IL FASCISMO INGLESE

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lunedì 1 marzo 2010

Sir Oswald Ernald Mosley nato a Londra nella contea di Staffordshire, a nord di Birmingham era il maggiore di tre figli e proveniva da una famiglia facoltosa ed influente (uno dei suoi avi era stato insignito nel 1720 del titolo di barone del Staffordshire, onorificenza che anche Oswald ebbe). Dopo gli studi a Winchester e a Sandurst (accademia militare), entrò come volontario nei Royal Flying Corps e partecipò alla prima guerra mondiale. Nel 1916 fu dimesso dall’esercito per invalidità in seguito ad una ferita riportata sul campo di battaglia il 25/9/1915 a Loos. A guerra ultimata cominciò ad occuparsi di politica e nel 1918 venne eletto deputato alla Camera dei Comuni tra le fila del Partito Conservatore, diventando il membro del Parlamento più giovane della storia inglese. Un baronetto all’epoca non poteva che schierarsi coi Tory, ma la sua non era una adesione di passione. Il retaggio di civiche e militari virtù in perfetto stile «old England» come la perfetta educazione ricevuta, il senso della disciplina, l’attitudine al comando non meno che all’obbedienza, la raffinatezza nel portamento, la giovanile irruenza contro il compromesso, la fedeltà dell’ufficiale inglese a un superiore codice d’onore, si aggiunsero agli umori e i malumori della sua generazione, alla avversione verso l’impotenza, il dilettantismo, la corruzione (scriverà nel suo My 1ife «Le idee che restano astratte non mi hanno mai attratto; l’azione deve seguire il pensiero perché la vita politica non resti priva di significato») e l’antipatia per il taissez- faire liberale (la famosa teoria del “ci pensa il mercato”).
Dopo il matrimonio (1920) con Cynthia Curzon, figlia del viceré d’India George Curzon (alle nozze presenziarono famiglie reali d’Europa) i suoi dissapori all’interno del partito si fecero via via più consistenti in proporzione alla resa incondizionata della corona verso i ribelli irlandesi. . Nel 1922 e nel 1923, senza essere formalmente appoggiato da nessun partito, confermò il suo seggio parlamentare e nel 1924 aderì al Partito Laburista e, tra alti e bassi, rimase affiliato al partito (a volte come candidato “ufficiale”, a volte come “indipendente”) fino al 1930. Col suffragio universale introdotto nel 1918 era andato al Governo nel 1923 il Labour Party di James Ramsay MacDonald (12/10/1866 – 9/11/1937) appoggiato dai liberali terza forza del paese. La sua esperienza e la sua inclinazione ai problemi sociali lo avevano portato ad essere apprezzato tanto da fargli sfiorare la nomina a Primo Ministro. Beatrice Webb “/…/ the most brilliant man in the House of Commons; /…/ the perfect politician who is also a perfect gentleman” . I giornali dell’epoca ne parlarono infatti in termini entusiastici. Nel 1925, dopo la caduta del primo governo MacDonald, propose se stesso per il ruolo di Primo ministro ma il suo appello rimase inascoltato e si procedette a nuove elezioni: Mosley si presentò nel difficile collegio di Birmingham, dove il conservatore Neville Chamberlain lo sconfisse per soli 77 voti. La grave crisi politica che imperversava in Gran Bretagna negli anni Venti consentì a Mosley di non stare fuori dal Parlamento per troppo tempo: vi fece ritorno infatti il 21 dicembre del 1926, venendo eletto nel collegio di Smethwick. Al termine delle consultazioni politiche del 1929, vinte di nuovo dal socialista laburista“moderato” Ramsay MacDonald (che sorpassa come partito i liberali), Mosley concluse un accordo elettorale con il Primo ministro e per un anno fu de facto un suo ministro senza portafoglio (Chancellor of the Duchy of Lancashire ) con delega al mondo del lavoro.

Simbolo elettorale della British Union of Fascists, il partito fondato da Mosley nel 1932

Nel 1930 Mosley propose all’esecutivo il celebre Memorandum Mosley, in cui egli illustrava le sue idee riguardo l’economia: Insieme ai laburisti più radicali, Mosley pensava a una politica di programmazione, di controllo degli investimenti, di rafforzamento dell’esecutivo «sia per un controllo dell’alta finanza sia per un progressivo svuotamento degli influssi incontrollabili dell’economia mondiale attraverso tempestive misure protezionistiche, oppure attuando un autoisolamento dell’economia nazionale» (Ernst Nolte). Era socialismo o nazionalsocialismo? O si trattava piuttosto di duri provvedimenti temporanei, di volontà di circoscrivere il problema (che per Mosley era la disoccupazione) nei suoi limiti essenziali, di «fare rientrare nei ranghi la finanza e i capitalisti recalcitranti» (R. Skidelsky) con una politica di indirizzo pianificatore e socializzatore che poteva arrivare alla nazionalizzazione delle banche e alla statizzazione delle imprese? . Al rifiuto del governo di approvarlo, egli si dimise dal suo incarico istituzionale e tornò tra i banchi dell’opposizione. Quale opposizione? Di sinistra poiché Ramsay MacDonald tirando dentro i conservatori nel 1931 (Liberali e laburisti non erano andati oltre i 120 seggi, dai 260 che avevano i soli laburisti, contro il quadruplo dell’avversario) aveva saltato il cosiddetto fosso. Sarà la sua morte politica poiché nel 1935 alle elezioni nessuno volle più prenderlo in considerazione.
Nello stesso tempo si concretizzò il suo avvicinamento alla politica fascista e divenne un ammiratore di Mussolini (ne apprezzava soprattutto il corporativismo). Non era il primo fascista, poichè il fascismo inglese esisteva già da quasi 10 anni ed era espresso in due movimenti il “British Fascisti” (BF di Miss Rotha Lintorn-Orman) e la “Imperial Fascist League” (IFL di Arnold Spencer Lease). Sorte negli anni Venti come reazione al “pericolo rosso” e caratterizzate da un forte patriottismo le leghe erano arrivate a raccogliere quasi 100.000 adesioni e più che alleati gli erano avversari. Proprio nel 1930 quindi Mosley fondò il New Party, che ebbe il suo battesimo elettorale l’anno seguente nelle elezioni suppletive di Ashton-under-Lyne in cui ottenne il 16% dei voti. Nel programma del nuovo partito erano sì presenti idee innovative, soprattutto in materia di politica economica, tuttavia mancavano obiettivi a lungo termine ben definiti ed i suoi membri erano per lo più dissidenti provenienti dai partiti tradizionali (destra e sinistra): in quella fase il New Party non rappresentava perciò né una concreta alternativa né una vera e propria rottura rispetto ai partiti tradizionali. A seguito di insuccessi elettorali, nel 1932 Mosley gli cambiò nome in British Union of Fascists (BUF), rendendo palese la sua scelta di campo in favore del fascismo, scatenando tuttavia la reazione del governo che gli impedì di partecipare alle elezioni politiche del 1935. Prima di cambiare nome al partito era venuto in Italia dove aveva ricevuto l’investitura ufficiale da parte del Duce. Dal 1933 non potendo usufruire dei mezzi radiofonici venne fondato il giornale The Blackshirt (camicia nera). Mosley contava molto sulle sue doti oratorie e gli scontri maggiori con gli altri fascisti, ma anche con Comunisti ed Ebrei li ebbe proprio durante comizi. La sua guardia personale, i Biff Boys, usciva dalle palestre di Ted Kid Lewis campione del mondo dei pesi medi
I suoi sostenitori e i suoi collaboratori lo acclamavano come leader indiscusso del movimento e vedevano in lui l’uomo che, con il suo entusiasmo, la sua forza e il suo carattere autoritario ed arrogante, sapeva farsi trascinatore di folle, finendo per condurre la BUF alla vittoria elettorale e la Gran Bretagna alla stabilità politica ed economica. V’era chi riconosceva in lui il nuovo Cesare, che avrebbe permesso agli inglesi di recuperare l’antico splendore della loro nazione: /…/ a national leader, a hero, who will give the British people the confidence to recover the spirit they have lost. /…/ Mosley is already emerging from the political obscurity into which his enemies had dismissed him.Behind him come a host of enthusiastic followers prepared to die that Britain again may live. Mosley era il blackshirt, la camicia nera per eccellenza, l’uomo che si metteva al servizio dello stato per il bene della nazione e non per i propri interessi o per quelli di un gruppo: /…/ tall and muscular, square-jawed and straight-backed – signifying discipline, courage and vitality. Drawn without softening curves, he was a product of an industrial society, an ‘instrument of steel’ for an ‘iron age’. /…/ the fascist had only one joy: the cause. /…/ Fascist man was to recapture the spirit of the front, the ‘dedication to the cause that transcends self and faction’.
Nel 1933 era morta la moglie Cynthia e Mosley si risposò (1936) con Diana Mitford, di 14 anni più giovane: le nozze vennero effettuate a casa di Joseph Goebbels ed Adolf Hitler fu uno degli invitati. La sua esclusione dalle elezioni aveva pero incrinato il movimento che ora si reggeva solo sulla stampa. Di ex-comunisti nel BUF non ne mancavano; e uno di loro, Alexander Raven Thomson sarebbe diventato addirittura il teorico più prestigioso del movimento, al quale George Bernard Shaw, ammiratore di Mussolini, augurava vittoriose affermazioni. Del resto, come ha notato Alistair Hamilton, gli intellettuali anglosassoni in odore di fascismo o di filo-fascismo non erano pochi: Kipling e Wells, Belloc e Ezra Pound, Eliot e Yeats, Lawrence e Chesterton. Di fatto Mosley, anche se fuori dal Parlamento, non era un isolato né gli mancavano i finanziamenti, ad esempio quelli di Lord Rothermere, un grande uomo d’affari britannico che, almeno per qualche anno, fece del Daily Mail, il quotidiano di cui era proprietario, il portavoce delle idee di Mosley. Mentre altri industriali e aristocratici restavano affascinati dalla capacità di Sir Oswald di riempire le più grandi platee di Londra, come la Albert Hall e il teatro Olimpia, di curiosi e di seguaci. «Nessun altro capo di partito c’era mai riuscito prima di lui. Lo sfarzo non era minore di quello sfoggiato da Hitler nelle sue assemblee: l’entrata di Mosley veniva accompagnata da squilli di tromba, i portabandiera lo precedevano piazzandosi poi intorno alla tribuna sovrastata da un gigantesco fascio littorio d’argento.
A rovinare questo clima favorevole per il suo partito ci pensò lo stesso Mosley: il 4 ottobre del 1936 i fascisti in camicia nera da lui guidati marciarono sull’East End di Londra nel tentativo di intimidire e ridurre al silenzio le organizzazioni sindacali ed i gruppi ebraici che soggiogavano in quei quartieri. La sorpresa fu grossa quando per strada incontrarono le barricate dietro le quali migliaia di uomini erano pronti a battersi. Questo episodio, noto come “la battaglia di Cable Street”, spezzò la schiena al fascismo inglese. A partire dal 1938 la BUF iniziò a perdere terreno nell’East End. La dottrina Mosley era comunque emigrata ai paesi del Commonwealth bianchi e alla stessa Irlanda (Camicie Blu) tanto che in Spagna venne creata una brigata “Bandiera Irlandesa” che combatté col Tercio. Probabilmente, come suggerisce Webber, questo ridimensionamento del movimento fu una conseguenza dell’accordo di Monaco, che aveva sollevato del risentimento nei confronti della Germania e quindi una presa di distanza dal fascismo inglese, che non aveva mai nascosto le proprie simpatie per il nazismo. Contemporaneamente, però, crebbero le adesioni in altre zone della capitale e del Paese e questa tendenza si mantenne anche per l’anno successivo, tanto che, nel settembre del 1939, si registrò un numero di aderenti superiore del 50% rispetto alla fine del 1936.
Nel maggio del 1940 la BUF veniva sciolta e Mosley arrestato insieme ai maggiori esponenti del movimento (Diana sarebbe stata arrestata qualche settimana dopo). Ciò avveniva in base a un decreto, il l8b, che autorizzava il Ministro degli Interni ad arrestare gli iscritti di un’organizzazione se avevano o avevano avuto «rapporti con persone dipendenti dal Governo, o simpatie per il sistema di Governo, di qualsiasi potenza con cui Sua Maestà fosse in guerra». Era un decreto-capestro che faceva a pugni con tutta la tradizione giuridica inglese: molti tra i più leali nemici di Mosley lo ammettevano, anche se giustificavano la durezza del provvedimento con le circostanze eccezionali in cui la Nazione si trovava. In quelle circostanze, Mosley era, soggettivamente e oggettivamente, un «nemico»? Capace di spaventare a tal punto i governanti da farli decidere a «stracciare l’Habeas Corpus»? Così George Bernard Shaw: «Abbiamo ancora timore di lasciare che Mosley difenda e abbiamo provocato la ridicola situazione secondo cui possiamo acquistare il Mein Kampf di Hitler in qualsiasi libreria del Regno Unito, ma non possiamo acquistare dieci righe scritte da Mosley». Confinato con la moglie e con altri collaboratori nell’isola di Man, Mosley sarebbe stato liberato nel novembre del 1943. Gli era andata bene perché a molti suoi ex collaboratori venne inflitta nel dopoguerra la pena di morte per collaborazionismo col nemico. Durante il periodo di reclusione nacque il figlio Max Rufus, oggi presidente della Federazione Internazionale dell’Automobile (FIA). Al termine del Secondo conflitto mondiale, con la BUF ormai dichiarata illegale da tempo, Mosley fondò l’Union Movement (che aveva lo stesso simbolo elettorale della BUF) che a livello europerò aderì al National Party of Europe, l’aggregazione di tutti i partiti europei di estrema destra. Con l’UM Mosley si candidò ancora nel 1958 a Notting Hill e nel 1959 a Kensington North, venendo sconfitto nettamente in entrambi i casi; nelle elezioni politiche dello stesso anno l’UM ottenne meno dello 0,1% dei voti. Tornò per l’ultima volta ad affrontare una campagna elettorale nel 1966 ma ancora una volta l’Union Movement fece flop, ottenendo meno di 5.000 preferenze. Nel frattempo Mosley, che nel 1951 si era trasferito in Irlanda, traslocò successivamente a Parigi, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita. Nel 1968 scrisse un’autobiografia dal titolo My Life e nel 1977 fu candidato alla carica di rettore magnifico dell’università di Glasgow, ottenendo in questa occasione 100 voti.

     

GIORGIO PINI L’ESEGETA DELLA CIVILTA’ SOCIALE

  
Soldato, partecipò alla prima Guerra Mondiale, diventando fascista nel 1920. Lavorò al giornale della Federazione Fascista di Bologna, prima come giornalista, poi come direttore. Nel 1930 fu direttore del Giornale di Genova, e poi del Gazzettino di Venezia. Diventò nel 1936 Caporedattore al Popolo d’ Italia e, spinto da Benito Mussolini, riuscì a potenziare le vendite quasi triplicandole. Vi lavorò fino al 25 Luglio 1943, quando il giornale cessò le pubblicazioni. Aderendo alla Repubblica Sociale Italiana diresse Il Resto del Carlino per pochi anni. Dal 1953 inizia la sua collaborazione con la testata Pensiero Nazionale; nel 1955, con Duilio Susmel , scrisse il saggio Mussolini l’ Uomo e l’ opera. Nel dopoguerra, fu uno dei principali esponenti della corrente di “sinistra nazionale” del Movimento Sociale Italiano, ed uno degli animatori del Raggruppamento Sociale Repubblicano. 

