismo, consegnare Mussolini al nemico, tradire l’alleato con il quale aveva fatto combattere le forze armate italiane.
E – cosa incredibile per un militare – precipitarsi a chiedere non l’onore di risollevare con le armi, combattendo fino all’ultimo le sorti della Patria in guerra, ma l’onore della resa a discrezione, la capitolazione senza condizioni, cioè l’atto che per chiunque sarebbe stato un castigo indicibile, e che per un soldato, coi titoli nobiliari vantanti, sarebbe stato più grave della morte.
Si videro così uomini che dal Fascismo erano stati portati ai più alti onori e alle massime responsabilità, che tutto ripetevano da Mussolini, senza il quale sarebbero stati oscuri numeri nella massa, tradire il loro Capo, abiurare al loro giuramento, mancare ai loro doveri verso la Patria, verso il popolo, verso sé medesimi e farsi strumento della trista congiura, fornire al re il pretesto “costituzionale” di “farla finita col Fascismo”.
Si videro capitalisti, che dal Regime avevano avuto la pace sociale e la tranquillità dei loro averi, clero, che solo da Mussolini aveva visto finalmente riconciliati, Stato Maggiore che dal Fascismo era stato ricreato dopo il misconoscimento del dopoguerra, far parte della congiura e aprire al nemico le porte d’Italia, perché, come la documentazione contenuta nella Storia di un anno dimostra inoppugnabilmente come si sia voluto il nemico in casa, ci si sia lasciati invadere in Sicilia dalle truppe angloamericane per abbattere il Fascismo.
Tanto è accaduto il 25 luglio di 70 anni fa.
Il popolo italiano può comprendere ancora oggi i risultati di quella tragica data, che non fu solamente un tradimento nei confronti di Mussolini e al Fascismo, ma come i terribili eventi hanno poi dimostrato, fu un qualcosa di perpetuo ai danni del popolo, che ha visto le sue terre e le sue case devastate dagli orrori delle guerra fratricida, le sue conquiste, le sue speranze, il suo avvenire distrutti, il suo onore calpestato, la sua unità nazionale, in un secolo di Risorgimento raggiunta, spezzata, tutto il suo territorio occupato dal nemico a sud, dall’alleato a nord, la sicurezza della sua esistenza che riposava sullo Stato e sulle Forze armate, finita, il caos, l’odio, la miseria, l’abisso prendere il posto di quell’Italia il cui volto materiale e morale era stato trasformato nei venti anni dal Regime e che veniva ammirata dal mondo intero.
I responsabili del 25 luglio, coscienti o meno, compirono un crimine di lesa Patria che non ha eguali nella nostra storia, salvo la riunione del Panfilo Britannia.
Essi consegnarono l’Italia, mani e piedi legati, al nemico, il quale aveva voluto la testa del Fascismo, per ottenere quella dell’Italia.
Il nemico sapeva infatti, più e meglio di noi, che il Fascismo rappresentava la forza più temibile della Patria, e solo abbattendolo si poteva avere ragione dell’Italia. Ciò è stato evidenziato anche nel libro «Husky», di Casarrubea & Mario J. Cereghino, appena dato alle stampe con documenti segreti.
Ed è giusto ricordare anche quanto scriveva il Corriere della Sera il 4 agosto 1943, durante l’amministrazione badogliana, subito deluso dalla terribile piega che gli avvenimenti stavano prendendo, dopo l’incosciente euforia dei primi momenti: «i nemici andavano ripetendo che essi facevano la guerra al Fascismo e non all’Italia. Il Fascismo è caduto – che cosa hanno allora offerto all’Italia? Nulla, fuorché una vaga promessa di generosità, logoro “guanto di velluto” sopra il pugno di ferro della “resa incondizionata” non del Governo e dell’Esercito soltanto, ma dell’Italia. L’Italia ai piedi del vincitore, disfatta e anelante nell’attesa di una sentenza di cui non le è concesso misurare il peso e limitare l’estensione. I nemici vogliono l’Italia. L’Italia non più fascista, l’Italia arresa a discrezione, disonorata dalla fuga verso le ginocchia del nemico trionfante e di questo disonore compensata, non già con quel sollievo fisico che si concede sprezzantemente ai più deboli, ma con un atroce ricrudimento di tutte le sue sofferenze. Il nemico ci vuol consegnare fiaccati e avviliti alla storia perché i nostri figli e quelli che verranno da loro abbiano a vergognarsi di noi e aggravare la nostra memoria del male commesso con una resa incondizionata».