 di Bruno De Padova

Emerge in continuità dall’operosa regione d’Emilia-Romagna, da quell’ubertoso territorio che diede all’Italia uomini eccezionali quali Benito Mussolini, Guglielmo Marconi, Goffredo Coppola, Giuseppe Verdi e Ottorino Respighi, Italo Balbo, Ettore Muti e parecchi altri cittadini illustri provenienti dall’intera area geografica inclusa tra Piacenza, Ferrara e Rimini, il significativo insegnamento di coerenza morale e politica dello scrittore e giornalista Giorgio Pini, che ebbe i natali l’1 febbraio 1899 nel capoluogo felsineo, ove s’innalzano sopra i quartieri di Bologna le famose torri degli Asinelli e della Garisenda. Egli apportò, a chi seppe considerarlo, una lezione di stile e di rispetto dei maggiori valori spirituali, indispensabili oggigiorno per rinnovare la condanna di quel malcostume imperversante soprattutto nell’ambito della partitocrazia e in cui gli opportunisti – specie quelli deprecati già nel 1908 dal faentino Alfredo Oriani nell’opera ‘La rivolta ideale’ – continuano a rinnegare le conquiste della civiltà e la disciplina etica per il progresso sociale (quella osservata significativamente da Socrate a Giuseppe Mazzini ed anche dal romagnolo Nicola Bombacci), che rappresentano invece la forza motrice di quell’aristocrazia nuova caratterizzata dal vigore del carattere e dalla continuità morale.
Laureatosi in giurisprudenza, Giorgio Pini – dopo la sua partecipazione quale volontario alla ‘Grande Guerra’ conclusasi con la redenzione di Trento, Trieste, Fiume e la Dalmazia – aderì nel 1920 al movimento fascista; ma, la sua maturazione iniziale avvenne il 15.11.1914, allorché poté leggere nel primo numero del nascente quotidiano Il Popolo d’Italia l’articolo basilare di fondo e intitolato ‘Audacia!’, scritto impegnativo di Benito Mussolini che fu per migliaia di giovani italiani e per lui la vera iniziazione alla politica e il pieno incontro spirituale col suo autore.
Fu mediante la documentazione fornita col libro ‘Filo diretto con Palazzo Venezia’ (ediz. 1967), che G. Pini perfezionò il commento e l’ambientazione politica di B. Mussolini e poi del Fascismo nel grande panorama degli avvenimenti fra il 1914 e il 1943, cioè nel quadro storico della vita italiana e internazionale durante quei decenni di rivolgimenti interni e di guerre mondiali, in quanto essi promuovono l’equa considerazione e la successiva maturazione ad una interpretazione equilibrata della Repubblica Sociale, della sua programmazione evolutiva (d’autentica portata rivoluzionaria) nell’ordinamento dell’economia produttiva e dell’apoteosi del lavoro per la liberazione dei popoli verso il progresso civile, redenti dalla soggezione alle oligarchie plutocratiche e dalle falsità avvolgenti della dialettica marxiana.
Restiamo però, a Bologna, in quell’anno – 1920 – in cui Leandro Arpinati fondò il settimanale politico L’Assalto diretto poi da Baroncini e quindi da G. Pini, che per quest’ultimo significò 1’inizio d’una brillante carriera giornalistica, mentre gli consentì di contribuire con efficacia all’azione propulsiva del movimento fascista nell’incontro con le genti d’ogni categoria per affrancarle dal caos del primo dopoguerra e dal tormento di quelle ‘settimane rosse’ che sconvolsero le zone ferrarese, romagnola e marchigiana.
Poi, con l’ampliarsi di questo fulcro d’azione politica, Pini – alla fine del 1921 – osservò che soltanto il fascino personale di B. Mussolini (“con potenza certo non più posseduta da un uomo dopo Napoleone e Garibaldi”) riuscì a coordinare in una disciplina unitaria gli elementi eterogenei che erano affluiti nei fasci di combattimento dai più disparati settori politici e così si realizzò la ‘marcia su Roma’ e la successiva conquista di Palazzo Chigi.
E’ doveroso nel contempo specificare che il problema della stampa, della sua libertà e della sua funzione di critica costruttiva fu per G. Pini di costante impegno, cioè di stile e, nonostante l’incedere di assolutismo esclusivista del 1925, il direttore de L’Assalto rimase sempre intransigente nella salvaguardia dell’autonomia del periodico della federazione del P.N.F. di Bologna. Tale fermezza fruttò a G. Pini la nomina a direttore del quotidiano felsineo Il Resto del Carlino, riuscendo ad animarlo – come gli chiese Mussolini – quanto il Corriere padano, cioè i1 battagliero foglio ferrarese di Italo Balbo condotto da Nello Quirici.
In questo G. Pini riuscì con capacità professionale; per cui, nel 1930 Augusto Turati e Arnaldo Mussolini ne promossero la designazione alla guida del Giornale di Genova. Nel capoluogo ligure perfezionò con analogo impulso le edizioni del pomeridiano Corriere mercantile, non mancando di segnalare già allora l’importanza determinante che la ‘camionale Genova-Serraval1e’ aveva assunto per il potenziamento dei collegamenti tra la Valle Padana e il massimo scalo marittimo d’Italia, nonché con le linee di navigazione verso l’Africa e le Americhe.
Dopo di che, G. Pini venne incaricato a risollevare le sorti del giornale Il Gazzettino, compromesse a Venezia dalle liti fra gli eredi e successori de1 fondatore Talamini.
Ovunque, da Bologna a Genova e Venezia, lo ‘stile’ giornalistico di G. Pini, la sua capacità di perfezionare la collaborazione con i redattori, i corrispondenti esterni, gli inviati e le agenzie d’informazione (specie la Stefani) e il costante dialogo con il pubblico dei lettori vitalizzarono l’efficienza della sua stampa, specie con l’opinione popolare. Ciò lo compresero bene a Roma ed a Palazzo Venezia.
Infatti, la missione giornalista d’informazione formatrice di G. Pini venne agevolata dal complesso di realizzazioni politiche e d’impegno sociale sincronizzate dal programma di Sansepolcro (23.3.1919) al caposaldo della Carta del Lavoro (21.4.1927), al contratto collettivo per qualsiasi categoria produttrice, dalla riforma gentiliana della scuola (1923) sino a quella di Bottai (1939) che concretizzarono la Carta della Scuola, dal Concordato con la Chiesa (1929) al risanamento nazionale dell’agricoltura (dalla ‘battaglia del grano’ alla bonifica integrale delle paludi pontine – con l’edificazione di Littoria/Latina – a quella della Maremma e della Valdichiana), dal riordinamento giudiziario all’incremento responsabile della Cultura, e quando – nel dicembre 1936 – sostituì Sandro Giuliani nel ruolo di caporedattore a Il Popolo d’Italia, la tiratura, che stazionava sulle 150.000 copie giornaliere, riprese ad aumentare.
Nell’assumere l’incarico di caporedattore (la direzione de Il Popolo d’Italia dal 1931 al 26.7.1943 fu sempre di Vito Mussolini), G. Pini il 22.12.1936 ricevette dal suo fondatore il preciso compito di rinnovarlo e lo fece bene, con rapidità, col programma di globale ricomposizione, sostituendo le attrezzature anche tipografiche, l’impaginazione ecc. senza esitazioni. Con una terza pagina più varia, con l’inserimento di rubriche d’evasione (molto sport, racconti e persino la moda), la tiratura del quotidiano salì a 170.000 copie nel marzo 1937, a 263.000 in giugno e dopo, durante la Guerra di Spagna, la richiesta crebbe a 360.000 copie.
E’ bene rammentare che tra i redattori, i corrispondenti, gli articolisti si distinsero M. Appelius, L. Barzini, E. Daquanno, U. Manunta, N. Nutrizio, C. Costamagna, N. Giani, G. Pallotta, S. Panunzio, A. Soffici, U. Spirito, G. B. Vicari e molti altri.
Il quotidiano indicato ottenne con G. Pini la tiratura eccezionale di 434.000 copie il 28.10.1938, di 435.000 il 10.6.1940 e di 348.000 nel febbraio 1943. Egli ebbe tra il 1936 e il 1943 più di trecento incontri telefonici con Mussolini, otto udienze ed innumerevoli altri durante le manifestazioni pubbliche. Dopo il 26.7.1943 – in seguito al complotto di Grandi, dei Savoia e di Badoglio – tale quotidiano cessò le pubblicazioni e, dopo l’8 settembre, Mussolini – anche con l’istituzione della Repubblica Sociale – non volle farlo rinascere.
Quell’Italia che, per l’infamia del tradimento sabaudo, annoverò – insieme a Mussolini – una schiera di uomini che, aderendo alla Repubblica Sociale, promosse una straordinaria complessità d’intendimenti per la rinascita della Nazione per cui C. A. Biggini attivò il progetto di Costituzione della R.S.I., ebbe in Giorgio Pini uno tra i più validi sostenitori: non soltanto quale nuovo direttore del quotidiano bolognese Il Resto del Carlino (incarico che assolse con inconsueto equilibrio d’informazione nonostante l’inasprimento della guerra civile), ma anche – quale Sottosegretario agli Interni a fianco del Ministro Zerbino in riva al Garda – per sollecitare sempre, in qualsiasi struttura del Fascismo repubblicano, una maggiore forma di democrazia, precisamente, quella di una libertà capace di soddisfare l’esigenza collettiva d’intendimenti, pertanto di convocare le assemblee del P.F.R. non solo quando piace ai gerarchi, ma quando lo vogliono i fascisti della base.
Ciò conferma che tale sua richiesta venne recepita da Mussolini (G. Pini, ‘Itinerario tragico’ – ediz. 1950 – pag. 75), tanto che, alla vigilia dell’epilogo della R.S.I. e del Secondo Conflitto Mondiale, precisò a quanti l’avevano seguito: “Dovete sopravvivere e mantenere nel cuore la fede. Il mondo – me scomparso – avrà bisogno ancora dell’Idea che è stata e sarà la più audace, la più originale e la più mediterranea delle idee. La storia mi darà ragione”.
Inoltre, insieme a Duilio Susmel, G. Pini nel 1955 approntò quell’esatto studio enciclopedico intitolato ‘Mussolini, l’Uomo e l’opera’ che nel volume IV, quello intitolato ‘Dall’Impero alla Repubblica’, a pag. 367, specifica che “la rivoluzione sociale del fascismo, iniziata fin dal sorgere del movimento, ha dovuto per alcuni anni seguire un moto lento e non rettilineo a causa degli ostacoli che le classi capitalistiche, protette dalla monarchia, hanno opposto”, ma che – dopo il congresso del P.F.R. a Verona nel novembre 1943 – con il decreto legge sulla socializzazione delle imprese (12.2.1944) il lavoro attivamente operante assurse a soggetto fondamentale dell’economia con funzioni di responsabilità e di direzione.
Poi, al termine del capitolo VIII del quarto volume dell’opera citata col titolo ‘Ritorno al socialismo’ (pag. 466), Pini e Susmel indicano come Mussolini – quando la sconfitta militare nel 1945 gli apparve ormai ineluttabile – presagì quanto il destino d’Italia era segnato, ma non quello delle idee: “tutto sarà fatto nel nome della democrazia, della giustizia e della libertà, un paravento dietro il quale si nascondono gli interessi del più sudicio capitalismo, venga questo da Londra, da New York o da Mosca. Il popolo italiano vivrà un periodo amarissimo, che vedrà scardinati tutti i principi dell’onestà e della morale”.
Pini e Susmel ricordano (volume IV dell’opera citata, pag. 453) che Mussolini, nel discorso del Lirico il 16 dicembre 1944 a Milano, precisò come l’art. 3 del manifesto di Verona ed elaborato dal P.F.R. ammetteva nella Repubblica Sociale la presenza di altri gruppi politici con diritto di controllo e di responsabilità critica (ricordiamo quello di Emondo Cione, ad esempio) partendo però, dall’accettazione leale, integrale e senza riserve del trinomio Italia, Repubblica, Socializzazione, indiscusso vessillo di un nuovo ordinamento di progresso civile.
“Qualunque cosa accada” – ribadì Mussolini – “la socializzazione è la soluzione logica e razionale che evita da un lato la burocratizzazione dell’economia, attraverso il totalitarismo di Stato e supera l’individualismo dell’economia liberale che fu un efficace strumento di progresso agli esordi dell’economia capitalista, ma oggi è da considerarsi non più in fase con le nuove esigenze di carattere sociale delle comunità”.
Nel dopoguerra successivo all’aprile 1945, Giorgio Pini venne perseguitato dal C.N.L., ma ciò non valse a ridurre la capacità di convalidazione della propria opera politica, omologazione chiesta al M.S.I. affinché tale schieramento politico non degenerasse – come avvenne poi col suo scioglimento a Fiuggi nel 1994 – in quel camaleontismo d’opportunismi che oggidì è attivissimo nell’agglomerato di Alleanza Nazionale.
Allorché tale degenerazione, anzi un’autentica defezione ideologica, s’accentuò nel M.S.I. con lo stravolgimento dei presupposti fondamentali della rivolta ideale intrapresa da Oriani e perfezionata da Mussolini, Giorgio Pini condannò inequivocabilmente quel tradimento; e negli anni successivi ai congressi di Milano (1956) e di Pescara, molto prima della sua morte avvenuta a Bologna il 30 marzo 1987, richiamò le nuove generazioni ai valori fondamentali della storia e della civiltà politica, quelli che non accettano i funambolismi dei doppiogiochisti e che proiettano la distinzione del lavoro per l’affermazione nel futuro dell’inno della giovinezza morale.


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Il volto nascosto della schiavitù

Di Gianantonio Valli – Numero 64 -Uomo Libero

Trafficanti del Tardo Impero – L’epoca d’oro dei carolingi – Il perno dei traffici dal seicento all’ottocento – Doppio gioco nelle tredici colonie – La guerra civile americana – Padroni di Hollywood.