Questo, che gli stessi avversari del Fascismo così lucidamente prevedevano doveva accadere per opera del re e di Badoglio un mese dopo. Le clausole dell’armistizio che il Governo di Bonomi rivelava al popolo italiano, potava all’ignominioso otto settembre.
Furono gli stessi antifascisti, i “più bei nomi” del fuoriuscitismo italiano in America, alcuni dei quali già muniti di cittadinanza americana, che comunicarono quali fossero gli scopi e quali fossero stati i risultati dell’armistizio “elargito” dagli angloamericani al nostro Paese.
Basti leggere la rivista dell’epoca Life, per leggere le firme dei vari Toscanini, Salvemini, Borgese, e capire già in quel momento quanto fossero eloquenti quelle parole: «Da qualche tempo è attesa una dichiarazione nella quale la Gran Bretagna smentisca ufficialmente le voci che l’Ammiragliato britannico, sotto il pretesto del separatismo regnante in Sicilia, spinge l’Inghilterra ad assumersi il controllo della Sicilia. La Sicilia è più italiana di quanto la Scozia e il Galles non siano inglesi. Inoltre si richiede una dichiarazione, nella quale si dica che la Gran Bretagna e gli Stati Uniti non intendono separare territori e città dall’Italia, come sarebbe il caso di Trieste».
Peccato che il diktat del 10 febbraio del 1947 separerà definitivamente l’Istria, parte della Dalmazia, Fiume e il Carnaro all’Italia.
Quanto alle terre dell’ex Impero Italiano in Africa, il documento del Life dichiarava che l’Italia vi avrebbe rinunziato a patto che anche gli altri Stati coloniali avessero fatto altrettanto nei riguardi dei propri possedimenti, da porsi tutti sotto il controllo di una consociazione internazionale.
E il manifesto, concludeva: «Al popolo italiano non è stato dato nulla e non è stato promesso nulla, eccetto il sarcasmo unito alla schiavitù. In fondo l’Italia è la vittima che deve pagare ogni cosa. All’Italia è stato imposto un armistizio così vergognoso che le parti contraenti hanno accettato di tenerlo nascosto al pubblico. Le ceneri della vergogna sono state sparse sui resti di una Nazione. Per lungo tempo noi sperammo che la morte del Fascismo significasse la vita dell’Italia. Ora l’Italia sta morendo».
Il fatto che l’antifascismo lo abbia riconosciuto, è pur sempre cosa positiva.
Tuttavia, l’essere gli esecutori materiali della scomparsa dell’Italia e del suo Stato, nonché del suo ruolo del mondo è una macchia incancellabile nei secoli, per la quale ogni perdono è impossibile. E che cosa avrebbero poi guadagnato, gli esecutori di questo 25 luglio? Il re perse la corona, e al luogotenente del figlio non rimasero che le briciole di pochi giorni.
I traditori del Gran Consiglio scapparono, furono condannati in contumacia e altri furono processati a Verona.
Lo Stato Maggiore finì con lo sfacelo conseguente alle nefande condizioni armistiziali.
Plutocrazia, clero e altri si profilarono dietro la figura di Bonomi. Nonché l’agente di Stalin, Togliatti, il quale giunse in Italia sapendo perfettamente ciò che voleva, essendo uno dei pochi ad avere ai suoi ordini un partito organizzato ed armato.
Il popolo, tuttavia, comprese subito dopo le finte manifestazioni di giubilo dopo il 25 luglio, quali fossero stati gli amarissimi frutti del colpo di Stato.
Unico peccato, che non lo comprendano oggi, 70 anni dopo, vista la situazione, tragica altrettanto.