Come tutti sanno, all’interno della società americana, esiste oggi una ostilità piuttosto radicata tra le comunità ebraiche e quelle cosiddette “afro-americane”, del resto di confessione pressoché totalmente protestante, islamica o cattolica. Questa opposizione contrasta nettamente con l’impegno delle prime a favore del movimento dei diritti civili sino agli anni sessanta inoltrati, e prima ancora in senso abolizionista e nordista; e soprattutto con l’ortodossia giusumanista ed immigrazionista che, al contrario di quanto pure accade in Israele, le comunità ebraiche europee continuano a manifestare. Alcuni approfondimenti storici con riguardo all’atteggiamento verso lo schiavismo possono contribuire ad illuminare alcuni aspetti di questa complessa dialettica.
Al riguardo, taluni hanno ipotizzato che, oltre al redditizio sfruttamento di un filone «che tira» e ad una callida operazione antirazzista a fini colpevolizzanti contro gli oppositori del Mondialismo, si possa parlare di atti di espiazione da parte dell’intellighenzia ebraica per quanto compiuto per secoli dai padri. Ciò potrebbe anche essere, visto che del traffico di schiavi gli ebrei sono stati per secoli i massimi tra gli ideatori, i promotori e i beneficiari. Prove certe di ciò abbiamo per gli eletti di Roma, per i quali, in particolare all’epoca di Giustiniano, tale commercio umano è la principale fonte di guadagno, sfidando i decreti degli anni 335, 336, 384, 415, 417, 438 e 743: «Trade in slaves constituted the main source of livelihood of the Roman Jews», scrive nel 1912 la Jewish Encyclopedia di Isadora Singer e Cyrus Adler.
Sotto Carlo Magno, aggiungono Henri Pirenne e Hugh Trevor-Roper, gli ebrei francesi, autorizzati da uno speciale editto imperiale e avendo a soci i confratelli spagnoli, «acquistano» in Europa e piazzano sui mercati musulmani i figli dei debitori: «traffico lecitissimo per allora», postilla l’Arruolato Guido Bedarida, benché i Monumenta Germanicae Historica ce ne segnalino il corrente divieto, rinnovato nel 779, 781 e 845. Il «traffico lecitissimo» si espande ancor più sotto il figlio Lodovico il Pio, dominato dalla seconda moglie Judith, demi-juive figlia della «nobile sassone» Heilwich/Eigilwi e dello svevo conte Welf (capostipite della schiatta dei guelfi), coadiuvata dal gran cancelliere Elisachar, anch’egli ebreo, e dal diacono imperiale Bodo, convertito al giudaismo nell’839. Particolarmente richiesti sono gli schiavi per gli harem che, malgrado l’esplicito divieto biblico-talmudico di castrazione (Levitico XXI 20 e XXII 24, Deuteronomio XXII 2, Shabbat 110b-111a, Sanhedrin VII 5 tosaphot e Sanhedrin 56b), gli ebrei provvedono a consegnare castrati in quanto la barbara operazione è proibita in tutto l’Islam; Narbona e Verdun sono le principali «officine» dove, prima di esportare il «prodotto», si provvede all’«elaborazione».
Già subito dopo la caduta dell’Impero Romano, scrive Pirenne, «alcuni ebrei erano marinai o proprietari di battelli; altri possedevano terre coltivate da coloni o da originarii; altri ancora erano medici. Ma l’immensa maggioranza di essi si dedicava al commercio o al prestito ad interesse. Molti erano mercanti di schiavi, per esempio a Narbona […] È naturalmente impossibile ammettere che i mercanti orientali, ebrei ed altri, si contentavano d’importare nel bacino del Mar Tirreno senza nulla esportarne. È evidente che i battelli riportavano carico di ritorno. Il principale carico dev’essere consistito in schiavi […] Una gran quantità di mercanti si occupavano di questo commercio di schiavi: in massima parte ebrei, a quanto pare. Il concilio di Macon nel 583 permette ai cristiani di riscattare dagli ebrei i loro schiavi per dodici soldi, sia per dar loro la libertà, sia per prenderli al proprio servizio. Si citano mercanti di schiavi ebrei a Narbona ed a Napoli. Possiamo concludere da tutto questo che un importante commercio di schiavi esisteva sulle coste del Mar Tirreno e non sembra dubbio che i battelli che trasportavano le spezie, la seta, il papiro, li trasportassero come carico di ritorno in Oriente». Lungi dal danneggiare il Popolo Disperso, la distruzione dell’antica unità mediterranea provocata dall’irrompere dell’Islam accresce la sua importanza: «In queste condizioni a sostenere il commercio non restano che gli ebrei. Essi sono numerosi dappertutto; gli arabi non li hanno cacciati né massacrati ed i cristiani non hanno cambiato atteggiamento riguardo a loro. Costituiscono dunque la sola classe la cui sussistenza sia dovuta al traffico […] La loro grande specialità, come si è visto sopra, era il commercio di schiavi».
Similmente, quanto all’Europa Orientale, Josef Leo Seifert, riportando le conclusioni dello storico polacco L. Niederle: «È un ruolo interessante, quello che l’ebreo assolve all’inizio della storia slava. Non appena compaiono le prime informazioni sulla vita degli slavi e sulle loro relazioni con l’estero, già esse riguardano gli ebrei, lo judaeus mercator della Leggenda di Adalberto – e già l’ebreo media, scambia, commercia di tutto, arrivando dovunque e divenendo ricco. È disprezzato, colpito sia da cristiani che da musulmani, ma ciò non gli impedisce di tenere con mano sicura le negoziazioni persino tra questi due mondi stessi. Lo vediamo anche membro di ambascerie, ad esempio presso Carlo Magno negli anni 802 e 807, e presso Ottone I. Nel 965 i chesdaj chiesero agli ebrei di fare gli intermediari nella loro corrispondenza con il khan dei cazari. Molto contribuì a ciò il loro talento linguistico. Essi padroneggiavano l’arabo, il persiano, il greco, il francese, lo spagnolo e lo slavo; commerciavano di tutto, ma dominavano totalmente il commercio degli schiavi. Questa era la loro specialità, il commercio di uomini. Gli ebrei comperavano e vendevano ragazzi e ragazze slavi, sia in Oriente sia in Spagna, e la maggior parte delle fonti ci sottolineano espressamente che gli ebrei di Spagna procedevano alla loro castrazione, essendo i grandi fornitori di eunuchi slavi nell’intero mondo maomettano [virtuoso, sulla «terra di Esklavonia», il reportage di Benjamin da Tudela: «gli ebrei che vi abitano la chiamano Kenaan, perché la gente del posto vende i figli e le figlie ad altri popoli»]. Non stupisce che già in quel tempo nelle città slave, specialmente a Praga, Cracovia e Kiev, vivessero molti ebrei. In Polonia si trovavano persino monete con la versione ebraica del nome di Mieszko (Mesha)».
Anche l’ebrea Lady Magnus aveva del resto rilevato già nel 1890 che per tutto il Medioevo «i principali compratori di schiavi si trovavano fra gli ebrei […] Questi sembravano essere presenti sempre e dovunque a portata di mano per acquistare la merce [at hand to buy] e, similmente, sembravano avere sempre a disposizione il denaro per pagare [and to have the means equally ready to pay]».
«Il successo di questi mercanti medioevali» – conferma l’eccellente The Secret Relationship Between Blacks and Jews – «era accresciuto dalla loro grande conoscenza delle lingue. Essi parlavano arabo, persiano, latino, francese, spagnolo e slavo e [scrive l’ebreo Marcus Arkin in Aspects of Jewish Economic History] “manifestavano un abilità negli affari ben avanzata per quei tempi”».
Con la scoperta del Nuovo Mondo gli ebrei, importatori di schiavi e piantatori di canna nelle isole portoghesi di Madera e Sao Tomè dal 1492, introducono schiavi e piantagioni anche in Brasile (le attività sono attestate anche dagli eletti Arnold Wiznitzer e Jacob Rader Marcus), ove si trovano dal 1503, trasformando il paese nel primo produttore mondiale di zucchero; a fine secolo essi sono presenti, lungo le coste, in 200 insediamenti. Con l’istituzione (1621) della Dutch West India Company, nella quale rivestono presto un ruolo di primo piano quali finanziatori e imprenditori, il Brasile cede però gradualmente il primato alla zona caraibica. Infatti, pur restando il termine «portoghese» sinonimo di «negriero ebreo», i più attivi insediamenti commerciali/produttivi ebraici si spostano a nord: perno del movimento è il porto brasiliano di Recife/Pernambuco, occupato militarmente dalla Compagnia nel 1630. Le rivolte degli schiavi e la riconquista del territorio da parte dei portoghesi portano comunque, nel 1654, all’espulsione totale o alla fuga di ebrei e olandesi.
Intorno alla metà del Seicento gli ebrei sono quindi saldamente presenti: 1. nel Surinam – «la colonia ebraica per eccellenza», per dirla con Werner Sombart – nel triplice ruolo di commercianti, piantatori di canna e negrieri (le cause della loro decadenza vengono descritte con franchezza dall’Encyclopaedia Judaica: «Il declino economico della comunità fu in stretto rapporto [was largely connected] con l’abolizione del commercio schiavistico nel 1819 e con l’emancipazione degli schiavi nel 1863»; in parallelo Itzhak Ben-Zvi, dopo averci informati della fondazione di città nell’interno, lontano dalla costa, a partire dal 1670, con una popolazione di 10.000 individui nel 1719, aggiunge: «Il numero [degli] schiavi fuggiaschi crebbe, ed essi costituirono una grave minaccia per la popolazione ebraica bianca presente nel cuore della giungla», minaccia che, aggravata dalla malaria e dall’isolamento dai confratelli, portarono a fine Settecento all’evacuazione delle colonie, mentre «la loro capitale veniva invasa dai negri, che la distrussero quasi totalmente. Solo un cimitero con qualche iscrizione ebraica sulle lapidi attesta l’esistenza di una colonia ebraica semi-indipendente, che fiorì in quei luoghi per oltre un secolo), 2. in Guyana (nel 1662 vi giunge il vascello Monte del Cisne, che sbarca 152 ebrei livornesi), 3. nelle Barbados («la cui popolazione si compone quasi unicamente di ebrei», nota Sombart), 4. a Curaçao (il maggior centro caraibico di smistamento di schiavi nel 1648), 5. a Coro in Venezuela, 6. a Santo Domingo e 7. nelle isole di Giamaica, Martinica (la prima grande piantagione di canna da zucchero, con annessa distilleria, viene fondata nel 1655 da Benjamin da Costa, proveniente dal Brasile con 900 confratelli e 1100 schiavi), Nevis, Saint Eustatius e Saint Thomas.
Quanto al Settecento e al Nordamerica, i più ricchi negrieri sono tutti di eletta ascendenza, mercanti a New York, Newport, Baltimora, Filadelfia, Boston, Norfolk, Richmond e, soprattutto, Charleston e Savannah. Impediti nell’insediamento e cacciati dalla Georgia dal fondatore di quella colonia generale James Oglethorpe, gli Arruolati si spostano infatti nella South Carolina in misura tale che la regione intorno a Savannah diviene nota come Jewland; alla fine del Settecento Charleston non solo raccoglie 500 ebrei – la maggiore comunità degli States – ma, scrive la Judaica, nel 1775 elegge al Congresso Rivoluzionario Provinciale il primo ebreo d’America, il piantatore d’indaco e proprietario di schiavi Francis Salvador, «verosimilmente il primo ebreo del mondo moderno a ricoprire una pubblica carica [legislativa]».
In Nordamerica, nella colonia olandese di Nieuw Nederland, i primi ebrei arrivano in numero di ventitré – quattro uomini, sei donne e tredici bambini – da Recife dopo la riconquista portoghese della città (tuttavia, la registrazione del primo ebreo in assoluto riferisce la presenza in Virginia di Elias Legardo nel 1621 e di Rebecca Isaake e fratello nel 1624, e di Solomon Franco nel 1649 nel Massachusetts).
Richiamati dai confratelli Jacob Aboaf e Jacob Barsimon (quest’ultimo azionista della Compagnia delle Indie e per questo dotato del privilegio di risiedere nella capitale Nieuw Amsterdam anche contro le disposizioni delle autorità locali, che vietano l’ingresso agli ebrei), il 22 agosto 1654 i ventitré sbarcano dal vascello francese St. Catherine (Charles Segal ne riporta il nome quale St. Charles, al comando del capitano Jacques de la Motte, che li avrebbe liberati dai pirati) e si stabiliscono nel quartiere di Manhattan. L’insediamento avviene malgrado l’opposizione del governatore Peter Stuyvesant, il quale sostiene a spada tratta che «quando si dà qualche libertà agli ebrei, ne proviene sempre gran danno», poiché, «avvezzi all’usura, maestri dell’inganno, blasfemi del nome di Cristo, questa gente non ha altro dio che il denaro, non ha altro scopo che monopolizzare le correnti di traffico, espropriando i cristiani delle loro proprietà».
Il 18 marzo 1655 è il pastore Johan Megapolensis, amico di Stuyvesant, a lamentarsi, in una lettera indirizzata alla Compagnia: «Abbiamo accolto un certo numero di poveri ebrei […] ora si dice che ne siano in viaggio altri. Questo fatto ha generato lamentele e disordini. Perché gli ebrei non hanno altro Dio che Mammona e nessun altro scopo che di derubare i cristiani delle loro proprietà e di occupare per sé ogni commercio. Perciò Vi preghiamo di ottenere dai direttori disposizioni affinché questi furfanti senza Dio, che non sono buoni per il paese […] vengano fatti proseguire per altre terre». Le risposte da Amsterdam sono però invariabilmente negative poiché, sottolineano i direttori a Stuyvesant, respingere gli ebrei «sarebbe eccessivo e disdicevole, soprattutto avendo presenti le grandi perdite che tale nazione ha patito dalla conquista del Brasile e le rilevanti somme che essi hanno investito nella Compagnia».
Quanto alle colonie inglesi, la schiavitù resta proibita fino al 1661 (i primi negri, giunti nel 1619 in Virginia, non erano schiavi), fin quando cioè cinque ricchi ebrei di Filadelfia – tali Sandiford, Lay, Woolman, Solomon e Benezet – riescono a fare abrogare i divieti, impiantando tosto una fitta rete di corrispondenti sulle coste africane, in Olanda e in Inghilterra. Giusto un secolo dopo, nel 1761, sempre a Filadelfia, David Franks, membro di una delle più stimate famiglie negriere e padre di Rebecca, moglie del generale inglese sir Henry Johnson, è il primo firmatario di una petizione per l’abolizione di una tassa sull’importazione di schiavi. Quanto alla Georgia, giunti i primi ebrei nel 1733 e ripartiti a causa del divieto d’importare schiavi e liquori, una seconda calata di eletti si verifica nel 1749 dopo l’abolizione del divieto; ventidue anni dopo sono negri la metà dei 30.000 georgiani. Grazie al traffico schiavistico, anche Nieuw Amsterdam, caduta sotto il dominio inglese nel 1664 e ribattezzata New York, a partire dal 1730 diviene la più ricca città coloniale d’America, pur essendo politicamente meno importante di Boston e Filadelfia.
Una delle fonti su tale aspetto, tenuto celato al grande pubblico, sono i Documents Illustrative of the History of Slave Trade in America conservati al Carnegie Technical Institute di Pittsburgh, Pennsylvania (consultati anche da Louis Farrakhan, docente e capo religioso della Nation of Islam, per The Secret Relationship).
Sarebbe invece vano consigliare al lettore di ricorrere allo Jüdisches Lexikon, al Dictionary of American Biography (per il quale lo schiavismo è argomento innominabile), alla Jewish Universal Encyclopaedia edizione 1942 (che dice Aaron Lopez «uno dei più rinomati mercanti della Nuova Inghilterra prima della Rivoluzione americana e forse l’uomo d’affari ebreo di maggiore successo dei suoi tempi negli Stati Uniti») o al Rader Marcus, che dice Lopez «merchant-shipper, patriot, philanthropist» (similmente Charles Segal lo dice semplicemente «a merchant prince e armatore per la caccia alla balena, con trenta navi che commerciavano coi paesi europei e le Indie Occidentali», tralasciando il benché minimo accenno all’attività schiavistica). Nessuno infatti lo avviserebbe, ad esempio sempre in riferimento al Lopez, che la fortuna del Nostro è venuta soprattutto dal traffico negriero, da lui controllato per una quota del cinquanta per cento nel ventennio 1756-74.
Anche perché il Rader Marcus osa scrivere letteralmente, quanto al «”triangular” method of trading» (nella sua «forma classica»: schiavi dall’Africa ai Caraibi, zucchero e melassa dai Caraibi alle Colonie, rum dalle Colonie all’Africa): «New York and Georgia Jewish shippers sometimes engaged in this business, but such voyages were exceptional for them. Isaac Da Costa of South Carolina was for a time active in slave trade; numerous transactions of Aaron Lopez of Newport in this traffic were recorded. It is difficult to determine the extent of partecipation in the trade by Jewish merchants in relation to the trade as a whole, Talora armatori ebrei newyorkesi e georgiani si inserirono in questa attività, ma tali viaggi furono per loro un’eccezione. Isaac Da Costa della South Carolina fu attivo nel commercio schiavistico solo per un periodo; in tale traffico si registrarono [anche] numerosi interventi di Aaron Lopez di Newport [in altro passo il Rader Marcus ci parla di «frequent ventures in the slave trade», che negli anni Sessanta Lopez inviò «una nave» in Africa «pratically every year», che nel decennio seguente «the traffic was increased» e che in certi anni inviò anche tre, e «perfino» quattro, navi «on the long arduos trip, nel lungo e difficile viaggio»]. È arduo determinare l’ampiezza della partecipazione dei mercanti ebrei in tale commercio, rispetto all’intero traffico».
Più onesta delle opere consorelle e del Rader Marcus, per quanto anch’essa altamente riduttiva, è invece la Judaica, che apre la voce Slave Trade con lo schiavismo praticato dalle Dutch & Portuguese West India companies («Jews appear to have been among the major retailers of slaves in Dutch Brazil, gli ebrei sembrano essere stati tra i maggiori trafficanti di schiavi nel Brasile olandese») e facendo i nomi di alcuni stimati «importatori».
Rimpolpando la lista, di essi ricordiamo gli «olandesi» David Israel, Abraham Querido, Abraham Cohen Brazil, Jeudah Henriquez, N. Deliaan, Jan de Lion alias Joao de Yllan e Manuel Belmonte per il Brasile, la famiglia Jessurin per Curaçao, i fratelli David e Jacob Senior alias Philipe Henriquez per il Brasile e le Antille; lo «spagnolo» Andrew Lopes alias Andreas Alvares Noguera per il Messico; i «portoghesi» Joseph Nunez de Fonseca alias David Nassi, A. Perera e Isaak de Joseph Cohen Nassy per il Surinam, (E)manuel Alvares Correa e Manuel de Pina alias Jahacob Naar per Curaçao e il Messico; per Barbados e Giamaica gli «inglesi» David Enriques, Hyman Levy e Alexander Lindo (il figlio Moses Lindo, portatosi nella South Carolina, vi svilupperà una vasta attività produttiva, in particolare nella fabbricazione dell’indaco); per Santo Domingo i «francesi» David, Benjamin, Abraham e Moses Gradis di Bordeaux, monopolisti del commercio di zucchero in Francia e approvvigionatori delle truppe francesi nel Quebec, proprietari di 26 navi, tutti partecipi dell’«infamous triangular trade» (per un approfondimento vedi The Secret Relationship, per il 95% per cento basato su fonti ebraiche e la cui validità scientifica resta semplicemente eccellente, malgrado le accuse di «antisemitismo» con le quali i più vigili ebrei tentano di screditare l’opera).
Nato nel 1731 in Portogallo e immigrato nel 1752 a Newport, Rhode Island (mentre nelle altre colonie l’ingresso agli ebrei continua ad essere ostacolato, l’abolizione del divieto nel 1658 da parte della città di Providence, retta dal free-thinker Roger Williams, ha portato alla nascita di un secondo insediamento ebraico nel piccolo porto di pescatori), l’antico «Prince of the Slave Trade», oggi noto come «un grande mercante famoso per la sua bontà d’animo», al fine di aggirare le residue leggi anti-schiaviste importa negri come household servants, «domestici» (exempli gratia, 4697 individui nella sola Newport e nel solo 1756).
Quanto ai profitti, si pensi che dal brigantino La Fortuna Lopez sbarca con un unico viaggio 217 individui pagati 4300 dollari, viaggio compreso, rivendendoli a 41.438 dollari. Ancor più, nel maggio 1752 l’Abigail lascia Newport carica di 9000 galloni di rum, ferro, polvere, pistole, cianfrusaglie ornamentali e catene, che scambia in Africa con merce umana; ogni schiavo, il cui valore dipende da sesso, età e stato di salute, costa 100-200 galloni di rum, diluito a metà con acqua, o anche cento libbre di polvere; di fronte ad un prezzo di acquisto di 18-20 dollari, lo schiavo viene venduto a 2000 dollari. È in ogni caso ben vero che, a spiegare il divario tra i costi e i ricavi, alla traversata ne sopravviverebbe solo uno su dieci, con perdite quindi del 90%; si è anche avanzato che nell’arco del Settecento, il «secolo d’oro» dei negrieri, siano stati annualmente strappati alle loro terre addirittura cinque-nove milioni di negri; considerata la possibilità di trasporto dell’epoca, tali cifre sono certamente troppo elevate; nel 1969 Philip Curtin, rettore della facoltà di Storia all’Università di Madison, Wisconsin, valuta il totale generale dei negri deportati oltreoceano in una cifra posta tra 10 e 30 milioni, oltre a perdite del 20%.
Ma tornando a Lopez, il Nostro, dando piena conferma dei timori espressi da Megapolensis, richiama decine di confratelli: quaranta famiglie danno vita in pochi anni ad una prospera comunità giudaica. Il commercio del pesce, la fabbricazione di candele (Lopez guida una catena di diciassette stabilimenti), sapone e bevande alcooliche (22 distillerie punteggiano in breve Newport) sono monopolio ebraico. Nel 1759 vengono posate le prime sei pietre (Lopez posa la prima, Isaac Elizer la quarta) della locale sinagoga Jeshuat Israel, che verrà inaugurata quattro anni dopo (a New York, prima in America, una sinagoga è presente dal 1682). Attive sono anche le logge massoniche: la prima, costituita nel 1749, conta 12 ebrei su 14 affiliati; la seconda, King David, viene fondata nel 1769, con affiliati tutti ebrei (al contempo, il cantor Isaac Da Costa è tesoriere della loggia King Solomon n.1, la più antica della South Carolina, e amministratore della paramassonica Palmetto Society). Fitti sono i legami coi confratelli delle altre città, solidi per rapporti commerciali e vincoli familiari. Due figlie di Lopez, Esther e Abigail, vanno in spose ai fratelli Moses e Isaac Gomez di New York, partecipi del lucroso traffico schiavistico (Lewis/Luis Gomez, patriarca della famiglia nato a Madrid nel 1660, si porta a New York nel 1703 e muore nel 1740, padre di cinque figli).
Partecipe della ribellione alla Corona, coi confratelli, Lopez arma navi da corsa contro i traffici inglesi, mentre Haym Salomon e Benjamin Jacobs di New York, Aaron e Simon Levy di Lancaster, Benjamin Levy, Hyman Levy e Isaac Moses di Filadelfia, Jacob Hart, Philip Minis, Michael Gratz, Abigail Minis e le cinque sorelle, e i fratelli Levi/Lewis e Mordecai Sheftall di Savannah salvano il Congresso dalla bancarotta elargendo ai rivoluzionari, a condizioni ultra-favorevoli (per i prestatori), centinaia di migliaia di dollari. Inoltre, se sono ebrei nove dei firmatari del Non Importation Act e la rivolta vede un centinaio di ebrei nelle file di Washington (taluno, accettando le cifre ufficiali della presenza ebraica nelle colonie, afferma trattarsi della quota più alta rispetto ad ogni altro gruppo nazionale), non è però esatto affermare che l’ebraismo americano si schieri compatto coi ribelli.
Certo, l’esercito rivoluzionario è il primo nella storia a consentire agli ebrei di astenersi da ogni servizio nel sabato, e certo gli ebrei restano defilati a compiti di intendenza (nessun ebreo risulta tra i caduti); certo, la metà degli ebrei vengono fatti ufficiali all’atto dell’arruolamento; certo, il bisogno di sale, foraggio e merci più varie li innalza agli occhi dei capi goyim; certo, il ruolo di ufficiali pagatori permette loro altissimi guadagni ed entrature politiche; certo, Robert Morris può ben essere definito «il vero genio finanziario della Rivoluzione»; certo, il suo «disinteressato» socio, l’ex «polacco» Haym Salomon, è tramite col console francese di Filadelfia, finanziatore dei ribelli, e coi confratelli fa fortuna trafficando azioni e buoni del Tesoro francesi, spagnoli e olandesi (oltre ai sottoelencati schiavisti, ricordiamo Philipp Mines e certi Cohen e Pollock; Haym è poi sposo a Rachel, figlia del newyorkese Moses Franks, fratello del già detto filadelfiano David, imparentata con tutta una serie di altri Franks, tra i quali Jacob Franks, l’inviato delle colonie presso gli inglesi durante le guerre franco-indiane, il maggiore David Solesbury Franks, mercante di Montreal e superiore del «supremo traditore» goyish Benedict Arnold, il colonnello Isaac Franks); certo, il 1776 libera da ogni gravame gli eletti (fino al 1737 nessun ebreo può coprire una carica pubblica, è del 1737 l’elezione a deputato, per New York, del primo ebreo; certo, allo scoppio della sommossa, determinata dall’introduzione di tasse su tè, zucchero e melassa, gli ebrei sono stati i commercianti più colpiti e i protestatari più attivi (ma il nostro Aaron Lopez, tacciato di «violatore in capo» dal reverendo Ezra Stiles, ignora la protesta, traendone anzi vantaggio, coi Gratz di Filadelfia, attraverso l’importazione di merci di contrabbando).
E tuttavia, in virtù dei legami coi confratelli in Europa e della fedeltà alla Corona dell’ebraismo britannico, il gioco è meno schematico di quanto appaia: certo è che la rete dello spionaggio regio, diretta dal nuovo Intelligence Office, diviene presto universalmente nota come «Jewish affaire», affaire ebraico (in virtù dell’usuale «duttilità» internazionale, già con Cromwell e con Guglielmo d’Orange l’ebraismo aveva costituito un tramite spionistico indispensabile). Fornitori delle truppe britanniche (polvere da sparo, coperte, armi, vettovaglie e foraggi) in tutte le guerre dell’epoca – da quella dei Sette Anni alla «rivolta del tè», passando per quelle contro gli indiani, compreso il conflitto del 1763, condotto da sir Jeffrey Amherst con la strategia delle coperte infette di vaiolo – sono inoltre Joseph Bueno, Jacob Franks (nominato fornitore ufficiale dell’esercito regio) e il figlio David, Uriah Hendricks, Samuel Jacobs, Samuel Judah, Gershon Levy e Hyam Myers, Hayman Levy, Levy Andrew Levy (uno degli untori di Amherst), Nathan e Simpson Levy, Benjamin Lyon, Naphtali Hart Myers, Joseph Simon, Sampson Simson, Ezekiel Solomons e Levy Solomons.
Ma indietreggiando di un passo: «Lopez possedeva 150 navi impiegate nel commercio estero ed interno», continua la Jewish Universal Encyclopaedia, pudicamente tacendo di quale tipo fosse il commercio. La sua morte per annegamento, avvenuta il 28 maggio 1782 (viene sbalzato da cavallo nei pressi di Providence e precipita in un banco di sabbie mobili), «was the greatest misfortune that ever had befallen Newport, fu la maggiore sventura che sia mai capitata a Newport». La città, già provata dall’occupazione britannica, va incontro ad un tale declino economico che gli ebrei sciamano in pochi anni a New York, Richmond e Charleston (a Newport nasce nel 1776 Judah Touro che, portatosi a New Orleans, sarebbe divenuto il più facoltoso mercante del primo Ottocento). La parabola dell’esperienza ebraica newportiana, esempio tra i mille di ogni epoca, la compendiano le parole di William Stowe, speaker del parlamento californiano, pronunciate nel 1855 per mettere in guardia i concittadini dall’accogliere ulteriori eletti, «who only came here to make money and leave as soon as they effected their object, che arrivano solo per far soldi e se ne vanno non appena raggiunto lo scopo». Comunque, nel 1792 si chiude la sinagoga, mentre nel 1822 la morte del penultimo ebreo induce il compagno a spostarsi a New York.
Ricordato e pianto per anni dai concittadini (così la JUE), Lopez resta «negli annali della Nuova Inghilterra, come nella storia dell’ebraismo americano, […] uno dei pionieri che hanno largamente favorito il commercio americano nei confronti del commercio estero». Un ditirambo in un giornale di Newport lo loda quale rappresentante delle «più amabili perfezioni e virtù cardinali che possano abbellire l’animo umano». Anche Stiles annota, ammirato: «Era ebreo per nascita […] un mercante di prima grandezza […] probabilmente non superato da nessun altro in America».
Dopo La Fortuna, la più famosa delle navi di Lopez (il quale, come detto, dal 1756 al 1774 tiene sotto controllo il cinquanta per cento del traffico schiavistico), altre imbarcazioni schiavistiche, da 30 a 400 tonnellate di stazza, armate nel periodo 1702-1806 da ebrei, per la massima parte intercollegati in società, sono:
Abigail e Active di Aaron Lopez, Mose Levy e Jacob Franks; Africa, Betsy, Cleopatra, Hannah, Mary e Greyhound di Jacob Rivera e Aaron Lopez (in seguito, l’ultima viene acquistata da Moses Levy); Albany e Leghorn di Rodrigo Pacheco; Ann, Betsy e Polly, appartenenti a James De Wolf, «the most active slave traders in Bristol» (che nel 1791 getta in mare una schiava colpita dal vaiolo, sfugge alla giustizia e nove anni dopo viene eletto al Senato) e ai quattro fratelli Charles, William, John e Levi, che investono i capitali ricavati dal commercio di carne umana in distillerie e tessiture; Anna di John Abraham; Anne and Eliza di Justus Bosch e John Abrams; Antigua di Abram Lyell e Nathan Marston; Barbadoes Factor, Dolphin, Charming Polly, Charming Sally, Hannah, Polly e Prince Orange di Joseph Marks; Belle, Delaware, Mars e Gloucester di Moses e David Franks (dell’ultima è comproprietario anche Isaac Levy); Betsey di Samuel Jacobs (attivo dal Canada);
Charlotte, Caracoa e Duke of York di Jacob Franks (le prime anche di Moses e Sam Levey); Charming Betsey di Samuel Levy; Confirmation, Defiance, Diamond, Dolphin, General Well, General Webb, Lord Howe, Perfect Union, Rabbitt e Rising Sun di Naphtali, Isaac ed Abraham Hart; Crown Gally e New York Postillon, di Isaac Levy e Nathan Simpson (il Rader Marcus scrive: Simson); David, Jane, l’Alliance, le Parfait, le Vainqueur, Patriarch Abraham e Polly di Abraham Gradis; Deborah di Samson Levy e altri; De Vrijheid («La Libertà», sic!) e Juffr. Gerebrecht dei Senior; Drake, Myrtilla, Parthenope, Phila e Sea Flower di Nathan Levy e David Franks; Dreadnought e Orleans di Hayman Levy; Duke of Cumberland di Judah Hays; Eagle, Hiram e Union di Moses Seixas; Expedition di John e Jacob Rosevelt; Fortunate, George, Hope, Lark, New York e Royal Charlotte di Lopez; General Well e Mary and Ann di Mose Levy;
Hardy, Sampson, Snow Union e Polly del newyorkese Sampson Simson; Hester ed Elizabeth di David e Mordecai Gomez (la prima verrà poi acquistata da Rodrigo Pacheco); Hetty di Mordecai Sheftall; Jane, Nancy e Rebecca di David G. Seixas (le due ultime anche di Benjamin S. Spitzer e Joseph Bueno); Joseph & Rachel dei fratelli Moses, Joseph e Samuel Frazon; Juf Gracia di Raphael Jesurun Sasportas; King George, Peggy e Shiprah di Naphtali Hart; Lydia di Rachel Marks e altri; Mary & Abigail di Abraham de Lucena e Justus Bosch; Nancy di Myer Pollack; Nassau e Four Sisters, di Isaac e Mose Levy; Pearl di Emanuel Alvares Correa e Moses Cardozo Abraham Hart; Prince George di Isaac Eli(e)zer e Samuel Moses; Prudent Betty di Jacob Phoenix ed Henry Cruger; Rebecca di Moses Lopez; Sally di Saul Brown; Santa Maria di Luis de Santagel e Juan Cabrero; Sherbo, Three Friends e Spry di Jacob Rivera (l’ultima anche di Lopez); Two Sisters di John Franks; White Horse di Jan de Sweevts; Young Catherine e Young Adrian di Mordecai Gomez e Pacheco.
Basata a Richmond è la ditta di Jacob I. Cohen ed Isaiah Isaacs, poi fornitori del vettovagliamento delle truppe rivoluzionarie, due soci i cui interessi, c’informa il Rader Marcus, «erano molteplici; essi erano in primo luogo mercanti, ma la ditta commerciava anche in terre, immobili e schiavi».
Sempre con base a Newport sono invece schiavisti il «portoghese» James Lucena (cugino del «grande» Aaron Lopez, stabilitosi nel Rhode Island nei primi anni Cinquanta, viene naturalizzato dall’Assemblea Generale della colonia il 31 dicembre 1760, compiendo giuramento sulla «true faith of a Christian»; si trasferirà a Savannah pochi anni dopo), il già detto filadelfiano David Franks (che Segal ci dice sposato ad una cristiana, ardente tory e altrettanto ardente oppositore, con Samson Levy e Joseph Marks nel 1761, della proposta di introdurre un dazio sull’importazione di schiavi), il suocero di Lopez Jacob Rodriguez Rivera, Isaac Elizer, Samuel Moses e Moses Lopez, fratellastro di Aaron. Inoltre, i quattro fratelli Brown: John, Josey, Nick e Moses (questi fattosi quacchero nel 1773), che impegnano i capitali impiantando fabbriche di candele, monopolizzandone il commercio, fondendo cannoni per Washington e fondando il primo cotonificio americano.
Anche nel New England come nel Lancashire e nelle Midlands inglesi, commentano Daniel Mannix e Malcolm Cowley, «fu la tratta dei negri a fornire la maggior parte dei capitali che contribuirono alla rivoluzione industriale», mentre Henry Feingold, con ammirevole understatement quanto al ruolo dei confratelli, aggiunge: «Il traffico in esseri umani operato da portoghesi, olandesi, francesi ed inglesi costituì un elemento essenziale dell’accumulazione dei primi capitali, necessaria per lo sviluppo del sistema capitalista, e gli ebrei che si erano spesso trovati al centro delle attività commerciali non potevano avere mancato di contribuire al traffico schiavistico, direttamente o indirettamente».
Trafficanti a Charleston (sulle 128 navi negriere registrate nel 1707 ben 120 sono proprietà di ebrei) sono i precursori Asser Levy e suo cognato Simon Valentine (che negli ultimi anni Ottanta del Seicento si era portato da New York alla Giamaica, trafficando a Port Royal in indaco, farina, zucchero e negri, rientrando poi in South Carolina dopo il terremoto del 1692, col socio Jacob Mears), Feliz de Souza, anch’egli noto come the Prince of Slavers, Simeon Potter (zio dei De Wolf), Solomon Isaacs di New York, Moses Benjamin Franks (il figlio Isaac, 1759-1822, sarà massone, speculatore terriero, tenente colonnello approvvigionatore, giudice di pace e capo-cancelliere della Corte Suprema di Filadelfia), Isaac Da Costa («probably the most outstanding Jew of Charleston before the Revolution»), i fratelli Benjamin, Isaac, Manuel, Eleanora, Gracia e Jacob Monsanto della Louisiana, Hyman Levy col dipendente Nicholas Low (socio del goy John Jacob Astor nel traffico di pelli con gli indiani, in cambio di alcoolici), Benjamin Levy, Jacob Turk e Abraham Pereira Mendez. È costui a indirizzare, il 29 novembre 1767, alte lagnanze al «padrino»: «Questi negri che il capitano Abraham mi ha consegnato sono in condizioni così misere, dovute al cattivo trasporto, che sono stato costretto a vendere otto ragazzi e ragazze per sole 27 sterline, due altri per 45 sterline, due donne per 35 sterline ciascuna»; il capitano Abraham, protesta, lo ha imbrogliato, cheating; lui, il buon Abraham Pereira Mendez, non è un uomo avido, ma Lopez deve rimborsarlo per il denaro che non ha incassato dalla vendita dei dodici articoli, commodity.
Oltre ai detti, altri ebrei che si arricchiscono trafficando il black ivory (o black gold), promuovendo la «peculiare istituzione» quali finanziatori, trafficanti, armatori e proprietari di navi sono: Abraham All (all’inizio della carriera, capitano di navi), Isaack Asher, Maurice Barnett (socio di Jean Lafitte), Jacob Barsimon, Amon Bonan, Simon «Simon the Jew» Bonane o Bonave, Saul Brown nato Pardo, Isaac Carregal, Abraham e Solomon Myers Cohen, Simja De Torres, Isaac Dias, Jacob Fonseca, Aberham Franckfort, Luis Gomas, Daniel e David Gomez, Isaac Gomez, Ephraim Hart, Harmon e Uriah Hendricks, Uriah Hyam, Abraham e Joshua Isaacs, Jacob Isaacs, Joseph Jacobs, David Jeshurum, Delancena Jew, Benjamin S. Judah, Cary Judah, Elizabeth Judah, il pirata «patriottico» louisianico primo-ottocentesco e massone Jean Lafitte (nato a Port-au-Prince nel 1792; la nonna Maria Zora Nadrimal e il nonno materni sono ebrei, come ebrea è la moglie Christina Levine, nata nelle Isole Vergini; nel 1812, rileva lo studioso ebreo Harold Sharfman, Lafitte è «il più grande trafficante dell’intero West»; in seguito fabbricante di polvere per cannoni, di acquavite e armatore, nel 1847-48 è a Bruxelles, ove conosce Karl Marx e Friedrich Engels, a Parigi, Berlino, Amsterdam, Londra ed in Svizzera), Moses Levey, Arthur Levy, Eleazar Levy, Isaac H. Levy, Jacob Levy, Joseph Israel Levy, Joshua Levy, Moses Levy, Uriah Phillips Levy, Sarah Lopez, James Lucana, Jacob Malhado, Isaac D. Markeys, Isaac R. Marques, Moses Michaels, (E)manuel Myers, Seixas Nathan, Simon Nathan, David Pardo, Isaac Pinheiro, Jacob Pinto, Rachel Pinto, la vedova di D. Roblus, Abraham Seixas, Abraham Sarzedas, Solomon Simpson, Abraham Touro, Benjamin Wolf e Alexander Zuntz.
Che talune autorità religiose ebraiche abbiano giustificato per due secoli tale commercio, lo dice oggi anche Malcolm H. Stern (Jewish Week, 14 marzo 1976): «[Il 4 gennaio 1861] Rabbi Morris [Jacob] Raphall, nato in Svezia, capo della congregazione newyorkese B’nai Yeshurun, tenne dei sermoni, largamente riportati dalla stampa, che dimostravano l’origine e la giustificazione bibliche della schiavitù».
E che dire del grande Maimonide, la cui “Guida per i perplessi” – codice d’importanza pari al Talmud che permette agli ebrei, in nome del giudaismo, di ridurre in schiavitù i ragazzi goyish – segna dal Medioevo la strada agli Arruolati?: «Quanto a “coloro che sono fuori dalla città”, sono tutti gli esseri umani privi di credenze religiose, di capacità di ragione, di tradizione, come gli ultimi turchi [leggi: la razza gialla] all’estremo nord, i negri all’estremo sud e quelli che somigliano a loro nelle nostre regioni. Essi sono da considerare bestie prive di ragione; io non li pongo al livello degli esseri umani, perché secondo me occupano tra i viventi un livello inferiore a quello dell’uomo e superiore a quello della scimmia, in quanto hanno la figura e i lineamenti dell’uomo e una capacità di ragione [la traduzione francese di Salomon Munk ha: discernement] superiore a quella della scimmia» (III, 51).
E che dire del paragrafo 322 del “Libro dell’Educazione” – composizione stesa da un anonimo rabbino spagnolo nel primo Trecento e che illustra e motiva i 613 comandamenti del giudaismo – il quale impone l’obbligo della schiavitù eterna per i goyim (mentre l’ebreo reso schiavo va rimesso in libertà dopo sette anni?: «Alla base di questo comandamento religioso [è il fatto che] il popolo ebraico è il migliore della specie umana, creato per conoscere il suo Creatore e onorarLo, e degno di possedere schiavi che lo servano. E se gli ebrei non possedessero schiavi di altri popoli, dovrebbero fare schiavi i loro fratelli, i quali non sarebbero allora in grado di servire il Signore, benedetto Egli sia. Per questo motivo ci è imposto di possedere quelli per il nostro servizio, dopo che siano stati addestrati per questo e dopo che l’idolatria sia stata allontanata dai loro discorsi, cosicché non vi sia pericolo nelle nostre dimore, e questo è l’intento del versetto “ma non dominerete sui vostri fratelli, i figli di Israele, con oppressione” [Levitico XXV 46], cosicché non dovrete rendere schiavi i vostri fratelli, che sono tutti predisposti per onorare Dio».
Quanto all’America, a giustificare la schiavitù si schierano, dopo il georgiano Joseph Solomon Ottolenghe (nato a Casale Monferrato da «pious, poor, but honest people», docente e schochet a Mondovì e imparentato con alcune delle più distinte famiglie ebree d’Europa, tra le quali quella dello zio materno Gabriel Treves, facoltoso mercante londinese di tabacco, del quale ha sposato la figlia Deborah) a metà Settecento, i rabbini George Jacobs di Richmond, James Gutheim di New Orleans e Simon Tuska di Memphis, e i giornalisti Jacob Cardozo, Edwin De Leon, Isaac Harby, Solomon Heydenfeldt e David Naar.
Come scrive l’insigne storico ebreo Salo Baron, «i mercanti ebrei, i banditori d’asta e gli agenti ebrei negli Stati del Sud continuarono a comprare e vendere schiavi fino al termine della Guerra Civile […] In nessun momento gli ebrei sudisti si sentirono disonorati dal traffico degli schiavi». Fino al 1865 operano infatti mercanti quali Levy Jacobs di New Orleans e Mobile, i fratelli Ansley, i tre fratelli Benjamin, George e Solomon Davis di Richmond e Petersburg, B. Mordechai di Charleston, Jacob Levin di Columbia nel South Carolina, Israel Jones di Mobile, Rudolph Blumenberg, Henriques da Costa, Benjamin Isaacs, John Levy e Fred Myer.
Iniziato però il declino dell’affaire già nel primo Ottocento, l’ebraismo nordista, secondando l’allucinato candore delle più accese sette cristiane, si getta a corpo morto nella causa antischiavista coi rabbini David Einhorn di Baltimora (suocero del già detto Rabbi Kaufman Kohler), Liebman Adler e Bernhard Felsenthal di Chicago, il «livornese» Sabato Morais di Filadelfia, l’«inglese» Gustav Gottheil, in seguito rabbino newyorkese del Temple Emanu-El, e il reverendo Samuel M. Isaacs di New York (Isaac Mayer Wise e il collega Isaac Leeser restano neutrali), mentre l’industria e la grande finanza delle metropoli del Nordest si schierano compatte contro il Sud (a dar prova della singolare «affezione» ebraica alla «patria», il Rader Marcus c’informa che già nel 1740 la Comunità georgiana, per cause puramente economiche, aveva abbandonato il paese per più prosperi lidi: «Negro slavery was prohibited, the liquor traffic was forbidden, land tenure was hedged in, the lots were often swamps, and utopia had failed to materialize. And, this was equally significant, there were just as many opportunities in other colonies and no hampering legal restrictions, la schiavitù era stata proibita, il traffico di liquori egualmente, il possesso della terra limitato, i terreni si erano spesso impaludati, e l’utopia non si era materializzata. E, cosa altrettanto significativa, c’erano appunto numerose opportunità in altre colonie, senza l’ingombro di restrizioni legali»).
Riassumendo alcuni aspetti della bisecolare vicenda schiavistica – troppo ardito sarebbe suggerire al lettore un parallelismo tra quella tragedia e l’attuale invasionismo terzoquartomondiale dell’Europa? – così scrive un ottimo Raimondo Luraghi (corsivo nostro): «Sulle coste africane i negrieri acquistavano gli schiavi dagli stessi capitribù locali i quali vendevano loro i prigionieri di guerra, le vittime delle razzie, spesso gli stessi loro sudditi. La schiavitù domestica era esistita da tempo immemorabile nell’Africa nera: ma ora la richiesta pressante stimolava ad accentuare la caccia agli schiavi. Le condizioni particolari della colonizzazione delle Americhe avevano posto le premesse per lo sviluppo in piena età moderna di un commercio di schiavi su larga scala quale solo il mondo antico aveva conosciuto: giova però dire che spesso furono i negrieri (e le potenze mercantili che stavano alle spalle di costoro) a “forzare” l’introduzione di schiavi in America oltre il livello richiesto dalle esigenze produttive per aumentare i lucro loro derivante da tale traffico».
«I puritani della Nuova Inghilterra presero la schiavitù e la tratta con tutta serietà come una delle speciali benedizioni riservate da Dio ai suoi eletti; non fu quindi per motivi morali o umanitari che dopo qualche tempo la schiavitù nel Nord si estinse e scomparve. Da un lato infatti il lavoro schiavistico non era idoneo alle attività commerciali e manifatturiere di quella sezione; dall’altro i modesti lavoratori, i piccoli contadini, gli artigiani, i marinai di pelle bianca furono colà i più risoluti avversari della schiavitù poiché non volevano assolutamente aver a che fare con la concorrenza della mano d’opera servile; il clima e il terreno infine non erano adatti allo sviluppo della grande piantagione, l’unica che potesse utilizzare proficuamente il lavoro del bracciantato agricolo schiavo».
«La scomparsa della schiavitù nel Nord non significò comunque l’abbandono della tratta da parte dei mercanti e del marinai della Nuova Inghilterra e, in genere, settentrionali: essi vi facevano affari d’oro, comperando nelle Indie Occidentali la canna da zucchero o la melassa che, trasportate nei porti nordisti, vi venivano trasformate in rum. Da qui le loro navi ripartivano cariche di liquore alla volta dell’Africa, ove il rum veniva cambiato in… schiavi, in ragione di un barile di rum da quattro dollari per ogni singolo schiavo. Costoro venivano poi sbarcati nei porti del Sud, dopodiché la nave ripartiva per le Indie Occidentali, a caricare altra melassa e canna da zucchero. Ciò salvava anche la “faccia”, in quanto apparentemente il vascello, arrivato con quest’ultimo carico nei porti nordisti o europei e ripartitone carico di rum, rientrava con nuova melassa e canna da zucchero. La tratta rimaneva “invisibile”».
E quanto ai sudisti? Quanto ad essi, «le loro navi ebbero ben piccola parte nella tratta: le statistiche mostrano che, durante gli ultimi otto anni dell’importazione legale degli schiavi dall’Africa, non più che il 6% delle navi negriere entrate nel porto di Charleston erano meridionali: il rimanente era dato da vascelli della Nuova Inghilterra e da alcuni europei. La gente del Sud seguiva con preoccupazione questo ingigantire del flusso di schiavi verso i suoi territori. Indubbiamente in quei tempi la tratta come la schiavitù non erano gravemente offensive della morale media, per cui l’ostilità dei sudisti all’infame commercio era dettata solo in piccola parte, e solo nei migliori, da preoccupazioni umanitarie. La causa reale della loro inquietudine era data dal fatto che essi assistevano alla trasformazione, loro malgrado, della propria terra in un grande paese ad economia schiavistica, con tutte le spiacevoli implicite conseguenze: pericolo di insurrezioni devastatrici, totale dipendenza della loro vita sociale dal lavoro servile, formazione di una enorme popolazione negra che avrebbe inevitabilmente generato gravi problemi di coesistenza; e, the last but not the least, crollo del prezzo degli schiavi quasi a zero (per effetto della legge della domanda e dell’offerta) sintantoché sarebbe diventato (per esempio in momenti di crisi) assai più economico liberarli che mantenerli, dando luogo ad un tale cataclisma sociale che l’intero mondo del Sud ne sarebbe stato distrutto».
«I sudisti, in sostanza, guardavano con timore l’ingigantire della schiavitù sul loro suolo perché prevedevano un giorno in cui essi avrebbero finito per trovarsi, per così dire, “schiavi della schiavitù”, con conseguenze forse tragiche per entrambi i gruppi etnici. Perciò di buon’ora le colonie del Sud emanarono provvedimenti che vietavano l’introduzione di nuovi schiavi mediante la tratta: ma il Governo britannico si affrettò ad annullarli, dichiarando che l’Inghilterra non poteva rinunciare ad un sì lucroso commercio, e il flusso continuò. I corrucciati uomini del Sud attesero la guerra d’indipendenza, ed allora si affrettarono (finita ormai ogni preoccupazione di obbedire a Sua Maestà britannica) a vietare la tratta nei loro Stati, per cui la Virginia fu la prima a proibire per legge quell’infame commercio. Nuovi sentimenti umanitari si facevano adesso strada; i capi della Rivoluzione, in gran parte meridionali come Washington e Jefferson, condannavano non solo la tratta, ma la schiavitù stessa con parole di fuoco. Ora, alla Convenzione costituente del 1787, la proposta di abolire la tratta nell’intera Unione fu avanzata formalmente; ma qui ci si trovò davanti all’ostilità degli Stati del Nord, che, prevalentemente marittimi, avevano ereditato tale odioso ma lucroso traffico dalla Gran Bretagna, e non intendevano rinunziarvi. In fin dei conti si arrivò ad una specie di compromesso e con atto del 1807, sotto la presidenza di Jefferson, la tratta fu ufficialmente abolita a decorrere dal 1â gennaio 1808. Un secondo atto del Congresso, nel 1820, la dichiarò pirateria, e punibile come tale. Tuttavia, sia pure come contrabbando, la tratta non scomparve del tutto. I meridionali non cessarono di denunciare i mercanti e le navi nordiste come responsabili di tale illecito traffico: e per la verità, ancora il 21 aprile 1861, quando l’agitazione antischiavista aveva raggiunto il culmine, e addirittura erano già state sparate le prime cannonate della guerra civile, il comandante Alfred Taylor, dell’incrociatore nord-americano Saratoga, informava di aver catturato una nave negriera della Nuova Inghilterra con un carico di 961 schiavi: si trattava della Nightingale, di Boston, diretta a New York. Dal 1808 comunque la massa degli schiavi esistenti negli Stati Uniti d’America non fu più aumentata mediante arrivi dall’Africa o da qualsiasi altro paese se non saltuariamente ad opera di contrabbandieri; rimaneva però sulle spalle del Sud e dell’intera Unione il terribile problema della schiavitù, ereditato dalle generazioni precedenti».
Analisi acute, quelle del Luraghi – ciò che importa rilevare è la demolizione dei più vieti luoghi comuni coi quali ancor oggi si tenta di infamare l’illuminato atteggiamento sudista – e tuttavia insufficienti a chiarire quella dinamica storica. Nell’opera resta infatti nell’ombra l’identità dei promotori della «peculiare istituzione», nessun nome, nessuna evidenza razziale viene data ai negrieri, talché resta alla fine l’impressione di un «gioco» giocato tra «bianchi», certamente «sudisti» ma anche «puritani della Nuova Inghilterra». Cosa però, visti i nomi in questione, del tutto inverosimile.
E tuttavia, elevandosi dalla storiografia ad accenni di filosofia della storia dopo avere elencato le cause del «conflitto irreprimibile» tra i due mondi, lo storico milanese, trattando del Sud, ci apre la strada a considerazioni di più ampia portata: «Nella nuova civiltà che si apriva energicamente il passo a nord della linea Mason e Dixon vedevano con orrore e spavento l’affermarsi di un genere di vita grigio e senza colore, l’avvento di un tipo di uomo pedestre e standardizzato. Il predominio del più energico negli affari e nell’industria sembrava loro dare inizio ad un’età infernale che avrebbe valutato gli uomini in base alla loro capacità di far denaro; nelle grandi cit8tà moderne essi osservavano piuttosto i sobborghi cupi e sterminati, l’atmosfera velenosa e pestilenziale, la standardizzazione monotona del modo di vita e degli ingegni, gli slums, l’avvento di un industrialismo distruttore della personalità umana. Se si pensa ai problemi più gravi che dovette poi e che deve ora affrontare non solo l’Unione americana, ma tutta la moderna società industriale, non si può negare lungimiranza a quei “passatisti”, difensori di un mondo rurale individualista».