Quel 25 luglio è anche all’origine della crisi attuale –


di: F. e V.

Offriamoci un’ulteriore chiave di lettura (anche se non “politicamente corretta”), per non continuare questo millennio, nel modo peggiore rispetto a come si è concluso il precedente, cioè per non entrare in un altra crisi mondiale, prima di esserne completamente usciti da questa. Se è vero che dagli errori si impara.
Proviamo ad osservare Il 1943 come un anno di illusioni :
si illusero i congiurati del Gran Consiglio del Fascismo di salvarne il Regime, sacrificandone solo Mussolini;
si illusero il Re e Badoglio di tradire l’alleato senza pagare dazio;
si illusero i ragazzi a Salò di difendere l’onore d’Italia intera, combattendo purtroppo, anche propri fratelli;
si illusero i partigiani di sostituire la dittatura fascista con quella del proletariato, pensando di fare dell’Italia una repubblica socialista e ritrovandosi a sostenere prima la monarchia e poi il peggiore capitalismo di diritto anglosassone, dell’occupante americano;
si illusero infine gli italiani convinti che la guerra fosse finita, quando invece ne stava per iniziare una seconda, ben peggiore.
Tutto ebbe inizio il 25 luglio 1943 quando, con una deliberazione del Gran Consiglio del Fascismo, il Regime cessò.
Mussolini, che tutto voleva tranne la guerra civile tra italiani, pur potendo rigettare l’ordine del giorno del Ministro Grandi e far arrestare i congiurati, inspiegabilmente accettò il deliberato che lo esautorava di tutti i suoi poteri per essere trasferiti al Re.
Intanto Vittorio Emanuele III con i vertici delle Forze Armate, tramava per, come primo atto liquidarlo e poi passare dalla parte vincente, quella dei cosidetti “alleati ” , cioè forze nemiche alleate tra loro, e contro di noi.
Il responso del Gran Consiglio, contrariamente alle intenzione dei protagonisti (che di fatto si comportarono come utili idioti, per dirla alla Lenin), tornò utile al Re per dare una insperata veste istituzionale a quello che fu a tutti gli effetti un Colpo di Stato.
L’indomani Mussolini, rispettoso delle regole e convinto della correttezza di Vittorio Emanuele III, si presentò al monarca per rassegnare le proprie dimissione da Capo del Governo.
Il Re, il cui unico scopo era quella di salvare la corona e se stesso dal tracollo bellico, con un atto inconcepibile dal punto di vista istituzionale, lo fece sequestrare (e non ” arrestare ” in quanto ne mancavano i presupposti giuridici).
Tutti i poteri furono affidati ai vertici dell’esercito che instaurarono una specie di dittatura militare con a capo il Maresciallo Badoglio.
Del nuovo esecutivo nessun esponente politico ne faceva parte in quanto i partiti rimanevano fuori legge al pari del partito fascista, nel frattempo sciolto.
A parte qualche spontanea manifestazione di giubilo, derivante dall’equivoco che con la caduta del regime sarebbe finita la guerra, degli antifascisti e dei partigiani neanche l’ombra, li avremmo visti solo dopo al seguito delle vittoriose truppe alleate.
Il nuovo governo si affrettò a rassicurare l’alleato tedesco circa la fedeltà dell’Italia e il proseguimento della guerra e nel contempo avviò segreti contatti con gli angloamericani per passare armi e bagagli dalla parte del nemico, nella patetica illusione di uscire indenni da una guerra che volgeva al peggio.
L’8 settembre 1943 arrivò l’annuncio di Badoglio che chiamò “armistizio” (era resa incondizionata) , in realtà un tradimento: in 24 ore i ns. alleati tedeschi divennero improvvisamente nemici e gli invasori americani, “alleati”.
Il golpe non mutò le sorti del conflitto, non servì a lenire le sofferenze della popolazione civile che continuò a lungo a morire sotto i bombardamenti terroristici dell’aviazione angloamericana. Servì soltanto a scatenare l’ ovvia ira vendicativa di Hitler, l’unico vero potere a cui così, in quel momento, si cedette al padronanza assoluta del nostro Paese.
Con un rovesciamento schizofrenico del fronte e il passaggio dell’Italia dalla parte degli angloamericani (che faceva presagire ai reali una rapida e vittoriosa conclusione del conflitto), si riorganizzarono i vecchi partiti che tornarono al volo (soprattutto quello comunista che aveva mantenuto una sua struttura clandestina), ad essere protagonisti della politica italiana.
La guerra invece continuò per altri 18 mesi e nel conflitto tra eserciti, si inserirono i “partigiani” (nel senso di-parte “giusta”), oltre ai tanti in buona fede però, alcuni, già affermatisi prima, per rifarsi una verginità politica, altri comprensibilmente, per onorificenze usabili poi nella spartizione dei poteri. Altri ancora, renitenti, imboscati, delinquenti o solo vili, poterono anche travestirsi da eroi.
Ma le armi (e gli “istruttori” anglo-americani) arrivarono tramite la mafia statunitense, per intercessione dei cui emissari locali, interessati alla “ricostruzione” (e a nuovi assetti da scompaginare), questa spartizione fu pilotata dai nuovi sindaci, i capimafia emergenti.
Non ingaggiandoli al fronte, pur opposto, ma in imboscate occultate a tradimento, tra la popolazione, fu appunto guerra civile.
Il primo atto veramente politico fu la cancellazione delle norme sulla socializzazione delle aziende, che non si ipotizzò più, neanche su forma volontaria, poi si iniziò a privatizzare la Banca d’Italia (ora di faccendieri privati) e perfino l’emissione stessa della moneta.
La storia, apparentemente molto diversa, si è ripetuta anche in altre guerre, cui ci hanno fatto assistere in dirette televisive, sempre opportunamente ” mediate ” dall’eterno concetto dei cattivi nazionalisti e dei buoni liberatori.
Tra stragismi più o meno di Stato e strategie più o meno ” destabilizzanti ” (in realtà che più “restauranti” di così non si può), crisi ordite da banche d’affari, debitalismi speculativi, privatizzazioni e ” ripresine “, la nostra sovranità, condizionata dall’usura dei potentati economici e limitata dai più potenti oligarchi del potere finanziario, continua così ad asservire interessi mafiosi.
Non più quelli di chi “scorre le campagne in armi “, ma quelli della degenerazione finanziaria e speculativa del capitalismo “liberista” più spietato, becero, totalitario, imperialista e mondialista possibile .
I poteri dei mafiosi infatti, azionisti di banche d’affari, si sono potuti così astutamente “civilizzare”, traendo più profitti dalla “democratica”cessione dei ns. diritti civili alle S.p.A. finanziarie, che combattendo la Stato. Basta comprarne la nomenclatura.
Profittando fortune immense, con gli ipertecnicismi legalizzati degli strumenti speculativi e senza neanche dover più per questo, investire un soldo nell’economia reale, il loro vero enorme potere è la leva finanziaria del ” differenziale ” socio-politico-economico tra gli stessi Stati che, opportunamente ” liberati “, adottano il mercatismo liberista come modello politico prevalente.
Di contro la società civile si stà sempre più mafiosizzando, percependo il disvalore del mercimonio come fosse un valore, concependo la mercificazione della vita umana, nella logica bancaria, come una scienza. E facendola assurgere, col linguaggio criptico della tecnica (bancaria) in quanto matematica, a perfezione.
Tale cioè, da non poter essere per questo, neanche messa in discussione. Un ” pensiero unico ” ormai dominante, come una religione di Stati, disuniti, ma accomunati da un’unico Dio, il (loro) danaro, cui conferire anche l’anima. Ridotti In schiavitù per debiti , col diavolo , a vita.
Giocoforza dissentire. Ma non vi sarà ragione senza azione. Altrimenti saranno ancora illusioni .
 