«In effetti il Sud non si sentiva impegnato specificamente per la schiavitù, o per il libero scambio, o per i diritti degli Stati, o ancora per l’agricoltura o per altri motivi economici: ma per difendere una sua specifica “maniera di vita” che esso non voleva sacrificare; una “maniera di vita” in cui entrava per un verso o per l’altro tutto ciò che sopra si è elencato, ma che sarebbe inesatto ridurre all’uno o all’altro di questi suoi peculiari aspetti; una “maniera di vita” che esso temeva di veder stritolata sotto il rullo compressore dell’industrialismo avanzante. Non che i sudisti più colti e più lungimiranti non si rendessero conto che in questa “maniera di vita” c’era più di una zona d’ombra: la questione non stava qui. In realtà premeva ad essi di “non gettar via il bimbo insieme all’acqua sudicia”; e pensavano che per poter far questo (e poi pian piano eliminare l’acqua sudicia da sola) occorresse anzitutto difendere comunque il loro mondo contro le forze che parevano minacciare rovina».
Allarmate per gli sforzi che i reggitori sudisti stanno compiendo 1) per giungere, gradualmente, all’abolizione della «peculiare istituzione», ormai anti-economica, socialmente distruttiva e moralmente sempre meno accettabile, e 2) per rendersi autosufficienti contro le tariffe imposte e i ricatti economici avviando una propria industrializzazione – bramose inoltre 3) di non lasciarsi sfuggire quell’ampio mercato e 4) di impedire un suo autonomo organizzarsi per l’esportazione dei prodotti (ad esempio, per giungere sui mercati europei il cotone deve prima passare per New York e altri porti del Nord), l’industria nordista e la grande finanza «tedesca» dei Bache, Belmont, Goldman, Guggenheim, Hallgarten, Heidelbach, Ickelheimer, Kuhn, Lehman, Lewisohn, Loeb, Sachs, Schiff, Scholle, Seligman, Speyer, Straus e Wertheim che già domina l’industria tessile e va sviluppando – interconnessa oltretutto da vincoli non solo finanziari ma anche matrimoniali – un’economia integrata di scala e nuove forme di vendita (catene di department stores, grandi magazzini; mail order, il primo catalogo di ordini per posta viene stampato in una soffitta di Chicago nel 1872; i primi shopping centers seguiranno settant’anni dopo, ideati dall’«austriaco» Victor Grün) promuove, avanzando i più alti ideali, l’annientamento di una Nazione.
Punto di svolta epocale, questo, premessa indispensabile per imporre al mondo, contemporaneo e futuro, 1) l’industrialismo come «scelta» di vita, 2) il liberismo come arma dei più forti, 3) la democrazia come strumento politico per la distruzione di ogni civiltà «non conforme», 4) l’universalismo come obiettivo finale, prima dell’apertura del Regno. L’annientamento della Confederazione avrebbe costituito la prima tappa di tale percorso, «laico» ma in realtà religioso; la distruzione del cuore dell’Europa nella Grande Guerra, la seconda; lo scontro in terra spagnola nel 1936-39, la terza; la crociata congiunta di Democrazie e Comunismo contro l’Europa – contro nazionalsocialismo e fascismo, contro il Sistema di Valori indoeuropeo – la quarta.
Dobbiamo poi forse ipotizzare che, oltre al redditizio sfruttamento di un filone «che tira» e ad una callida operazione antirazzista a fini colpevolizzanti contro gli oppositori del Mondialismo, si possa parlare di atti di espiazione da parte dell’intellighenzia ebraica per quanto compiuto per secoli dai padri? Ciò potrebbe anche essere, visto che del traffico di schiavi gli ebrei sono stati per secoli i massimi tra gli ideatori, i promotori e i beneficiari. Prove certe di ciò abbiamo per gli eletti di Roma, per i quali, in particolare all’epoca di Giustiniano, tale commercio umano è la principale fonte di guadagno, sfidando i decreti degli anni 335, 336, 384, 415, 417, 438 e 743: «Trade in slaves constituted the main source of livelihood of the Roman Jews», scrive nel 1912 la Jewish Encyclopedia di Isadora Singer e Cyrus Adler.
Sotto Carlo Magno aggiungono Henri Pirenne, Hugh Trevor-Roper e Piero Sella, gli ebrei francesi, autorizzati da uno speciale editto imperiale e avendo a soci i confratelli spagnoli, «acquistano» in Europa e piazzano sui mercati musulmani i figli dei debitori: «traffico lecitissimo per allora», postilla l’Arruolato Guido Bedarida, benché i Monumenta Germanicae historica ce ne segnalino il corrente divieto, rinnovato nel 779, 781 e 845. Il «traffico lecitissimo» si espande ancor più sotto il figlio Lodovico il Pio, dominato dalla seconda moglie Judith, demi-juive figlia della «nobile sassone» Heilwich/Eigilwi e dello svevo conte Welf (capostipite della schiatta dei guelfi), coadiuvata dal gran cancelliere Elisachar, anch’egli ebreo, e dal diacono imperiale Bodo, convertito al giudaismo nell’839. Particolarmente richiesti sono gli schiavi per gli harem, che gli ebrei provvedono a consegnare castrati, in quanto la barbara operazione è proibita in tutto l’Islam; Narbona e Verdun sono le principali «officine» dove, prima di esportare il «prodotto», si provvede all’«elaborazione».
Già subito dopo la caduta dell’Impero Romano, scrive Pirenne, «alcuni ebrei erano marinai o proprietari di battelli; altri possedevano terre coltivate da coloni o da originarii; altri ancora erano medici. Ma l’immensa maggioranza di essi si dedicava al commercio o al prestito ad interesse. Molti erano mercanti di schiavi, per esempio a Narbona […] È naturalmente impossibile ammettere che i mercanti orientali, ebrei ed altri, si contentavano d’importare nel bacino del Mar Tirreno senza nulla esportarne. È evidente che i battelli riportavano carico di ritorno. Il principale carico dev’essere consistito in schiavi […] Una gran quantità di mercanti si occupavano di questo commercio di schiavi: in massima parte ebrei, a quanto pare. Il concilio di Macon nel 583 permette ai cristiani di riscattare dagli ebrei i loro schiavi per dodici soldi, sia per dar loro la libertà, sia per prenderli al proprio servizio. Si citano mercanti di schiavi ebrei a Narbona ed a Napoli. Possiamo concludere da tutto questo che un importante commercio di schiavi esisteva sulle coste del Mar Tirreno e non sembra dubbio che i battelli che trasportavano le spezie, la seta, il papiro, li trasportassero come carico di ritorno in Oriente». Lungi dal danneggiare il Popolo Disperso, la distruzione dell’antica unità mediterranea provocata dall’irrompere dell’Islam accresce la sua importanza: «In queste condizioni a sostenere il commercio non restano che gli ebrei. Essi sono numerosi dappertutto; gli arabi non li hanno cacciati né massacrati ed i cristiani non hanno cambiato atteggiamento riguardo a loro. Costituiscono dunque la sola classe la cui sussistenza sia dovuta al traffico […] La loro grande specialità, come si è visto sopra, era il commercio di schiavi».
Similmente, quanto all’Europa orientale, Josef Leo Seifert, riportando le conclusioni dello storico polacco L. Niederle: «È un ruolo interessante, quello che l’ebreo assolve all’inizio della storia slava. Non appena compaiono le prime informazioni sulla vita degli slavi e sulle loro relazioni con l’estero, già esse riguardano gli ebrei, lo judaeus mercator della Leggenda di Adalberto – e già l’ebreo media, scambia, commercia di tutto, arrivando dovunque e divenendo ricco. È disprezzato, colpito sia da cristiani che da musulmani, ma ciò non gli impedisce di tenere con mano sicura le negoziazioni persino tra questi due mondi stessi. Lo vediamo anche membro di ambascerie, ad esempio presso Carlo Magno negli anni 802 e 807, e presso Ottone I. Nel 965 i chesdaj chiesero agli ebrei di fare gli intermediari nella loro corrispondenza con il khan dei cazari. Molto contribuì a ciò il loro talento linguistico. Essi padroneggiavano l’arabo, il persiano, il greco, il francese, lo spagnolo e lo slavo; commerciavano di tutto, ma dominavano totalmente il commercio degli schiavi. Questa era la loro specialità, il commercio di uomini. Gli ebrei comperavano e vendevano ragazzi e ragazze slavi, sia in Oriente sia in Spagna, e la maggior parte delle fonti ci sottolineano espressamente che gli ebrei di Spagna procedevano alla loro castrazione, essendo i grandi fornitori di eunuchi slavi nell’intero mondo maomettano [virtuoso, sulla «terra di Esklavonia», il reportage di Benjamin da Tudela: «gli ebrei che vi abitano la chiamano Kenaan, perché la gente del posto vende i figli e le figlie ad altri popoli»]. Non stupisce che già in quel tempo nelle città slave, specialmente a Praga, Cracovia e Kiev, vivessero molti ebrei. In Polonia si trovavano persino monete con la versione ebraica del nome di Mieszko (Mesha)».
Anche l’ebrea Lady Magnus aveva del resto rilevato già nel 1890 che per tutto il Medioevo «i principali compratori di schiavi si trovavano fra gli ebrei […] Questi sembravano essere presenti sempre e dovunque a portata di mano per acquistare la merce [at hand to buy] e, similmente, sembravano avere sempre a disposizione il denaro per pagare [and to have the means equally ready to pay]». «Il successo di questi mercanti medioevali» – conferma l’eccellente The Secret Relationship Between Blacks and Jews – «era accresciuto dalla loro grande conoscenza delle lingue. Essi parlavano arabo, persiano, latino, francese, spagnolo e slavo e [scrive l’ebreo Marcus Arkin in Aspects of Jewish Economic History] “manifestavano un abilità negli affari ben avanzata per quei tempi”».
Con la scoperta del Nuovo Mondo gli ebrei, importatori di schiavi e piantatori di canna nelle isole portoghesi di Madera e Sao Tomè dal 1492, introducono schiavi e piantagioni anche in Brasile (le attività sono attestate anche dagli eletti Arnold Wiznitzer e Jacob Rader Marcus), ove si trovano dal 1503, trasformando il paese nel primo produttore mondiale di zucchero; a fine secolo essi sono presenti, lungo le coste, in duecento insediamenti. Con l’istituzione (1621) della Dutch West India Company, nella quale rivestono presto un ruolo di primo piano quali finanziatori e imprenditori, il Brasile cede però gradualmente il primato alla zona caraibica. Infatti, pur restando il termine «portoghese» sinonimo di «negriero ebreo», i più attivi insediamenti commerciali/produttivi ebraici si spostano a nord: perno del movimento è il porto brasiliano di Recife/Pernambuco, occupato militarmente dalla Compagnia nel 1630. Le rivolte degli schiavi e la riconquista del territorio da parte dei portoghesi portano comunque, nel 1654, all’espulsione totale o alla fuga di ebrei e olandesi.
Intorno alla metà del Seicento gli ebrei sono quindi saldamente presenti: 1. nel Surinam – «la colonia ebraica per eccellenza», per dirla con Werner Sombart – nel triplice ruolo di commercianti, piantatori di canna e negrieri (le cause della loro decadenza vengono descritte con franchezza dall’Encyclopaedia Judaica: «Il declino economico della comunità fu in stretto rapporto [was largely connected] con l’abolizione del commercio schiavistico nel 1819 e con l’emancipazione degli schiavi nel 1863»; in parallelo Itzhak Ben-Zvi, dopo averci informati della fondazione di città nell’interno, lontano dalla costa, a partire dal 1670, con una popolazione di 10.000 individui nel 1719, aggiunge: «Il numero [degli] schiavi fuggiaschi crebbe, ed essi costituirono una grave minaccia per la popolazione ebraica bianca presente nel cuore della giungla», minaccia che, aggravata dalla malaria e dall’isolamento dai confratelli, portarono a fine Settecento all’evacuazione delle colonie, mentre «la loro capitale veniva invasa dai negri, che la distrussero quasi totalmente. Solo un cimitero con qualche iscrizione ebraica sulle lapidi attesta l’esistenza di una colonia ebraica semi-indipendente, che fiorì in quei luoghi per oltre un secolo), 2. in Guyana (nel 1662 vi giunge il vascello Monte del Cisne, che sbarca 152 ebrei livornesi), 3. nelle Barbados («la cui popolazione si compone quasi unicamente di ebrei», nota Sombart), 4. a Curaçao (il maggior centro caraibico di smistamento di schiavi nel 1648), 5. a Coro in Venezuela, 6. a Santo Domingo e 7. nelle isole di Giamaica, Martinica (la prima grande piantagione di canna da zucchero, con annessa distilleria, viene fondata nel 1655 da Benjamin da Costa, proveniente dal Brasile con 900 confratelli e 1100 schiavi), Nevis, Saint Eustatius e Saint Thomas. Quanto al Settecento e al Nordamerica, i più ricchi trafficanti negrieri sono tutti di eletta ascendenza, mercanti a New York, Newport, Baltimora, Filadelfia, Boston, Norfolk, Richmond, Charleston e Savannah (impediti nell’insediamento e cacciati dalla Georgia dal fondatore della colonia generale Ogelthorpe, gli Arruolati si spostano in South Carolina in misura tale che la regione intorno a Savannah diviene nota come Jewland).
In Nordamerica, nella colonia olandese di Nieuw Nederland, i primi ebrei arrivano in numero di ventitré – quattro uomini, sei donne e tredici bambini – da Recife dopo la riconquista portoghese della città (tuttavia, la registrazione del primo ebreo in assoluto riferisce la presenza in Virginia di Elias Legardo nel 1621 e di Rebecca Isaake e fratello nel 1624, e di Solomon Franco nel 1649 nel Massachusetts).
Richiamati dai confratelli Jacob Aboaf e Jacob Barsimon (quest’ultimo azionista della Compagnia delle Indie e per questo dotato del privilegio di risiedere nella capitale Nieuw Amsterdam anche contro le disposizioni delle autorità locali, che vietano l’ingresso agli ebrei), il 22 agosto 1654 i ventitré sbarcano dal vascello francese St. Catherine (Charles Segal ne riporta il nome quale St. Charles, al comando del capitano Jacques de la Motte, che li avrebbe liberati dai pirati) e si stabiliscono nel quartiere di Manhattan. L’insediamento avviene malgrado l’opposizione del governatore Peter Stuyvesant, il quale sostiene a spada tratta che «quando si dà qualche libertà agli ebrei, ne proviene sempre gran danno», poiché, «avvezzi all’usura, maestri dell’inganno, blasfemi del nome di Cristo, questa gente non ha altro dio che il denaro, non ha altro scopo che monopolizzare le correnti di traffico, espropriando i cristiani delle loro proprietà».
Il 18 marzo 1655 è il pastore Johan Megapolensis, amico di Stuyvesant, a lamentarsi, in una lettera indirizzata alla Compagnia: «Abbiamo accolto un certo numero di poveri ebrei […] ora si dice che ne siano in viaggio altri. Questo fatto ha generato lamentele e disordini. Perché gli ebrei non hanno altro Dio che Mammona e nessun altro scopo che di derubare i cristiani delle loro proprietà e di occupare per sé ogni commercio. Perciò Vi preghiamo di ottenere dai direttori disposizioni affinché questi furfanti senza Dio, che non sono buoni per il paese […] vengano fatti proseguire per altre terre». Le risposte da Amsterdam sono però invariabilmente negative poiché, sottolineano i direttori a Stuyvesant, respingere gli ebrei «sarebbe eccessivo e disdicevole, soprattutto avendo presenti le grandi perdite che tale nazione ha patito dalla conquista del Brasile e le rilevanti somme che essi hanno investito nella Compagnia».
Quanto alle colonie inglesi, la schiavitù resta proibita fino al 1661 (i primi negri, giunti nel 1619 in Virginia, non erano schiavi), fin quando cioè cinque ricchi ebrei di Filadelfia – tali Sandiford, Lay, Woolman, Solomon e Benezet – riescono a fare abrogare i divieti, impiantando tosto una fitta rete di corrispondenti sulle coste africane, in Olanda e in Inghilterra. Giusto un secolo dopo, nel 1761, sempre a Filadelfia, David Franks, membro di una delle più stimate famiglie negriere e padre di Rebecca, moglie del generale inglese sir Henry Johnson, è il primo firmatario di una petizione per l’abolizione di una tassa sull’importazione di schiavi. Quanto alla Georgia, giunti i primi ebrei nel 1733 e ripartiti a causa del divieto d’importare schiavi e liquori, una seconda calata di eletti si verifica nel 1749 dopo l’abolizione del divieto; ventidue anni più tardi sono negri la metà dei 30.000 georgiani. Grazie al traffico schiavistico, anche Nieuw Amsterdam, caduta sotto il dominio inglese nel 1664 e ribattezzata New York, a partire dal 1730 diviene la più ricca città coloniale d’America, pur essendo politicamente meno importante di Boston e Filadelfia.
Una delle fonti su tale aspetto, tenuto celato al grande pubblico, sono i Documents Illustrative of the History of Slave Trade in America conservati al Carnegie Technical Institute di Pittsburgh, Pennsylvania (consultati anche da Louis Farrakhan, docente e capo religioso della Nation of Islam, per The Secret Relationship).
Sarebbe invece vano consigliare al lettore di ricorrere allo Jüdisches Lexikon, al Dictionary of American Biography (per il quale lo schiavismo è argomento innominabile), alla Jewish Universal Encyclopaedia edizione 1942 (che dice Aaron Lopez «uno dei più rinomati mercanti della Nuova Inghilterra prima della Rivoluzione americana e forse l’uomo d’affari ebreo di maggiore successo dei suoi tempi negli Stati Uniti») o al Rader Marcus, che dice Lopez «merchant-shipper, patriot, philanthropist» (similmente Charles Segal lo dice «a merchant prince e armatore per la caccia alla balena, con trenta navi che commerciavano coi paesi europei e le Indie Occidentali», tralasciando il benché minimo accenno all’attività schiavistica). Nessuno infatti lo avviserebbe, ad esempio sempre in riferimento al Lopez, che la fortuna del Nostro è venuta soprattutto dal traffico negriero, da lui controllato per una quota del cinquanta per cento nel ventennio 1756-1774. Più onesta è invece l’Encyclopaedia Judaica, che apre la voce Slave Trade con lo schiavismo praticato dalle Dutch & Portuguese West India companies («Jews appear to have been among the major retailers of slaves in Dutch Brazil») e facendo i nomi di alcuni stimati «importatori».
Rimpolpando la lista, di essi ricordiamo gli «olandesi» David Israel, Abraham Querido, Abraham Cohen Brazil, Jeudah Henriquez, N. Deliaan, Jan de Lion alias Joao de Yllan e Manuel Belmonte per il Brasile, la famiglia Jessurin per Curaçao, i fratelli David e Jacob Senior alias Philipe Henriquez per il Brasile e le Antille; lo «spagnolo» Andrew Lopes alias Andreas Alvares Noguera per il Messico; i «portoghesi» Joseph Nunez de Fonseca alias David Nassi, A. Perera e Isaak de Joseph Cohen Nassy per il Surinam, (E)manuel Alvares Correa e Manuel de Pina alias Jahacob Naar per Curaçao e il Messico; per Barbados e Giamaica gli «inglesi» David Enriques, Hyman Levy e Alexander Lindo (il figlio Moses Lindo, portatosi nella South Carolina, vi svilupperà una vasta attività produttiva, in particolare nella fabbricazione dell’indaco); per Santo Domingo i «francesi» David, Benjamin, Abraham e Moses Gradis di Bordeaux, monopolisti del commercio di zucchero in Francia e approvvigionatori delle truppe francesi nel Quebec, proprietari di 26 navi, tutti partecipi dell’«infamous triangular trade» (per un approfondimento vedi The Secret Relationship, la cui validità scientifica resta semplicemente eccellente, malgrado le accuse di «antisemitismo» con le quali i più vigili ebrei tentano di screditare l’opera).
Nato nel 1731 in Portogallo e immigrato nel 1752 a Newport, Rhode Island (mentre nelle altre colonie l’ingresso agli ebrei continua ad essere ostacolato, l’abolizione del divieto nel 1658 da parte della città di Providence, retta dal free-thinker Roger Williams, ha portato alla nascita di un secondo insediamento ebraico nel piccolo porto di pescatori), l’antico «Prince of the Slave Trade», oggi noto come «un grande mercante famoso per la sua bontà d’animo», al fine di aggirare le residue leggi anti-schiaviste importa negri come household servants, «domestici» (exempli gratia, 4697 individui nella sola Newport e nel solo 1756).
Quanto ai profitti, si pensi che dal brigantino La Fortuna Lopez sbarca con un unico viaggio 217 individui pagati 4300 dollari, viaggio compreso, rivendendoli a 41.438 dollari. Ancor più, nel maggio 1752 l’Abigail lascia Newport carica di 9000 galloni di rum, ferro, polvere, pistole, cianfrusaglie ornamentali e catene, che scambia in Africa con merce umana; ogni schiavo, il cui valore dipende da sesso, età e stato di salute, costa 100-200 galloni di rum, diluito a metà con acqua, o anche cento libbre di polvere; di fronte ad un prezzo di acquisto di 18-20 dollari, lo schiavo viene venduto a 2000 dollari. È in ogni caso ben vero che, a spiegare il divario tra i costi e i ricavi, alla traversata ne sopravviverebbe solo uno su dieci, con perdite quindi del 90%; si è anche avanzato che nell’arco del Settecento, il «secolo d’oro» dei negrieri, siano stati annualmente strappati alle loro terre addirittura cinque-nove milioni di negri; considerata la possibilità di trasporto dell’epoca, tali cifre sono certamente troppo elevate; nel 1969 Philip Curtin, rettore della facoltà di Storia all’Università di Madison, Wisconsin, valuta il totale generale dei negri deportati oltreoceano in una cifra posta tra 10 e 30 milioni, oltre a perdite del 20%.
Ma tornando a Lopez, il Nostro, dando piena conferma dei timori espressi da Megapolensis, richiama decine di confratelli: quaranta famiglie danno vita in pochi anni ad una prospera comunità giudaica. Il commercio del pesce, la fabbricazione di candele (Lopez guida una catena di 17 stabilimenti), sapone e bevande alcooliche (22 distillerie punteggiano in breve Newport) sono monopolio ebraico. Nel 1759 vengono posate le prime sei pietre della locale sinagoga Jeshuat Israel, che verrà inaugurata quattro anni dopo (a New York, prima in America, una sinagoga è presente dal 1682). Attive sono anche le logge massoniche: la prima, costituita nel 1749, conta 12 ebrei su 14 affiliati; la seconda, King David, viene fondata nel 1769, con affiliati tutti ebrei (al contempo, il cantor Isaac Da Costa è tesoriere della loggia King Solomon n.1, la più antica della South Carolina, e amministratore della paramassonica Palmetto Society). Fitti sono i legami coi confratelli delle altre città, solidi per rapporti commerciali e vincoli familiari. Due figlie di Lopez, Esther e Abigail, vanno in spose ai fratelli Moses e Isaac Gomez di New York, partecipi del lucroso traffico schiavistico (Lewis/Luis Gomez, patriarca della famiglia nato a Madrid nel 1660, si porta a New York nel 1703 e muore nel 1740, padre di cinque figli).
Partecipe della ribellione alla Corona, coi confratelli, Lopez arma navi da corsa contro i traffici inglesi, mentre Haym Salomon e Benjamin Jacobs di New York, Aaron e Simon Levy di Lancaster, Benjamin Levy, Hyman Levy e Isaac Moses di Filadelfia, Jacob Hart, Philip Minis, Michael Gratz e Mordecai Sheftall di Savannah salvano il Congresso dalla bancarotta elargendo ai rivoluzionari, a condizioni ultra-favorevoli (per i prestatori), centinaia di migliaia di dollari. Inoltre, se sono ebrei nove dei firmatari del Non Importation Act e la rivolta vede un centinaio di ebrei nelle file di Washington (taluno, accettando le cifre ufficiali della presenza ebraica nelle colonie, afferma trattarsi della quota più alta rispetto ad ogni altro gruppo nazionale), non è però esatto affermare che l’ebraismo americano si schieri compatto coi ribelli.
Certo, l’esercito rivoluzionario è il primo nella storia a consentire agli ebrei di astenersi da ogni servizio nel sabato, e certo gli ebrei restano defilati a compiti di intendenza (nessun ebreo risulta tra i caduti); certo, la metà degli ebrei vengono fatti ufficiali all’atto dell’arruolamento; certo, il bisogno di sale, foraggio e merci più varie li innalza agli occhi dei capi goyim; certo, il ruolo di ufficiali pagatori permette loro altissimi guadagni ed entrature politiche; certo, Robert Morris può ben essere definito «il vero genio finanziario della Rivoluzione»; certo, il suo «disinteressato» socio, l’ex «polacco» Haym Salomon, è tramite col console francese di Filadelfia, finanziatore dei ribelli, e coi confratelli fa fortuna trafficando azioni e buoni del Tesoro francesi, spagnoli e olandesi (oltre ai sottoelencati schiavisti, ricordiamo Philipp Mines e certi Cohen e Pollock; Haym è poi sposo a Rachel, figlia del newyorkese Moses Franks, fratello del già detto filadelfiano David, imparentata con tutta una serie di altri Franks, tra i quali Jacob Franks, l’inviato delle colonie presso gli inglesi durante le guerre franco-indiane, il maggiore David Solesbury Franks, mercante di Montreal e superiore del «supremo traditore» goyish Benedict Arnold, il colonnello Isaac Franks); certo, il 1776 libera da ogni gravame gli eletti (fino al 1737 nessun ebreo può coprire una carica pubblica, è del 1737 l’elezione a deputato, per New York, del primo ebreo; certo, allo scoppio della sommossa, determinata dall’introduzione di tasse su tè, zucchero e melassa, gli ebrei sono stati i commercianti più colpiti e i protestatari più attivi (ma il nostro Aaron Lopez, tacciato di «violatore in capo» dal reverendo Ezra Stiles, ignora la protesta, traendone anzi vantaggio, coi Gratz di Filadelfia, attraverso l’importazione di merci di contrabbando).
E tuttavia, in virtù dei legami coi confratelli in Europa e della fedeltà alla Corona dell’ebraismo britannico, il gioco è meno schematico di quanto appaia: certo è che la rete dello spionaggio regio, diretta dal nuovo Intelligence Office, diviene presto universalmente nota come «Jewish affaire», affaire ebraico (in virtù dell’usuale «duttilità» internazionale, già con Cromwell e con Guglielmo d’Orange l’ebraismo aveva costituito un tramite spionistico indispensabile). Fornitori delle truppe britanniche (polvere da sparo, coperte, armi, vettovaglie e foraggi) in tutte le guerre dell’epoca – da quella dei Sette Anni alla «rivolta del tè», passando per quelle contro gli indiani, compreso il conflitto del 1763, condotto da sir Jeffrey Amherst con la strategia delle coperte infette di vaiolo – sono inoltre Joseph Bueno, Jacob Franks (nominato fornitore ufficiale dell’esercito regio) e il figlio David, Uriah Hendricks, Samuel Jacobs, Samuel Judah, Gershon Levy e Hyam Myers, Hayman Levy, Levy Andrew Levy (uno degli untori di Amherst), Nathan e Simpson Levy, Benjamin Lyon, Naphtali Hart Myers, Joseph Simon, Sampson Simson, Ezekiel Solomons e Levy Solomons.