(libera interpretazione dell’editoriale di Excalibur di luglio, firmato da Gianfredo Ruggero)

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Il primo lager della Storia? Fu inventato per i pagani

di: Sofia Giani Devi

Il primo lager della Storia? Fu inventato per i pagani.

Quando si parla di campi di concentramento vengono in mente quelli del Novecento in Germania e in Russia, ma anche l’Isola Calva (Goli Otok) nella ex Jugoslavia e i “fascist criminal camps” allestiti dai cosiddetti Alleati a Coltano (in provincia di Pisa), negli USA e in India: quest’ultimo, denominato “campo YOL” (acronimo di “Young Officer Lane”), è stato immortalato nel libro “Diecimila italiani dimenticati in India. La repubblica fascista dell’Himalaya” di Giovanni Marizza. I più esperti ricordano anche Andersonville ai tempi della guerra di secessione americana e Fenestrelle, istituito per i Briganti dopo il Risorgimento.
In realtà il più antico lager della storia risale a molto tempo prima. Fu allestito dai cristiani per i pagani e stava nella città di Scythopolis.
È molto complesso cercarne una bibliografia in proposito in italiano, esistono solo scarne indicazioni in inglese e per di più solo su qualche forum specializzato in Storia antica. Non si sa nemmeno la collocazione precisa della stessa città, alcuni sostengono in Siria, altri in Galilea. Elementi cronologici più precisi si trovano sul sito ufficiale di Vlasis Rassias, autore del libro “La demolizione dei templi” (“Demolish them !”, pubblicato nel 1994 ad Atene, con la seconda edizione nel 2000).
Dice testualmente: “Nel 359 d.C. a Scythopolis, in Siria, i cristiani organizzarono il primo campo di sterminio per la tortura e l’esecuzione dei Gentili [Pagani, ndA] da tutto l’Impero”. Ammiano Marcellino, esaminato dallo studioso Arnaldo Momigliano, scrive nelle sue “Res Gestae”: “La città che fu scelta per testimoniare queste scene fatali fu Scythopolis in Palestina, che per due ragioni sembrava il più adatto dei luoghi; in primis perché era poco frequentata e secondariamente perché era a metà fra Antiochia ed Alessandria […]”.
Il Codice Teodosiano era molto chiaro su questo punto: “I templi Pagani devono essere chiusi, l’accesso agli stessi è vietato e chi viola ciò potrebbe andare incontro alla pena di morte” (16.10.4), e poi: “Chi è colpevole di idolatria o sacrifici pagani può essere soggetto alla pena di morte” (16.10.6).
Come se non bastasse, “I privilegi religiosi sono riservati ai cristiani”. (16.5.1.)
Dopo Scythopolis, le persecuzioni contro i Pagani continueranno fino al 988, quando avvenne la conversione violenta – con la scusa che il Peloponneso era concepito come “una terra piena di demoni”- degli ultimi Greci Gentili di Laconia (i Manioti, che infatti non accettarono completamente il cristianesimo fino all’XI sec. d. C.) da parte dell’armeno Nicone il Metanoita, peraltro diventato santo patrono della città di Sparta, quella Sparta che con i suoi 300 sotto l’egida di Leonida già fronteggiò un’altra invasione da Oriente, ossia quella violenta di Serse nell’ambito delle Guerre Persiane.
Fortunatamente esiste ancora un tentativo di tornare alla “via greca agli Dei”, ossia il cosiddetto Dodecateismo: venerazione, quindi, dei Dodici Olimpi.
Anche le donne possono ricoprire alte cariche: esempio è Doreta Peppa, alta sacerdotessa dell’associazione “Ellinais”, che ha ribattuto la piena legittimità della religione dei dodecateici, bollati invece a torto come “un pugno di miserabili, riesumatori di una religione morta e degenerata che desiderano ritornare alle mostruose e oscure delusioni del passato” da parte di Efstathios Kollas, presidente dell’associazione dei sacerdoti cristiani ortodossi greci.
Ci sarebbe molto da ridire su quest’ultima affermazione, considerando che la civiltà Greca che ancora oggi si studia non è propriamente una “mostruosa e oscura delusione del passato”, anzi ! I suoi Ideali sono vivi ancora adesso e stanno nelle menti e negli animi di un pugno di uomini e donne ribelli, certo, con le opportune differenze rispetto ad allora. Cambiando completamente latitudine, è del 25 marzo 2010 la notizia che l’Irlanda, tornando alle sue Vere Radici politeiste, ha riconosciuto i matrimoni pagani, ossia la cerimonia dell’ “handfasting”.
Citando il collega di “Ereticamente” Belloni, “La Chiesa cattolica ha chiesto scusa a mezzo mondo: ebrei, negri e stregoni annessi, sciamani orientali, infedeli massacrati dai Crociati, Indios…. A tutti. Tranne che ai Pagani Europei. Su questi, silenzio assoluto, vero, Santità?” . Questa dichiarazione non può non far ricordare, tra le altre cose, il massacro di Verden, che consisteva nell’uccisione di 4500 pagani sassoni da parte di Carlo Magno; egli dichiarò la natura prettamente religiosa delle sue guerre contro di loro.
 
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Hitler e l’opportunismo italiano


di: Alfio Faro 

Riflessioni su un saggio pubblicato da “l’Uomo libero” sulle varie versioni del Mein Kampf.