Ma indietreggiando di un passo: «Lopez possedeva 150 navi impiegate nel commercio estero ed interno», continua la Jewish Universal Encyclopaedia, tacendo di quale tipo fosse il commercio. La sua morte per annegamento, avvenuta il 28 maggio 1782 (viene sbalzato da cavallo nei pressi di Providence e precipita in un banco di sabbie mobili), «was the greatest misfortune that ever had befallen Newport, fu la maggiore sventura che sia mai capitata a Newport». La città, già provata dall’occupazione britannica, va incontro ad un tale declino economico che gli ebrei sciamano in pochi anni a New York, Richmond e Charleston (a Newport nasce nel 1776 Judah Touro che, portatosi a New Orleans, sarebbe divenuto il più facoltoso mercante del primo Ottocento). La parabola dell’esperienza ebraica newportiana, esempio tra i mille di ogni epoca, la compendiano le parole di William Stowe, speaker del parlamento californiano, pronunciate nel 1855 per mettere in guardia i concittadini dall’accogliere ulteriori eletti, «who only came here to make money and leave as soon as they effected their object, che arrivano solo per far soldi e se ne vanno non appena raggiunto lo scopo». Comunque, nel 1792 si chiude la sinagoga, mentre nel 1822 la morte del penultimo ebreo induce il compagno a spostarsi a New York.
Ricordato e pianto per anni dai concittadini (così la JUE), Lopez resta «negli annali della Nuova Inghilterra, come nella storia dell’ebraismo americano, […] uno dei pionieri che hanno largamente favorito il commercio americano nei confronti del commercio estero». Un ditirambo in un giornale di Newport lo loda quale rappresentante delle «più amabili perfezioni e virtù cardinali che possano abbellire l’animo umano». Anche Stiles annota, ammirato: «Era ebreo per nascita […] un mercante di prima grandezza […] probabilmente non superato da nessun altro in America».
Dopo La Fortuna, la più famosa delle navi di Lopez (il quale dal 1756 al 1774 tiene sotto controllo il cinquanta per cento del traffico schiavistico), altre imbarcazioni, da 30 a 400 tonnellate di stazza, armate nel periodo 1702-1806 da ebrei, per la massima parte intercollegati in società, sono:
Abigail e Active di Aaron Lopez, Mose Levy e Jacob Franks; Africa, Betsy, Cleopatra, Hannah, Mary e Greyhound di Jacob Rivera e Aaron Lopez (in seguito, l’ultima viene acquistata da Moses Levy); Albany e Leghorn di Rodrigo Pacheco; Ann, Betsy e Polly, appartenenti a James De Wolf, «the most active slave traders in Bristol» (che nel 1791 getta in mare una schiava colpita dal vaiolo, sfugge alla giustizia e nove anni dopo viene eletto al Senato) e ai quattro fratelli Charles, William, John e Levi, che investono i capitali ricavati dal commercio di carne umana in distillerie e tessiture; Anna di John Abraham; Anne and Eliza di Justus Bosch e John Abrams; Antigua di Abram Lyell e Nathan Marston; Barbadoes Factor, Dolphin, Charming Polly, Charming Sally, Hannah, Polly e Prince Orange di Joseph Marks; Belle, Delaware, Mars e Gloucester di Moses e David Franks (dell’ultima è comproprietario anche Isaac Levy); Betsey di Samuel Jacobs;
Charlotte, Caracoa e Duke of York di Jacob Franks (le prime anche di Moses e Sam Levey); Charming Betsey di Samuel Levy; Confirmation, Defiance, Diamond, Dolphin, General Well, General Webb, Lord Howe, Perfect Union, Rabbitt e Rising Sun di Naphtali, Isaac ed Abraham Hart; Crown Gally e New York Postillon, di Isaac Levy e Nathan Simpson; David, Jane, l’Alliance, le Parfait, le Vainqueur, Patriarch Abraham e Polly di Abraham Gradis; Deborah di Samson Levy e altri; De Vrijheid («La Libertà», sic!) e Juffr. Gerebrecht dei Senior; Drake, Myrtilla, Parthenope, Phila e Sea Flower di Nathan Levy e David Franks; Dreadnought e Orleans di Hayman Levy; Duke of Cumberland di Judah Hays; Eagle, Hiram e Union di Moses Seixas; Expedition di John e Jacob Rosevelt; Fortunate, George, Hope, Lark, New York e Royal Charlotte di Lopez; General Well e Mary and Ann di Mose Levy;
Hardy, Sampson, Snow Union e Polly del newyorkese Sampson Simson; Hester ed Elizabeth di David e Mordecai Gomez (la prima verrà poi acquistata da Rodrigo Pacheco); Hetty di Mordecai Sheftall; Jane, Nancy e Rebecca di David G. Seixas (le due ultime anche di Benjamin S. Spitzer e Joseph Bueno); Joseph & Rachel dei fratelli Moses, Joseph e Samuel Frazon; Juf Gracia di Raphael Jesurun Sasportas; King George, Peggy e Shiprah di Naphtali Hart; Lydia di Rachel Marks e altri; Mary & Abigail di Abraham de Lucena e Justus Bosch; Nancy di Myer Pollack; Nassau e Four Sisters, di Isaac e Mose Levy; Pearl di Emanuel Alvares Correa e Moses Cardozo Abraham Hart; Prince George di Isaac Eli(e)zer e Samuel Moses; Prudent Betty di Jacob Phoenix ed Henry Cruger; Rebecca di Moses Lopez; Sally di Saul Brown; Santa Maria di Luis de Santagel e Juan Cabrero; Sherbo, Three Friends e Spry di Jacob Rivera (l’ultima anche di Lopez); Two Sisters di John Franks; White Horse di Jan de Sweevts; Young Catherine e Young Adrian di Mordecai Gomez e Pacheco.
Sempre con base a Newport sono schiavisti il già detto filadelfiano David Franks (che Segal ci dice sposato ad una cristiana, ardente tory e altrettanto ardente oppositore, con Samson Levy e Joseph Marks nel 1761, della proposta di introdurre un dazio sull’importazione di schiavi), il suocero di Lopez Jacob Rodriguez Rivera, Isaac Elizer, Samuel Moses e Moses Lopez, fratellastro di Aaron. Inoltre, i quattro fratelli Brown: John, Josey, Nick e Moses (questi fattosi quacchero nel 1773), che impegnano i capitali impiantando fabbriche di candele, monopolizzandone il commercio, fondendo cannoni per Washington e fondando il primo cotonificio americano.
Anche nel New England come nel Lancashire e nelle Midlands inglesi, commentano Daniel Mannix e Malcolm Cowley, «fu la tratta dei negri a fornire la maggior parte dei capitali che contribuirono alla rivoluzione industriale», mentre Henry Feingold, con ammirevole understatement quanto al ruolo dei confratelli, aggiunge: «Il traffico in esseri umani operato da portoghesi, olandesi, francesi ed inglesi costituì un elemento essenziale dell’accumulazione dei primi capitali, necessaria per lo sviluppo del sistema capitalista, e gli ebrei che si erano spesso trovati al centro delle attività commerciali non potevano avere mancato di contribuire al traffico schiavistico, direttamente o indirettamente».
Trafficanti a Charleston (sulle 128 navi negriere registrate nel 1707 ben 120 sono proprietà di ebrei) sono Feliz de Souza, anch’egli noto come the Prince of Slavers, Simeon Potter (zio dei De Wolf), Moses Benjamin Franks (il figlio Isaac, 1759-1822, sarà massone, speculatore terriero, tenente colonnello approvvigionatore, giudice di pace e capo-cancelliere della Corte Suprema di Filadelfia), Isaac Da Costa («probably the most outstanding Jew of Charleston before the Revolution»), i fratelli Benjamin, Isaac, Manuel, Eleanora, Gracia e Jacob Monsanto della Louisiana, Hyman Levy col dipendente Nicholas Low (socio del goy John Jacob Astor nel traffico di pelli con gli indiani, in cambio di alcoolici), Benjamin Levy, Jacob Turk e Abraham Pereira Mendez. È costui a indirizzare, il 29 novembre 1767, alte lagnanze al «padrino»: «Questi negri che il capitano Abraham mi ha consegnato sono in condizioni così misere, dovute al cattivo trasporto, che sono stato costretto a vendere otto ragazzi e ragazze per sole 27 sterline, due altri per 45 sterline, due donne per 35 sterline ciascuna»; il capitano Abraham, protesta, lo ha imbrogliato, cheating; lui, il buon Abraham Pereira Mendez, non è un uomo avido, ma Lopez deve rimborsarlo per il denaro che non ha incassato dalla vendita dei dodici articoli, commodity.
Oltre ai detti, altri ebrei che si arricchiscono trafficando il black ivory (o black gold), promuovendo la «peculiare istituzione» quali finanziatori, trafficanti, armatori e proprietari di navi sono: Abraham All (all’inizio della carriera, capitano di navi), Isaack Asher, Maurice Barnett (socio di Jean Lafitte), Jacob Barsimon, Amon Bonan, Simon «Simon the Jew» Bonane o Bonave, Saul Brown nato Pardo, Isaac Carregal, Abraham e Solomon Myers Cohen, Simja De Torres, Isaac Dias, Jacob Fonseca, Aberham Franckfort, Luis Gomas, Daniel e David Gomez, Isaac Gomez, Ephraim Hart, Harmon e Uriah Hendricks, Uriah Hyam, Abraham e Joshua Isaacs, Jacob Isaacs, Joseph Jacobs, David Jeshurum, Delancena Jew, Benjamin S. Judah, Cary Judah, Elizabeth Judah, il pirata «patriottico» louisianico primo-ottocentesco e massone Jean Lafitte (nato a Port-au-Prince nel 1792; la nonna Maria Zora Nadrimal e il nonno materni sono ebrei, come ebrea è la moglie Christina Levine, nata nelle Isole Vergini; nel 1812, rileva lo studioso ebreo Harold Sharfman, Lafitte è «il più grande trafficante dell’intero West»; in seguito fabbricante di polvere per cannoni, di acquavite e armatore, nel 1847-48 è a Bruxelles, ove conosce Karl Marx e Friedrich Engels, a Parigi, Berlino, Amsterdam, Londra ed in Svizzera), Moses Levey, Arthur Levy, Eleazar Levy, Isaac H. Levy, Jacob Levy, Joseph Israel Levy, Joshua Levy, Moses Levy, Uriah Phillips Levy, Sarah Lopez, James Lucana, Jacob Malhado, Isaac D. Markeys, Isaac R. Marques, Moses Michaels, (E)manuel Myers, Seixas Nathan, Simon Nathan, David Pardo, Isaac Pinheiro, Jacob Pinto, Rachel Pinto, la vedova di D. Roblus, Abraham Seixas, Abraham Sarzedas, Solomon Simpson, Abraham Touro, Benjamin Wolf e Alexander Zuntz.
Che talune autorità religiose ebraiche abbiano giustificato per due secoli tale commercio, lo dice oggi anche Malcolm H. Stern (Jewish Week, 14 marzo 1976): «[Il 4 gennaio 1861] Rabbi Morris [Jacob] Raphall, nato in Svezia, capo della congregazione newyorkese B’nai Yeshurun, tenne dei sermoni, largamente riportati dalla stampa, che dimostravano l’origine e la giustificazione bibliche della schiavitù».
E che dire del grande Maimonide, la cui “Guida per i perplessi” – codice d’importanza pari al Talmud che permette agli ebrei, in nome del giudaismo, di ridurre in schiavitù i ragazzi goyish – segna dal Medioevo la strada agli Arruolati?: «Quanto a “coloro che sono fuori dalla città”, sono tutti gli esseri umani privi di credenze religiose, di capacità di ragione, di tradizione, come gli ultimi turchi [leggi: la razza gialla] all’estremo nord, i negri all’estremo sud e quelli che somigliano a loro nelle nostre regioni. Essi sono da considerare bestie prive di ragione; io non li pongo al livello degli esseri umani, perché secondo me occupano tra i viventi un livello inferiore a quello dell’uomo e superiore a quello della scimmia, in quanto hanno la figura e i lineamenti dell’uomo e una capacità di ragione [la traduzione francese di Salomon Munk ha: discernement] superiore a quella della scimmia» (III, 51).
E che dire del paragrafo 322 del “Libro dell’Educazione” – composizione stesa da un anonimo rabbino spagnolo nel primo Trecento e che illustra e motiva i 613 comandamenti del giudaismo – il quale impone l’obbligo della schiavitù eterna per i goyim (mentre l’ebreo reso schiavo va rimesso in libertà dopo sette anni?: «Alla base di questo comandamento religioso [è il fatto che] il popolo ebraico è il migliore della specie umana, creato per conoscere il suo Creatore e onorarLo, e degno di possedere schiavi che lo servano. E se gli ebrei non possedessero schiavi di altri popoli, dovrebbero fare schiavi i loro fratelli, i quali non sarebbero allora in grado di servire il Signore, benedetto Egli sia. Per questo motivo ci è imposto di possedere quelli per il nostro servizio, dopo che siano stati addestrati per questo e dopo che l’idolatria sia stata allontanata dai loro discorsi, cosicché non vi sia pericolo nelle nostre dimore, e questo è l’intento del versetto “ma non dominerete sui vostri fratelli, i figli di Israele, con oppressione” [Levitico XXV 46], cosicché non dovrete rendere schiavi i vostri fratelli, che sono tutti predisposti per onorare Dio».
Quanto all’America, a giustificare la schiavitù si schierano, dopo il georgiano Joseph Ottolenghe a metà Settecento, i rabbini George Jacobs di Richmond, James Gutheim di New Orleans e Simon Tuska di Memphis, e i pubblicisti Jacob Cardozo, Edwin De Leon, Isaac Harby, Solomon Heydenfeldt e David Naar. Come scrive l’insigne storico ebreo Salo Baron, «i mercanti ebrei, i banditori d’asta e gli agenti ebrei negli Stati del Sud continuarono a comprare e vendere schiavi fino al termine della Guerra Civile […] In nessun momento gli ebrei sudisti si sentirono disonorati dal traffico degli schiavi». Fino al 1865 operano infatti mercanti quali Levy Jacobs di New Orleans e Mobile, i fratelli Ansley, i tre fratelli Benjamin, George e Solomon Davis di Richmond e Petersburg, B. Mordechai di Charleston, Jacob Levin di Columbia nel South Carolina, Israel Jones di Mobile, Rudolph Blumenberg, Henriques da Costa, Benjamin Isaacs, John Levy e Fred Myer.
Iniziato però con tutta evidenza il declino dell’affaire già nel primo Ottocento, l’ebraismo nordista, secondando l’allucinato candore delle più accese sette cristiane, si getta a corpo morto nella causa antischiavista coi rabbini David Einhorn di Baltimora, Liebman Adler e Bernhard Felsenthal di Chicago, il «livornese» Sabato Morais di Filadelfia, l’«inglese» Gustav Gottheil, in seguito rabbino newyorkese del Temple Emanu-El, e il reverendo Samuel M. Isaacs di New York (Isaac Mayer Wise e il collega Isaac Leeser restano neutrali), mentre l’industria e la grande finanza delle metropoli del Nordest si schierano compatte contro il Sud.
Riassumendo alcuni aspetti della bisecolare vicenda schiavistica – troppo ardito sarebbe suggerire al lettore di compiere un parallelismo tra quella tragedia e l’attuale invasionismo terzoquartomondiale dell’Europa? – così scrive Raimondo Luraghi (corsivo nostro): «Sulle coste africane i negrieri acquistavano gli schiavi dagli stessi capitribù locali i quali vendevano loro i prigionieri di guerra, le vittime delle razzie, spesso gli stessi loro sudditi. La schiavitù domestica era esistita da tempo immemorabile nell’Africa nera: ma ora la richiesta pressante stimolava ad accentuare la caccia agli schiavi. Le condizioni particolari della colonizzazione delle Americhe avevano posto le premesse per lo sviluppo in piena età moderna di un commercio di schiavi su larga scala quale solo il mondo antico aveva conosciuto: giova però dire che spesso furono i negrieri (e le potenze mercantili che stavano alle spalle di costoro) a “forzare” l’introduzione di schiavi in America oltre il livello richiesto dalle esigenze produttive per aumentare i lucro loro derivante da tale traffico».
«I puritani della Nuova Inghilterra presero la schiavitù e la tratta con tutta serietà come una delle speciali benedizioni riservate da Dio ai suoi eletti; non fu quindi per motivi morali o umanitari che dopo qualche tempo la schiavitù nel Nord si estinse e scomparve. Da un lato infatti il lavoro schiavistico non era idoneo alle attività commerciali e manifatturiere di quella sezione; dall’altro i modesti lavoratori, i piccoli contadini, gli artigiani, i marinai di pelle bianca furono colà i più risoluti avversari della schiavitù poiché non volevano assolutamente aver a che fare con la concorrenza della mano d’opera servile; il clima e il terreno infine non erano adatti allo sviluppo della grande piantagione, l’unica che potesse utilizzare proficuamente il lavoro del bracciantato agricolo schiavo».
«La scomparsa della schiavitù nel Nord non significò comunque l’abbandono della tratta da parte dei mercanti e del marinai della Nuova Inghilterra e, in genere, settentrionali: essi vi facevano affari d’oro, comperando nelle Indie Occidentali la canna da zucchero o la melassa che, trasportate nei porti nordisti, vi venivano trasformate in rum. Da qui le loro navi ripartivano cariche di liquore alla volta dell’Africa, ove il rum veniva cambiato in… schiavi, in ragione di un barile di rum da quattro dollari per ogni singolo schiavo. Costoro venivano poi sbarcati nei porti del Sud, dopodiché la nave ripartiva per le Indie Occidentali, a caricare altra melassa e canna da zucchero. Ciò salvava anche la “faccia”, in quanto apparentemente il vascello, arrivato con quest’ultimo carico nei porti nordisti o europei e ripartitone carico di rum, rientrava con nuova melassa e canna da zucchero. La tratta rimaneva “invisibile”».
E quanto ai sudisti? Quanto ad essi, «le loro navi ebbero ben piccola parte nella tratta: le statistiche mostrano che, durante gli ultimi otto anni dell’importazione legale degli schiavi dall’Africa, non più che il 6% delle navi negriere entrate nel porto di Charleston erano meridionali: il rimanente era dato da vascelli della Nuova Inghilterra e da alcuni europei. La gente del Sud seguiva con preoccupazione questo ingigantire del flusso di schiavi verso i suoi territori. Indubbiamente in quei tempi la tratta come la schiavitù non erano gravemente offensive della morale media, per cui l’ostilità dei sudisti all’infame commercio era dettata solo in piccola parte, e solo nei migliori, da preoccupazioni umanitarie. La causa reale della loro inquietudine era data dal fatto che essi assistevano alla trasformazione, loro malgrado, della propria terra in un grande paese ad economia schiavistica, con tutte le spiacevoli implicite conseguenze: pericolo di insurrezioni devastatrici, totale dipendenza della loro vita sociale dal lavoro servile, formazione di una enorme popolazione negra che avrebbe inevitabilmente generato gravi problemi di coesistenza; e, the last but not the least, crollo del prezzo degli schiavi quasi a zero (per effetto della legge della domanda e dell’offerta) sintantoché sarebbe diventato (per esempio in momenti di crisi) assai più economico liberarli che mantenerli, dando luogo ad un tale cataclisma sociale che l’intero mondo del Sud ne sarebbe stato distrutto».
«I sudisti, in sostanza, guardavano con timore l’ingigantire della schiavitù sul loro suolo perché prevedevano un giorno in cui essi avrebbero finito per trovarsi, per così dire, “schiavi della schiavitù”, con conseguenze forse tragiche per entrambi i gruppi etnici. Perciò di buon’ora le colonie del Sud emanarono provvedimenti che vietavano l’introduzione di nuovi schiavi mediante la tratta: ma il Governo britannico si affrettò ad annullarli, dichiarando che l’Inghilterra non poteva rinunciare ad un sì lucroso commercio, e il flusso continuò. I corrucciati uomini del Sud attesero la guerra d’indipendenza, ed allora si affrettarono (finita ormai ogni preoccupazione di obbedire a Sua Maestà britannica) a vietare la tratta nei loro Stati, per cui la Virginia fu la prima a proibire per legge quell’infame commercio. Nuovi sentimenti umanitari si facevano adesso strada; i capi della Rivoluzione, in gran parte meridionali come Washington e Jefferson, condannavano non solo la tratta, ma la schiavitù stessa con parole di fuoco. Ora, alla Convenzione costituente del 1787, la proposta di abolire la tratta nell’intera Unione fu avanzata formalmente; ma qui ci si trovò davanti all’ostilità degli Stati del Nord, che, prevalentemente marittimi, avevano ereditato tale odioso ma lucroso traffico dalla Gran Bretagna, e non intendevano rinunziarvi. In fin dei conti si arrivò ad una specie di compromesso e con atto del 1807, sotto la presidenza di Jefferson, la tratta fu ufficialmente abolita a decorrere dal 1â gennaio 1808. Un secondo atto del Congresso, nel 1820, la dichiarò pirateria, e punibile come tale. Tuttavia, sia pure come contrabbando, la tratta non scomparve del tutto. I meridionali non cessarono di denunciare i mercanti e le navi nordiste come responsabili di tale illecito traffico: e per la verità, ancora il 21 aprile 1861, quando l’agitazione antischiavista aveva raggiunto il culmine, e addirittura erano già state sparate le prime cannonate della guerra civile, il comandante Alfred Taylor, dell’incrociatore nord-americano Saratoga, informava di aver catturato una nave negriera della Nuova Inghilterra con un carico di 961 schiavi: si trattava della Nightingale, di Boston, diretta a New York. Dal 1808 comunque la massa degli schiavi esistenti negli Stati Uniti d’America non fu più aumentata mediante arrivi dall’Africa o da qualsiasi altro paese se non saltuariamente ad opera di contrabbandieri; rimaneva però sulle spalle del Sud e dell’intera Unione il terribile problema della schiavitù, ereditato dalle generazioni precedenti».
Analisi acute, quelle del Luraghi – ciò che importa rilevare è la demolizione dei più vieti luoghi comuni coi quali ancor oggi si tenta di infamare l’illuminato atteggiamento sudista – e tuttavia insufficienti a chiarire quella dinamica storica. Nell’opera resta infatti nell’ombra l’identità dei promotori della «peculiare istituzione», nessun nome, nessuna evidenza razziale viene data ai negrieri, talché resta alla fine l’impressione di un «gioco» giocato tra «bianchi», certamente «sudisti» ma anche «puritani della Nuova Inghilterra». Cosa però, visti i nomi in questione, del tutto inverosimile.
E tuttavia, elevandosi dalla storiografia ad accenni di filosofia della storia dopo avere elencato le cause del «conflitto irreprimibile» tra i due mondi, lo storico milanese, trattando del Sud, ci apre la strada a considerazioni di più ampia portata: «Nella nuova civiltà che si apriva energicamente il passo a nord della linea Mason e Dixon vedevano con orrore e spavento l’affermarsi di un genere di vita grigio e senza colore, l’avvento di un tipo di uomo pedestre e standardizzato. Il predominio del più energico negli affari e nell’industria sembrava loro dare inizio ad un’età infernale che avrebbe valutato gli uomini in base alla loro capacità di far denaro; nelle grandi città moderne essi osservavano piuttosto i sobborghi cupi e sterminati, l’atmosfera velenosa e pestilenziale, la standardizzazione monotona del modo di vita e degli ingegni, gli slums, l’avvento di un industrialismo distruttore della personalità umana. Se si pensa ai problemi più gravi che dovette poi e che deve ora affrontare non solo l’Unione americana, ma tutta la moderna società industriale, non si può negare lungimiranza a quei “passatisti”, difensori di un mondo rurale individualista».
«In effetti il Sud non si sentiva impegnato specificamente per la schiavitù, o per il libero scambio, o per i diritti degli Stati, o ancora per l’agricoltura o per altri motivi economici: ma per difendere una sua specifica “maniera di vita” che esso non voleva sacrificare; una “maniera di vita” in cui entrava per un verso o per l’altro tutto ciò che sopra si è elencato, ma che sarebbe inesatto ridurre all’uno o all’altro di questi suoi peculiari aspetti; una “maniera di vita” che esso temeva di veder stritolata sotto il rullo compressore dell’industrialismo avanzante. Non che i sudisti più colti e più lungimiranti non si rendessero conto che in questa “maniera di vita” c’era più di una zona d’ombra: la questione non stava qui. In realtà premeva ad essi di “non gettar via il bimbo insieme all’acqua sudicia”; e pensavano che per poter far questo (e poi pian piano eliminare l’acqua sudicia da sola) occorresse anzitutto difendere comunque il loro mondo contro le forze che parevano minacciare rovina».
Allarmate per gli sforzi che i reggitori sudisti stanno compiendo 1) per giungere, gradualmente, all’abolizione della «peculiare istituzione», ormai anti-economica, socialmente distruttiva e moralmente sempre meno accettabile, e 2) per rendersi autosufficienti contro le tariffe imposte e i ricatti economici avviando una propria industrializzazione – bramose inoltre 3) di non lasciarsi sfuggire quell’ampio mercato e 4) di impedire un suo autonomo organizzarsi per l’esportazione dei prodotti (ad esempio, per giungere sui mercati europei il cotone deve prima passare per New York e altri porti del Nord), l’industria nordista e la grande finanza «tedesca» dei Bache, Belmont, Goldman, Guggenheim, Hallgarten, Heidelbach, Ickelheimer, Kuhn, Lehman, Lewisohn, Loeb, Sachs, Schiff, Scholle, Seligman, Speyer, Straus e Wertheim che già domina l’industria tessile e va sviluppando – interconnessa oltretutto da vincoli non solo finanziari ma anche matrimoniali – un’economia integrata di scala e nuove forme di vendita (catene di department stores, grandi magazzini; mail order, il primo catalogo di ordini per posta viene stampato in una soffitta di Chicago nel 1872; i primi shopping centers seguiranno settant’anni dopo, ideati dall’«austriaco» Victor Grün) promuove, avanzando i più alti ideali, l’annientamento di una Nazione.
Punto di svolta epocale, questo, premessa indispensabile per imporre al mondo, contemporaneo e futuro, 1) l’industrialismo come «scelta» di vita, 2) il liberismo come arma dei più forti, 3) la democrazia come strumento politico per la distruzione di ogni civiltà «non conforme», 4) l’universalismo come obiettivo finale, prima dell’apertura del Regno. L’annientamento della Confederazione avrebbe costituito la prima tappa di tale percorso, «laico» ma in realtà religioso; la distruzione del cuore dell’Europa nella Grande Guerra, la seconda; lo scontro in terra spagnola nel 1936-39, la terza; la crociata congiunta di Democrazie e Comunismo contro l’Europa – contro nazionalsocialismo e fascismo, contro il Sistema di Valori indoeuropeo – la quarta. 