“Caro dr. Sella,
 
Il Suo lungo articolo dedicato alle numerose edizioni di “Mein Kampf” mi trova convinto sostenitore delle Sue tesi. Anch’io posseggo due copie di “Mein Kampf”, entrambe falsificate e zeppe di errori. E’ evidente che vi sono numerosi tentativi di contrabbandare l’opera di Adolf Hitler da parte interessata a confondere le idee del lettore, specialmente in presenza di persone totalmente digiune di nozioni storiche contemporanee. Vorrei chiederle se “L’Uomo Libero” è in possesso di qualche copia autentica in vendita.
Concordo pienamente su quanto Lei afferma circa lo scarso, addirittura nessun interesse da parte del Duce sul fenomeno Adolf Hitler e la Sua prodigiosa scalata al potere, sostenuto dall’entusiastico consenso del Suo popolo.
Il “sussiego”, chiamiamolo così, del Fascismo e del Suo capo, rispetto a quanto stava avvenendo nel cuore dell’Europa durante gli anni del primo dopoguerra sono noti. Tragico errore. Ci voleva l’invito di A.H. a Mussolini a visitare il Reich perché il Duce si rendesse conto, sbalordito, di trovarsi davanti a un popolo determinato a cancellare l’infame Trattato di Versailles e del tutto pronto a dimostrarlo con i fatti.
Ma c’è di peggio. Nel 1939 l’orizzonte europeo era fosco di nubi tempestose. Mussolini era soddisfatto dell’esito della campagna etiopica e del successo conseguito con il nostro intervento in Spagna e prestava scarso interesse verso l’ evidente intenzione delle “democrazie” di regolare i conti con la Germania, di cui temevano il riarmo, e per raggiugere lo scopo di distruggerla istigavano la Polonia, che occupava una larga fetta di territorio germanico ed opprimeva i tedeschi residenti in Germania orientale con una autentica caccia all’uomo e decine di migliaia di vittime.
Per conseguire questo fine Inghilterra e Francia rilasciarono a Polonia, Cecoslovacchia e Romania la “cambiale in bianco” della garanzia di intervento se attaccate dalla Germania”, quindi escludendo tacitamente un eventuale attacco da parte dell’Unione sovietica. Finalmente il Duce si rese conto che era ora di scegliere da che parte stare dopo avere osteggiato la Germania per anni nella sua corsa all’Anschluss, unica soluzione per risolvere la crisi dell’Austria, accolta con un delirio di entusiasmo dal suo popolo.
Il riarmo italiano fu lento, insufficiente e portato avanti con scarso impegno, dopo l’inutile sforzo degli apprestamenti difensivi al Brennero (il confine al Brennero era stato l’ingiusto premio per l’intervento italiano nel 1915 – l’Italia era legata con gli Imperi centrali con un Trattato trentennale di alleanza!). Puntualmente come previsto, Inghilterra (oh perfida Albione!) e Francia dichiararono guerra alla Germania, che peraltro disperatamente desiderava la pace.
Hitler offriva garanzie generosissime per avere la pace in Occidente, dopo avere porto ad Albione il graziosissimo regalo del Patto navale germano- britannico. (Tragico errore, pace ad ogni costo con chi voleva la rovina della Germania e si apprestava a scatenare l’inferno della Seconda guerra mondiale)…
Innamorato dell’Inghilterra, caparbiamente offriva la pace, invece di realizzare il sogno di Napoleone invadendo l’Inghilterra. Ma può darsi che dopo tutto Hitler avesse ragione di temere l’attacco improvviso di Stalin alle spalle una volta che la Wehrmacht fosse stata impegnata in Occidente…
Ed ecco l’intervento italiano al fianco della Germania. Fin dall’inizio del conflitto la nostra discesa in campo nove mesi dopo l’inizio del conflitto (non rispettando l’impegno assunto con il Patto d’Acciaio di simultaneo intervento) si dimostrò fiacca, priva di aggressività e di reazione alle offese del nemico.
Il bombardamento aeronavale di Tripoli e di Genova, senza che l’aviazione inseguisse le navi nemiche, l’attacco aereo alla nostra flotta ancorata a Taranto, l’agguato di Capo Matapan in cui perdemmo molte navi da guerra e migliaia di marinai, la nostra pavida iniziativa al confine libico-egiziano in cui avevamo una forte superiorità numerica nonostante l’inferiorità di equipaggiamento (forse, se Balbo non fosse caduto a Tobruch, il nostro impegno in Libia sarebbe stato molto più aggressivo e forse decisivo) furono tutti la prova della nostra scarsissima preparazione e voglia di combattere, a cominciare dai livelli di comando..
Ma la mancata conquista di Malta, una piccola isola a 90 km dalla Sicilia, formidabile porto militare, fu quella che determinò la perdita della Libia e l’abbandono del sogno di Rommel della conquista del Canale di Suez e probabilmente di una svolta positiva della guerra: il fondo del Mediterraneo è tappezzato di navi italiane che trasportavano i rifornimenti preziosi che aspettava angosciosamente Rommel: uomini, carburante, carri armati, munizioni, cannoni, aerei, preziosa acqua per dissetare i soldati italiani e
tedeschi nel deserto… Sommergibili ed aerei nemici ubicati a Malta avevano vita facile nell’affondare le navi italiane che navigavano senza scorta dopo il disastro di Capo Matapan e strangolavano l’eroica lotta dell’Afrika Korps e delle nostre divisioni sotto il Suo comando.
D’accordo, nel 1943 gli inglesi avevano decrittato Enigma, ma gli affondamenti delle nostre navi datavano fin dall’inizio della guerra!
Nel 1940, 1941, 1942, 1943, mentre i tedeschi facevano strage di naviglio nemico.
E mi chiedo, avevamo servizi segreti? Peraltro, anche nella Wehrmacht si annidavano fior di traditori, come il capo dei servizi segreti tedeschi ammiraglio Canaris e come l’attentato a Hitler il 20 luglio 1944 ampiamente hanno dimostrato.
Nonostante i tradimenti del Comando supremo, la Wehrmacht’ poteva contare sulla professionalità, la fedeltà e l’eroismo dei suoi soldati.
Noi non avevamo, a quanto pare, un programma, un obbiettivo da raggiungere ad ogni costo, un piano lucidamente concepito.
Il comandante supremo delle nostre forze armate italiane era Mussolini.
Uno fra i più grandi uomini della Storia, se esaminiamo i risultati conseguiti nelle opere di pace; che tuttavia ebbe il torto di sottostimare il pericolo mortale rappresentato dalla esistenza di Malta, spina avvelenata nel fianco dell’Italia.
E Hitler fece il secondo grave errore: accettò l’alleanza con l’Italia, che pretendeva di fare la “sua” guerra, senza peraltro considerare il proprio stato di impreparazione, senza un programma di operazioni comuni.
E forte della sua debolezza, attaccò la Grecia, contando di sottometterla in pochi giorni. L’impreparazione, la mancata o carente collaborazione fra Marina ed Aviazione italiane, entrambe responsabili del disastro di Capo Matapan, e l’inaspettata resistenza dell’esercito greco che fece i indietreggiare le nostre forze, costrinse l’alleato tedesco a correre in soccorso delle nostre truppe in difficoltà, così rinviando l’attacco alla Russia, cosa che ebbe l’effetto di provocare un fatale ritardo nelle operazioni tedesche contro l’Armata Rossa.
Detto per inciso, la Grecia chiese la resa alla Germania, non all’Italia!
Mussolini si guardò bene dal seguire l’esempio di Churchill, che, cosciente della forza e delle risorse degli Stati Uniti, non ebbe scrupoli nel consegnare il Comando supremo “alleato” ad “Ike”, l’intrepido guerriero, specialista nel condannare a morte un milione di prigionieri tedeschi.
Se Mussolini avesse seguito l‘esempio del suo nemico ed avesse nominato Comandante supremo un generale tedesco (per esempio, guarda caso, Ervin Rommel!) la nostra condotta bellica avrebbe probabilmente conseguito la vittoria; se avessimo aggredito la Gran Bretagna in Medio Oriente, prima che Roosevelt si inventasse (allo scopo di scendere in guerra) l’aggressione giapponese a Pearl Harbour.
Forse che generali ed ammiragli inglesi erano meno orgogliosi dei nostri?
L’Europa che sarebbe sorta, senza guerra, è quella di “Mein Kampf”, terra di civiltà, di benessere, di concordia, di popoli affini.
Quella che è nata dalla tragedia della sconfitta è il dominio dei banchieri senza patria, del profitto egoista, della morte della cavalleria: Das Ende der Ritterlichkeit
Grazie per aver sollevato e dibattuto l’argomento.
Cordiali saluti”