BIBLIOGRAFIA
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Feingold H.L., Diner H.R., Faber E., Shapiro E.S., Sorin G., The Jewish People in America, cinque voll., The Johns Hopkins University Press, 1992

 

LE ALTERNATIVE ALLA DEMOCRAZIA



SOCIALIZZAZIONE DELL’ECONOMIA
Dal feudo di san Leucio 1789 alla R.S.I. 1945

LE ALTERNATIVE ALLA DEMOCRAZIA (liberista)

di Alessandro Mezzano

In un articolo precedente avevamo espresso la nostra convinzione anti democratica e dimostrato come la democrazia diretta sia un’utopia che comunque sarebbe foriera di mal governo in funzione del fatto che a decidere sarebbero le maggioranze che, per legge di natura, sono le meno qualificate stante che in natura la Qualità è sempre inversamente proporzionale alla quantità.

Avevamo anche dimostrato come la democrazia indiretta o per delega si risolva in una truffa a danno dei Cittadini e diventi in pratica una furbocrazia o comunque una oligarchia di gruppi di interessi privati che non coincidono ed anzi spesso confliggono con gli interessi dei Cittadini e del Paese.
http://pocobello.blogspot.it/2010/06/perche-non-sono-democratico-alessandro.html

 

Ora tenteremo di proporre un sistema alternativo alla democrazia (liberista) che abbia la capacità di ovviarne i difetti e che sia in grado di coniugare efficienza ed equità sociale.
L’alternativa da noi proposta è lo Stato Organico che si basa su due concetti base: Corporativismo e Socializzazione.
Corporativismo:
Le corporazioni sono associazioni che riuniscono gruppi di Cittadini che hanno in comune gli stessi interessi nel campo  del lavoro, della produzione, della creatività e della finanza, siano essi imprenditori che lavoratori.
All’interno di uno Stato, le varie corporazioni assumono il valore di elementi costitutivi della società civile e politica nel senso più ampio dei termini e sono controllate dallo Stato per quanto riguarda il loro apporto di diritti e di doveri verso la comunità nazionale, mentre esse stesse si auto regolano per quanto attiene ai diritti e doveri reciproci.
 
Una Magistratura del lavoro risolve e dirime tutte le eventuali vertenze tra imprese e lavoratori, siano esse di natura economica che normativa mentre lo Stato, come già detto controlla che il tutto si svolga nell’ambito degli interessi del Paese.
Tutto questo elimina dalla scena la lotta di classe che è sempre solamente un rapporto di forza e mai di equità e che non ha più ragione di essere nello Stato corporativo dove i rapporti sono regolati tra le parti con la mediazione dello Stato e dove questi rapporti non sono più regolati dalla forza, ma dalla legge!
 
Una Camera delle corporazioni partecipa alla emanazione delle leggi dello Stato per quanto riguarda le materie che le riguardano ( e quindi anche per il lavoro e la produzione ) dando un apporto di competenza specifica, di esperienza e professionale che non si trova mai nei parlamenti tradizionali della tradizione democratica dove un politico può fare indifferentemente il ministro della sanità, del lavoro, degli esteri o della pubblica istruzione, senza avere alcuna competenza specifica delle materie di cui si deve occupare.
A differenza poi dei partiti politici che finiscono sempre di essere anche loro delle corporazioni, ma di interessi diversi da quelli dichiarati e quindi in senso degenere e tesi comunque a soddisfare ambizioni economiche private o di casta, le corporazioni così come le intendiamo come organi costitutivi dello Stato Corporativo sono un elemento di equilibrio e di equità sociali e concorrono allo sviluppo armonico della vita civile e della Nazione.
 
Socializzazione:
La Socializzazione è il punto di arrivo dello stato corporativo in cui le corporazioni sono uno strumento di transizione per portare lo Stato da una posizione liberalcapitalista ad una, appunto, di Socializzazione.
La socializzazione è la sintesi ultima di un processo che porta i Cittadini di uno Stato alla partecipazione attiva al suo governo incominciando dal settore dell’impresa e del lavoro.
Il lavoratore e l’imprenditore non sono più elementi in antitesi ed avversari sociali, ma diventano collaboratori nella conduzione dell’azienda trasformando la lotta di classe in sinergia perché, dati i presupposti di condivisione degli utili e delle responsabilità, vengono spazzati via i motivi di contrasto che sono sostituiti da interessi e scopi comuni.
Il lavoratore cessa di essere oggetto del lavoro, ma diventa uno dei soggetti di esso con un vantaggio che non è meramente economico, ma che assume il valore morale di dignità. di partecipazione, di corresponsabilità partecipando alla gestione aziendale.
Insomma, invece di avere la risultante algebrica di due entità di valore opposto si ha la somma di due entità positive ed il risultato diventa assolutamente più valido!
 
Nella socializzazione delle imprese (primo passo per la socializzazione dello Stato) la proprietà dell’azienda è suddivisa tra imprenditore in quanto tale e lavoratori in quanto tali il che significa che tali diritti di proprietà hanno il loro limite nella funzione esercitata ed i lavoratori non possono né vendere, né dare in eredità questo titolo di proprietà che è tale solo e fintanto che il lavoratore lavora nell’azienda.
Inoltre, nell’azienda socializzata, le parti sono tenute ad agire nell’interesse superiore dello Stato e quindi della comunità Nazionale e di questo obiettivo si fa carico il controllo dello Stato Organico (un esempio, benché parziale di tale concetto lo si ha già per esempio in Germania dove le ditte con un determinato numero dipendenti come Bayer o BASF danno ai propri lavoratori circa un terzo della proprietà delle aziende )
Immaginate la conduzione dei rinnovi contrattuali o le decisioni sulle delocalizzazioni in una siffatta situazione …
Tale concetto di socializzazione può essere in seguito esteso ai rapporti dei Cittadini con le istituzioni in un processo di vera cooperazione dove però lo Stato etico è l’arbitro imparziale e decisivo delle soluzioni finali che devono sempre tenere conto dell’interesse Nazionale.
 
E’ l’idea dello Stato Organico e cioè di quella forma di Stato che non è pura entità amministrativa, ma un’organizzazione sociale totalizzante in cui, come accade nella famiglia che della società è la cellula primaria,  ogni cittadino ha una sua identità ed una sua funzione sociale in quanto membro della comunità e la comunità ha la sua identità e la sua funzione solamente in quanto aggregazione e sommatoria dei suoi cittadini con i valori della tradizione, della cultura e della solidarietà!
 
Uno Stato in cui i Cittadini non operano solamente per il proprio interesse personale, ma sono le componenti di uno sforzo collettivo per il progresso dell’intera comunità.
Per chi volesse approfondire tali concetti, rimandiamo a “Lo stato organico” di Rutilio Sermonti  – http://thule-italia.com/wordpress/archives/2413?lang=it    ed a “Perché non sono democratico” di Nicola Cospito – http://www.puntozenith.org/Recensioni/187.html
Come ulteriore organizzazione dello Stato corporativo e sociale vorremmo aggiungere una selezione meritocratica che provveda affinché i soggetti cui sarà richiesto di partecipare alle decisioni della vita pubblica siano persone informate e capaci.
Si potrebbero istituire nelle scuole dei corsi obbligatori di educazione civica nei quali si spiegasse ai futuri cittadini quali sono le istituzioni dello Stato, quali i loro compiti e le funzioni, quali siano i diritti ed i doveri dei cittadini verso lo Stato e dello Stato verso i Cittadini, quali siano le principali leggi che regolano l’amministrazione della cosa pubblica sia a livello locale che a livello nazionale.
.Avremmo così una classe di cittadini coscienti e preparati a dare il loro fattivo contributo alla gestione dello Stato corporativo e sociale anziché una massa amorfa di persone che ignorano i principi basilari delle regole della vita sociale.
 
Mussolini disse:” L’ignoranza esclude dalla partecipazione” e questo non è un concetto di selezione elitario quanto una legge di natura perché l’esclusione non deriva da una discriminazione contro qualcuno, ma deriva dalla incapacità di quel qualcuno di capire e di partecipare con cognizione di causa e quindi con virtuosa operatività sociale!
Il superamento dei suddetti corsi costituirebbe titolo essenziale per potere partecipare alla carriera politica attiva come rappresentante delle corporazioni.
 
Tanto per contestare subito le consuete ritrite e banali osservazioni dei democratici che sostengono non vi sia altra alternativa alla democrazia se non la dittatura vogliamo precisare che la storia ci insegna come la dittatura non sia mai stata, né possa essere, una stabile forma di governo in quanto essa ha bisogno di particolari condizioni storiche e di uomini di grande carisma, condizioni queste che non possono essere programmate né essere programmatiche, ma che sono esclusivamente contingenti ed irripetibili.
 
Inoltre, anche una superficiale analisi delle dittature degli ultimi anni dimostrano che esse non nascono da una ideologia specifica, ma hanno le loro radici in ideologie a volte tra di loro antitetiche ed a volte nate dal una concezione politica assolutamente democratica come per esempio le decine di dittature comuniste!
 
L’ideologia della dittatura in se è una corbelleria insostenibile degna di cervelli che ragionano solo in modo superficiale!
 
Quanto alla nostra diffidenza ed alla nostra totale critica alla democrazia, a chi ci contesta di essere dei visionari e dei “parvenues” intellettuali rispondiamo che in questo siamo in buona compagnia, da Platone ( lettera VII° e La repubblica ) a Tommaso Moro (“Utopia”) a Tommaso Campanella (“ La città del sole” ) ed in parte anche nel pensiero filosofico di Fichte ( la dottrina dello Stato ) e Hegel ( lineamenti di filosofia del diritto ) e giù sino ad Evola ( Gli uomini e le rovine ) e pertanto respingiamo i soliti luoghi comuni ignoranti ed invitiamo a ragionare nel merito .!!
 Alessandro Mezzano

SOCIALE aggiunge che gli enunciati della socializzazione e del corporativismo li ritroviamo in un documento neutro condivisio sia da alcuni partigiani, non comunisti e non filo USA – per quella che doveva essere la Costituzione repubblicana.
Documento che non ha avuto nessuna divulgazione e che non meritava tanto. Lo porto alla vostra attenzione per un sereno giudizio.
http://pocobello.blogspot.it/2010/01/fascismo-e-antifascismo-per-una-nuova.html
 
SOCIALE – fa anche presente che per avere la socializzazione dell’economia basta dare seguito agli articoli 46 e 99 della Costituzione che dalla loro scrittura sono rimasti intonsi.
http://pocobello.blogspot.it/2009/10/la-socializzazione-dopo-il-25-aprile.html

http://mpncoordinamentoregionalepuglia.blogspot.it/2012/07/le-alternative-alla-democrazia.html

La Gioia Violata

“Crimini contro gli italiani 1940-1946”
 
 I vincitori della II Guerra Mondiale celebrarono i grandi processi di Norimberga( 1945) e Tokio( 1946),per punire gli sconfitti. Veniva così sostituito definitivamente al concetto fino ad allora vigente dello “ justus hostis”, propria dello “jus publicum europaeum”, con il “nuovo concetto” di “ bellum justum” o “ justa causa belli” di medievale memoria. Ora l’aggressore non è più un “justus hostis”,ma un “criminale” nel pieno significato penalistico del termine, un vero e proprio “outlaw”, fuorilegge, e si può quindi processare i capi dei vinti ed i loro collaboratori. Non rispondono più gli Stati delle varie guerre, ma gli individui. Crimini di guerra, crimini contro l’umanità ,genocidio , ogni motivo è buono per fare giustizia sommaria degli avversari. Ovviamente la “giustizia” in questo caso operò a senso unico. Non potendo sterminare gli avversari “manu militari”,per non perdere in immagine, li si trattò da criminali comuni, e cosi venne fatto in tanti altri processi minori che si celebrarono dopo il 25 Aprile in Italia e l’otto Maggio in Germania e successivamente in Giappone.
Ma nessun processo fu mai  intentato contro coloro che nelle fila Alleate, Sovietiche, Jugoslave e Francesi, si macchiarono di nefandezze contro i civili ed i militari dell’Asse, in spregio delle convenzioni internazionali allora vigenti. Questo perché  a Norimberga  s’introdusse una forma flessibile di “selettività giudiziaria”, che sancì il principio che “il comportamento delle potenze vincitrici non poteva essere equiparato con gli stessi standard legali applicati ai loro nemici”Vi è un capitolo sottaciuto, nascosto, appena sussurrato della nostra storia nazionale, che riguarda proprio i crimini perpetrati contro i nostri soldati e civili  dal 1940 al 1946. Una pagina vergognosa che finalmente ha trovato in questo libro di Federica Saini Fasanotti per le Ed di Ares, una sua completa descrizione. Vengono così ripercorse con dovizia di particolari e dati, le vicende che interessarono uomini in armi e civili, dalla campagna di Francia del 1940, alla fine della guerra.
Vi furono numerose violazioni del diritto umanitario nei confronti dell’Italia, con  attacchi contro centri abitati e mezzi della Croce Rossa. Gli inglesi ( ..i portatori della libertà secondo certa vulgata corrente..) si distinsero, come già fatto sulla Germania con la tecnica dell’ “ Area bombing”, che mirava alla distruzione delle abitazioni,più che  a colpire gli obiettivi militari. In Albania ed in Africa Settentrionale gli uomini della Raf si accanirono in special modo ,contro ospedali ed edifici con il simbolo della Croce Rossa,  mentre la Regia Aeronautica e la Marina adottarono sempre una condotta di guerra improntata ad un comportamento cavalleresco ed umanitario. Numerosi furono i prigionieri italiani eliminati direttamente sul campo di battaglia  nel deserto libico–egiziano. I reparti di fanteria del Commonwealth britannico, soprattutto quelli provenienti dall’Oceania, furono autori di massacri di prigionieri appena catturati e mutilizioni di cadaveri. Durante la campagna di Tunisia,  nella battaglia di Takrouna,i “reparti maori” del generale Freyberg uccisero a baionettate tutti i prigionieri italo-tedeschi e gettarono vivi da un dirupo anche due soldati italiani. 
I prigionieri condotti nei campi britannici ebbero un trattamento, ben diverso da quello riservato  stessi in Italia, dove venne posta ogni cura nel dare degni condizioni di vita ai soldati di sua maestà.
Altro episodio pressoché sconosciuto è l’affondamento dell’incrociatore ausilisario “Laconia”(1) ,al largo della Sierra leone, con a bordo nostri prigionieri di guerra. Al momento del naufragio, gli inglesi chiusero le stive causando l’annegamento di 1300  nostri soldati. Nel corso delle operazioni di soccorso ai superstiti ad opera di sommergibili dell’Asse, l’aviazione alleata mitragliò le scialuppe di salvataggio.
Una pagina dimentica è quella degli internati italiani in Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti, allo scoppio delle ostilità. Con l’inizio della guerra le autorità britanniche arrestarono subito 4000 italiani, e  non vi furono distinzioni tra fascisti ed antifascisti…. La sorte dei nostri civili evacuati dall’Africa Orientale Italiana, fu ancor peggiore dei militari. Gli uomini in buono stato furono trasferiti in Kenya, Rhodesia, Uganda, Sud Africa e Tanganika, mentri le donne, i bambini i vecchi , vennero raccolti in campi inospitali in AOI, nei pressi di Mandera, Berbera, Dire Daua, Harar, veri “ inferni per vivi”…. Qui i bambini italiani morivano di morbillo e di altre malattie. Nei “campi di concentramento” britannici in Africa, vi furono quasi duemila morti.
Francesi e  Greci si distinsero anche loro per la sistematica violazione delle leggi umanitarie.Il rapporto del nostro Ministero della Guerra, definì brutale il comportamento verso i nostri soldati catturati, sia che fossero feriti o meno. Sorte peggiore toccò a coloro che alla conclusione della campagna africana, furono consegnati dagli alleati ai francesi di De Gaulle. Da notare che la cosiddetta “Francia Libera”  non era riconosciuta da nessuna potenza belligerante, come “governo legittimo” (… De Grulle riuscì alla fine della guerra nel capolavoro di far sedere la Francia, sonoramente battuta dalla Germania nel maggio del 1940, a fianco delle potenze vincitrici.., senza che i francesi avessero realmente contribuito all’esito finale della guerra in Europa NdA), nemmeno dagli Alleati. Quindi i francesi non avrebbero potuto trattenere alcun prigioniero di guerra. Nonostante ciò, le condizioni  imposte ai nostri militari, furono tra le più disumane ed indegne di una nazione civile. Sul fronte jugoslavo la guerra aveva oramai assunto una connotazione di ferocia estrema da ambo le parti, ma, come ricorda l’autrice, le forze armate italiane furono nella maggior parte dei casi costrette a reagire a causa del comportamento “barbaro” dei partigiani slavi. “Nel luglio del 1941, nella zona di Podgorica ( Montenegro), soldati della divisione Messina furono massacrati. Quando la zona venne riconquistata, si trovano 70 cadaveri dei nostri tagliati a pezzi e incastrati nei canali di scolo della strada. Sui cadaveri si erano avventati dei maiali”.
Successivamente, dopo l’armistizio, le violenze si spostarono anche sui civili dell’Istria e della Dalmazia.Da parte italiana non vi fu mai alcun intento di  “pulizia etnica” e di “sbalcanizzione “ dei territori  ex jugoslavi. La Legge di guerra italiana ed il codice penale militare erano allora pienamente corrispondenti alle norme internazionali ed alle consuetudini che regolavano la condotta della guerra secondo il diritto internazionale.
Gli Usa, dopo la loro entrata in guerra nel 1941, si allinearono subito al comportamento dei britannici, radendo al suolo interi abitati nelle nostre città, mentre i piloti dell’Us Air Force mitragliavano sistematicamente tutto quello che si muoveva sulle strade. In Sicilia con l’eccidio all’aeroporto di Biscari ( Ragusa), dove furono trucidati 73 prigionieri dell’Asse, si aprì la tragica lista di massacri e violenze sul suolo italiano. Lo stesso Patton, arringò i soldati della 45° divisione di fanteria: “ Ci scontreremo con il nemico..Gli porteremo la guerra in casa..Non avremo pietà..Quel bastardo deve morire..Dovete avere l’istinto assassino.. Conserveremo la fama di assassini e gli assassini sono immortali”.In Sicilia furono gli inglesi a dedicarsi con zelo all’internamento dei civili ritenuti “pericolosi fascisti”. Nei campi di concentramento di Siracusa, Fossa Creta vicino Catania, Messina, Pisturina e Priolo, migliaia di persone, civili, ma anche militari, rimasero per quasi un anno all’aria, senza baracche, senza alcuna assistenza medica, buttati sulla nuda terra, preda della malaria. Ancora nella primavera del 1994 vi erano detenuti ben 7000 prigionieri, trattati come animali da pascolo.
 Le truppe coloniali francesi si macchiarono di violenze di ogni sorta su donne, uomini e bambine, in questo istigate volentieri dagli ufficiali francesi, (…. Dopo la pessima figura fatta nel 1940, questi ultimi volevano forse riscattare in questo modo  l’ “onore della Francia )che rimaneva a guardare indifferenti l’accanirsi dei marocchini sui civili indifesi. 
Dopo l’otto settembre si registrò una recrudescenza dei crimini contro i nostri soldati. Il disprezzo,tale da rasentare spesso il razzismo, da parte degli alleati, crebbe allora ancor di più , proprio a causa del repentino voltafaccia della monarchia e di Badoglio. Le forze armate “cobelligeranti” furono mal viste soprattutto dai britannici ed utilizzate prevalentemente come bassa manovalanza nei porti e nei lavori di fatica. Questo d’altronde è il prezzo che si paga quando s’inizia una guerra da una parte, cercando poi di finirla in campo avverso.
Pregio indiscutibile di questo libro, che presenta anche un’interessante sezione fotografica, è quello finalmente di aprire uno squarcio sul quel “lato scomodo” della II GM, volutamente omesso anche dai “nuovi governanti” dell’Italia postbellica, dove i “cosiddetti liberatori” mostrano il loro vero volto, fatto di efferatezze gratuite, inutili stragi ,condotta disumana e criminale delle operazioni belliche. I fatti che oggi accadono nell’Iraq e nell’Afghanistan occupati, non fa altro che dimostrare quanto narrato in questo libro.                                                                                   
 