http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=22020

L’oro delle Due Sicilie le prove di una spoliazione

Subito dopo la presa di Roma, con l’introduzione della cartamoneta, lo Stato italiano obbligò tutti i cittadini a riconsegnare la moneta metallica.  Dal Meridione arrivarono oltre 440 milioni di Lire in oro, che, al cambio imposto dai Savoia, equivalevano nominalmente al 4,25 Ducati partenopei.
Le somme raccolte nelle Due Sicilie equivalsero a circa 10 volte quelle versate nel resto d’Italia, ma, come vedremo l’entità effettiva di quell’oro ed i suo valore di mercato erano enormemente superiori.
Dicevamo dei Ducati partenopei che erano circolanti ed avevano un tenore in oro molto più elevato: una moneta da un Ducato ‘conteneva’ 19,9 grammi di oro fino, mentre una Lira sabaudo-italiana ne conteneva solo 4,5. Il cambio ufficiale fu imposto con Regio Decreto Sabaudo del 17 luglio 1861, n. 452, poi assorbito dalla legislazione italiana.
Una enorme massa d’oro, cui si aggiunsero altrettanto enormi quantità di argento e rame, derivanti dai Mezzi Ducati e le Mezze Piastre d’argento, oltre che dai Tarì, i Carlini, i Tornesi.
Una ricchezza spropositatamente enorme, come vedremo, che prese le vie di Roma, Torino e Venezia, ma anche quelle di Inghilterra, Francia e Stati Uniti, dove risiedevano i creditori dei tanti debiti contratti dalla corrotta corte sabauda. Le poche opere realizzate con quelle somme furono l’edificazione ex novo di Roma Capitale, la bonifica delle risaie piemontesi, il ripristino della Via Salaria (indispensabile per azzerare il commercio meridionale).
Un’altra prova, dunque, del saccheggio e della spoliazione del Meridione e dei meridionali, attuata con l‘introduzione della cartamoneta, visto che dal Sud arrivarono i 9/10 del patrimonio mobiliare italiano originario, purtroppo, utilizzati in larga parte non per far nascere una Nazione, ma per saldare debiti pesantissimi e sanare le diffuse malegestioni degli avidi funzionari.
Preso atto dello scempio di un popolo e di una ricchezza, dobbiamo chiederci a quanto oro equivalevano quelle Lire e quanto varrebbero oggi, rivalutandole.
 E qui viene il bello. O meglio l’orrido.
Infatti, 440 milioni di Lire in oro dovrebbero equivalere ad un peso di 1980 milioni di grammi d’oro, cioè 1.980 tonnellate d’oro. Purtroppo, se consideriamo che erano, in realtà, Ducati computati come Lire in oro, di tonnellate ce ne ritroviamo quasi venti volte di più, cioè 37.213.
Un calcolo che tutti possono fare.
Nel primo caso, moltiplichiamo le lire per quanti grammi d’oro contenevano. Nel secondo, convertiamo le lire in ducati e solo dopo moltiplichiamo per i grammi di oro fino contenuto. L’esito dovrebbe essere identico, ma non lo è. Incredibile, vero?
Cifre eclatanti, sia nel primo caso  – 2.000 tonnellate pari a 70,5 milioni di once d’oro – che nel secondo, per 37.000 tonnellate pari a 1.305 milioni di once.
Ma c’è dell’altro: se convertiamo le once in euro odierni e poi li rivalutiamo, ne viene fuori una scoperta sorpendente.
Infatti, 70 milioni di once equivalgono a circa 100 miliardi di euro, mentre 1300 milioni di once si convertono in circa 10 miliardi di valuta europea.
Ebbene, utilizzando il servizio ISTAT per la rivalutaizone finanziaria, scopriamo che – considerando solo il periodo 1947-2012 – nel primo caso (2000 tons di oro) il valore sarebbe stato nel 1947 di ben oltre 4.800 miliardi di euro, mentre nel secondo (37000 tons d’oro) parleremmo di 8.500 miliardi.
Figuriamoci a che somme si possa arrivare nel rivalutarli fino al 1872. Decine e decine di migliaia di miliardi odierni, forse centinaia di migliaia di miliardi. Il valore dell’intera Europa, forse.
Un’iperbole che diventa dubbio legittimo, se consideriamo che le attuali zone ricche d’Europa non erano affatto così benestanti, operose e frequentate fino a 150 anni fa, mentre, da quanto raccontano le documentazioni che emergono via via dall’oblio, gran parte della ricchezza d’Europa era prodotta e concentrata in Campania e Sicilia, nelle Fiandre e nel Galles, in Ungheria ed in Boemia.
Tutto un caso oppure fu spoliazione ed annientamento etnici? Durante il XIX Secolo avvenne un secondo saccheggio dell’Impero Romano d’Oriente (Ottomani e Due Sicilie), dopo quello del 1200, ad opera degli stessi popoli?
Anzi, verrebbe da credere – ricodando i crediti vantati dal ramo Savoia Aimone migrato in USA e quello che accadde nell’arco di 20 anni nel Mediterraneo turco e negli Stati Confederati USA – che l’intero industrialesimo e la nascita stessa del Capitalismo moderno siano stati ‘finanziati’ con l’oro delle Due Sicile e della Sacra Porta.
Fantasie? Forse. Fatto sta che le prove iniziano ad essere evidenti e, probabilmente, ebbero ragione gli oppositori di Karl Marx, come il napoletano Arturo Labriola, nel sostenere che i grandi capitali non hanno origine dallo sfruttamento quanto dalle spoliazioni.
Cosa, quanto e come intendono l’Italia e l’Europa restituire al Meridione d’Italia oppure, nonostante le denunce pendenti a L’Aia per i crimini di guerra sabaudi, anche per il prossimo secolo ci verranno imposti i ‘tarallucci e vino’?
originale postato su demata