Federico Dal Cortivo
 
“La gioia violata” -Crimini contro gli italiani 1940-1946
Di Federica Saina Fasanotti
Ed.Ares pp.328  € 18
 
1)29 luglio 1942-piroscafo Laconia- trasporto di prigionieri italiani n.1400- dall’Egitto agli Usa.
Due piani di stive,uno dei quali sotto la linea di galleggiamento. I nostri soldati vengono stivati come animali nei locali angusti ricavati sottocoperta, con condizioni climatiche micidiali. Il caldo si tocca con le mani e rende precarie le condizioni di molti. Nella stiva più profonda non vi sono nemmeno gli oblò,nell’altra sono chiusi…. Il piroscafo britannico inizia il suo viaggio, e dopo aver attraversato il Capo di Buona Speranza, eccolo nell’Atlantico. Un pò d’aria tra le baionette delle guardie polacche e poi sottocoperta .All’alba del 22 settembre 1942, l’U-152 della marina germanica intercetta il Laconia, che era classificato come “incrociatore ausiliario”. La prassi prevedeva che le navi ospedale o che trasportavano prigionieri venissero segnalate al nemico. In questo caso nessuna segnalazione venne fatta dagli inglesi. Con due siluri il Laconia viene colpito al calare delle tenebre. Centinaia di prigionieri cercano scampo, provando a  sfondare le porte delle stive. Molti cadranno finiti a fucilate dai carcerieri. Tutti i membri dell’equipaggio cercano la fuga, lasciando volutamente al loro destino i soldati italiani. Molti di essi moriranno affogati, risucchiati  dalla nave. Al mattino del 13 settembre numerosi relitti  e cadaveri sulle acque dell’oceano testimoniano quanto accaduto.  Le speranze riprendono di notte quando tre sommergibili , due tedeschi ed il nostro Cappellini, emergono e prestano i soccorsi ai naufraghi. I vari comandi, sia dell’Asse, che Alleati, nonché i francesi, dispongono la sospensione delle operazioni militari, per consentire il proseguo di quelle di aiuto in mare. Intanto sono morti 1200 prigionieri di guerra italiani, dei quali 900 rimasti chiusi nelle stive della nave. I sommergibili con al traino i superstiti fanno rotta per l’appuntamento con navi francesi di Wichy, dove trasbordare i poveretti. Ma ecco che il 15 settembre spunta in cielo un B24 Usa, che nonostante l’ordine di cessare i combattimenti, attacca i sottomarini , causando danni all’U-156, il che costringe al trasferimento a bordo dell’’U-506 e del Cappellini, dei feriti gravi. Poi, finalmente, il 18 settembre, il trasbordo sulle  navi Gloire e Annamite della marina Francese e l’arrivo a Casablanca.

29/10/2006

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STORIA DELLA GUERRA CIVILE IN ITALIA 1943-1945

UN EVENTO EDITORIALE STRAORDINARIO TORNA DISPONIBILE
Una fonte di documentazione indispensabile per capire i trent’anni cruciali del Novecento italiano
 
  • STORIA DEL FASCISMO (1914-1943)
  • STORIA DELLA GUERRA CIVILE IN ITALIA (1943-1945)
  • con una nuova appendice filmata
  •  
       “Ci sono due tipi di conoscenza. Conosciamo una cosa per esperienza diretta, o sappiamo dove trovare  informazioni  in  proposito” Samuel Johnson”
Vedi in fondo alla pagina per le modalità di ordine

 
Giorgio Pisanò
STORIA DEL FASCISMO (1914-1943)
Tre volumi (24 x 32 cm) rilegati in balacuir nero con impressioni in oro
I°  volume “Dalle origini alla conquista del potere” (1914 – 1922)
II°  volume “Dalla rivoluzione allo Stato” (1922 – 1929)
III° volume “Lo Stato corporativo” (1930 – 1943)
100 capitoli – 1056 pagine – Documenti fotografici eccezionali
 
Una documentazione fotografica eccezionale
* La cronologia degli avvenimenti che hanno caratterizzato il ventennio mussoliniano * La ricostruzione del triennio sanguinoso (1919-1922) attraverso la riproduzione dei giornali dell’epoca, con le opposte versioni e interpretazioni dei fatti * Le verità sempre negate dalla storiografia ufficiale attorno al crollo della democrazia dei partiti e all’ascesa di Mussolini * Uno strumento indispensabile per capire come e perché la rivoluzione delle camicie nere vinse lo scontro con il movimento marxista, senza l’intervento di potenze straniere, e cambiò il corso della storia d’Italia aggiudicandosi il consenso delle masse.
 
Volume primo * Mussolini lascia il PSI * Chi finanziò il “Popolo d’Italia” * Sorgono i Fasci di combattimento * Via Mercanti: primo scontro tra due mondi * D’Annunzio insorge: “O Fiume o morte” * La vittoria socialista nelle elezioni del 1919 * Le tragiche giornate rosse di Mantova * Una accusa infamante per schiacciare Mussolini * L’eccidio di piazzale Loreto * L’occupazione delle fabbriche * L’eccidio di Palazzo D’Accursio * L’Emilia rossa diventa fascista * Nasce il Partito comunista * Mussolini entra in Parlamento * Milano: la strage del “Diana” * L’eccidio di Sarzana * Il patto di pacificazione tra fascisti e socialisti * L’eccidio di Modena * Il Movimento Fascista si trasforma in Partito * Ferrara occupata dai braccianti fascisti * Lo sciopero legalitario * Il crollo del fronte social-comunista * Mussolini al potere con i voti antifascisti.
Volume secondo * La Marcia su Roma: realtà e leggenda * La fine ingloriosa di un governo imbelle * Il Parlamento antifascista vota i pieni poteri a Mussolini * L’Europa guarda a Mussolini * Le prime riforme sociali * La dignità nazionale difesa con le cannonate * I partiti politici di fronte al Fascismo * La Camera approva la “legge Acerbo” * Plebiscito di popolo per la lista fascista * Mussolini di fronte al delitto Matteotti * La sterile battaglia dell’Aventino * Nasce la dittatura * Mussolini tra due fuochi * Dalle prime bonifiche alla “battaglia del grano” * La cultura italiana di fronte a Mussolini * Le leggi della dittatura * Nasce lo Stato del Lavoro * La Lira a “quota 90” batte l’inflazione * La Carta costituzionale dello Stato corporativo * Mussolini affronta la Confindustria * L’azione di Mussolini per Stato e Chiesa * Le masse entrano nello Stato corporativo.
Volume terzo * Mussolini e i sindacati salvano la Lira * I sindacati corporativi negli anni Trenta * La sintesi corporativa fra capitale e lavoro * Le grandi potenze davanti alla nuova Italia * Il primo incontro Mussolini-Hitler * La vittoria sul degrado e la malaria * A Stresa comincia il dramma dell’Europa * Etiopia 1935: guerra e vittoria * La Società delle Nazioni e la sfida di Hitler * Gli ultimi oppositori si arrendono * Spagna: arena di sangue per fascismo e comunismo * Il comunismo sconfitto abbandona il campo * Il doppio gioco di Hitler * L’ultima legge rivoluzionaria * L’Italia combatte i ricatti del capitalismo * L’Italia si trasforma in paese industriale * Mussolini e gli ebrei * Perché l’Italia entra in guerra * Leggenda e realtà su “8 milioni di baionette” * Muore l’illusione della guerra lampo * Cede il regime sotto i colpi della sconfitta.
 

 
Giorgio Pisanò
STORIA DELLA GUERRA CIVILE IN ITALIA (1943-1945)
Tre volumi (24 x 32 cm) rilegati in balacuir rosso con impressioni in oro
90 capitoli – 1.860 pagine – 6.000 nomi – 2.000 località citate –
 
 
Una straordinaria documentazione fotografica
* Le testimonianze dirette dei superstiti dell’una e dell’altra barricata, oggi più che mai preziose dopo la scomparsa di gran parte dei protagonisti * La ricostruzione minuziosa dei fatti, provincia per provincia, città per città, vallata per vallata * I retroscena, le trame, le verità inconfessabili e i calcoli di potere che scatenarono il terrorismo e le rappresaglie durante i seicento giorni della lotta fratricida * Un documento indispensabile per colmare il vuoto conoscitivo creato da una “vulgata” storiografica che da oltre mezzo secolo ostacola la nascita di una memoria comune per tutti gli italiani * Un’opera di eccezionale valore storico e documentario che rende onore a tutti coloro che, nell’una o nell’altra trincea, seppero lottare e morire, ognuno nella certezza di avere servito fino in fondo i propri ideali.
 
Volume primo * Il 25 Luglio * I 45 giorni di Badoglio * L’Otto Settembre * Le prime bande * Nasce la Repubblica Sociale Italiana * Per gentile concessione, nel nostro archivio italia-rsi: L’azione di rottura del PCI (con foto) * Piemonte: incomincia la lotta * Nel Biellese muore la pietà * La verità su Cuneo partigiana * La borghesia si allea al PCI * La verità sui fatti di Lovere * Il dramma di Monte San Martino * Le “4 giornate di Napoli” * Buozzi tradito dai suoi amici * Le Fosse Ardeatine * L’Abruzzo nella tempesta * La tragedia di Leonessa * Sulle Marche la mano del PCI * Siena “città ospedaliera” * Arezzo, la provincia martire * La Liguria in fiamme * La “lunga notte” di Ferrara * Bologna: i GAP seminano morte * Il massacro di Ca’ Giustinian * Le foibe * Trieste: soli contro tutti * Il processo di Verona * CLN, alleati e partigiani * La guerriglia sovversiva * La guerra privata del PCI.
Volume secondo * L’azione di governo della RSI * Le Forze Armate della RSI * Il gioco degli industriali * La Chiesa e la guerra civile * Nord e Sud * La resistenza fascista nel Sud * Firenze: i franchi tiratori * La strage del Padule di Fucecchio *Torino: i giorni del furore * La verità sulla Valdossola * La “repubblica ossolana” * Valsesia: il feudo comunista * Langhe: il “regno” di Mauri * Il quadrilatero della morte * La battaglia di Bruno * La lotta nell’Oltrepò pavese * Milano: l’estate di fuoco * Mussolini a Milano * La tragica attesa di Milano * Il “caso” Passarella * L’assassinio di Ugo Ricci * Il sacrificio della “San Marco” * La galleria della morte * Genova: lotta a coltello * Mussolini tra i suoi soldati * Il processo agli ammiragli * I “braccianti della morte” * La “repubblica di Armando” * L'”aperitivo di Stalin” * Marzabotto.
Volume terzo * Le fosse di Bologna * La banda Corbari * La verità su Marozin * Una trappola per 4.000 * I cosacchi in Carnia * L’eccidio di Porzus * Gorizia: gli slavi non passano * L’agonia di Trieste * Mussolini, la RSI e gli ebrei * Propaganda e canzoni partigiane * Propaganda e canzoni della RSI * Il tradimento di Wolff * L’intervento di Schuster * Gli ultimi giorni della RSI * Ore disperate * Mussolini lascia Milano * Sulla strada di Dongo * La cattura * Obiettivo: uccidere Mussolini * L’infamia di piazzale Loreto * 25 aprile: Piemonte * 25 aprile: Lombardia * 25 aprile: Liguria * 25 aprile: Veneto * 25 aprile: Venezia Giulia * 25 aprile: Emilia * Il “triangolo della morte” * Il disarmo delle bande * La vendetta antifascista * RSI e partigiani nella storia d’Italia * Testimonianze, indici di nomi, località, formazioni fasciste e partigiane, Enti e Partiti * Bibliografia.
 
      “… a mano a mano che ci si allontana nel tempo, l’argomento ‘fascismo’ diventa sempre più di attualità, perché sempre maggiore, viene avvertita la necessità di una approfondita conoscenza di quel periodo storico, al di fuori e al di sopra degli schieramenti faziosi e delle interpretazioni deformanti …
      … Una esigenza che urta contro la quasi totale ignoranza delle ultime generazioni su questa materia. Una ignoranza deliberatamente voluta da chi non ha mai avuto e non ha tuttora alcun interesse ad una chiara ed obiettiva rivisitazione di quel periodo …”
      Dalla introduzione alla “Storia del Fascismo”
 

 
Paolo Pisanò
APPENDICE FILMATA (raccolta in tre videocassette) alla Storia della Guerra Civile in Italia (1943 – 1945)
 
Sei nuove inchieste giornalistiche raccolte in tre eccezionali documenti audiovisivi
Un viaggio con la telecamera nella memoria scomoda degli italiani, in presa diretta sui luoghi degli eventi e attraverso i racconti dei testimoni
 
      “La storia, quando la si dissotterra, salta su come un cane rabbioso”  Hegel
 
  • I CRIMINI DEI VINCITORI (67 minuti circa)
“Milano 1944: la strage degli innocenti” Milano, 20 ottobre 1944. Le bombe sganciate dai bombardieri americani centrano in pieno la scuola elementare di Gorla uccidendo 175 bambini. La ricostruzione di un crimine di guerra attraverso i documenti inediti e la testimonianza di un superstite.
“Due storie di ordinaria ingiustizia” Milano, 10 agosto 1944. Quindici partigiani detenuti a San Vittore vengono fucilati in piazzale Loreto. I retroscena della strage e la terribile verità, sempre nascosta dalla storiografia ufficiale, sull’attentato che ne fu la causa nell’intervista esclusiva all’ex capitano della Gestapo Theo Emil Saevecke.
 
  • LA POLITICA DELLA STRAGE (76 minuti circa)
“Il mistero del Palazzo Ducale di Sassuolo” Sassuolo (Mo), marzo 1999. Durante i lavori di restauro nel cortile d’onore del Palazzo Ducale (adibito a comando partigiano dopo il 25 aprile 1945)  affiorano i resti di cinquanta corpi sepolti in una fossa comune. Un’inchiesta che svela una pagina inedita del “Triangolo della morte”.
“Aprile 1945: il Kosovo in Italia” Provincia di Ravenna, luglio 1999. Nella campagna romagnola, sui luoghi dove sono ancora sepolti in fosse comuni i corpi di centinaia di fascisti o presunti tali assassinati nel 1945. La confessione di un ex partigiano comunista che dopo mezzo secolo trova il coraggio di raccontare la verità.
 
  • I GIORNI DI CAINO (73 minuti circa)
“Aprile 1945: cronache dal Calvario” Urgnano (Bg), 29 aprile 1945. La strage dimenticata di nove fascisti o presunti tali nei racconti dei figli, ai quali è sempre stata negata giustizia. Rovetta (BG), 28 aprile 1945. Il massacro di 43 ragazzi, prigionieri inermi, assassinati dai partigiani solo perché militi della “Legione Tagliamento”.
“Aprile 1945, l’olocausto dei fascisti” Milano, luglio 1999. Attraverso la città sulle tracce dell’ultimo fascismo e degli uomini disposti a battersi fino alla morte per l’Italia di Mussolini. Le testimonianze di un “ragazzo di Salò” scampato alla strage e di uno storico che ricostruiscono le ultime ore della R.S.I.
 
 
 
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Tutte le opere si possono ordinare (ANCHE PER ACQUISTO RATEALE) presso la Eco Edizioni e saranno immediatamente recapitate tramite posta o corriere. 
 
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“Storia del Fascismo (1914 – 1943)”
3 volumi, Giorgio Pisanò, Eco Edizioni
lire 400.000
 
“Storia della Guerra Civile in Italia (1943 – 1945)”
3 volumi, Giorgio Pisanò, Eco Edizioni
lire 600.000
 
“Appendice filmata alla Storia della Guerra Civile in Italia”
3 videocassette, Paolo Pisanò, Eco Edizioni
lire 90.000
 
“Storia del Fascismo (1914 – 1943)” con
“Appendice filmata alla Storia della Guerra Civile in Italia”
lire 454.000
 
“Storia della Guerra Civile in Italia (1943 – 1945)” con
“Appendice filmata alla Storia della Guerra Civile in Italia”
lire 636.000
 
“Storia del Fascismo (1914 – 1943)” con
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in omaggio “Appendice filmata alla Storia della Guerra Civile in Italia”
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“Storia del Fascismo (1914 – 1943)”
acconto lire 100.000, 6 rate mensili di lire 50.000 ciascuna.
 
“Storia della Guerra Civile in Italia (1943 – 1945)”
acconto lire 150.000, 9 rate mensili di lire 50.000 ciascuna.
 
“Storia del Fascismo (1914 – 1943)” con
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“Storia della Guerra Civile in Italia (1943 – 1945)” con
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acconto lire 186.000, 9 rate mensili di lire 50.000 ciascuna.
 
“Storia del Fascismo (1914 – 1943)” con
“Storia della Guerra Civile in Italia (1943 – 1945)” 
in omaggio “Appendice filmata alla Storia della Guerra Civile in Italia”
acconto lire 200.000, 10 rate mensili di lire 80.000 ciascuna.
 
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ll revisionismo di Antonio Serena

di: Francesco Lamendola

Ben prima che Gianpaolo Pansa cavalcasse con tanto successo, di pubblico e di quattrini, il filone del revisionismo storico, c’è stato qualcuno che aveva scoperchiato i sepolcri imbiancati della storiografia ufficiale, debitamente democratica e antifascista, per rivelare di che lacrime e di che sangue grondassero in realtà le “radiose” giornate dell’aprile 1945.
Ci era stato raccontato, fin dai banchi di scuola, che quei giorni videro una specie di festa nazionale, una gioiosa insurrezione di popolo contro biechi individui in camicia nera, per lo più criminali di guerra, sadici e pervertiti, manutengoli di Hitler e, quindi, servi del tedesco invasore; ci era stato detto e ripetuto che, quel 25 aprile, l’Italia aveva ritrovato la concordia e la dignità nazionale.
Così, mentre i “liberatori” angloamericani venivano accolti con fiori e grida di gioia, i biechi aguzzini in camicia nera pagavano il fio dei loro delitti; ma insomma si trattò di poca cosa, qualche rapido processo, qualche scarica di mitra e poi via, come per il Duce e per l’esposizione del suo cadavere in Piazzale Loreto: l’Italia aveva fretta di voltare pagina, di dimenticare l’oppressione e la vergogna della ventennale dittatura.
E tutti ricominciarono felici e contenti, democratici e libertari; tutti, ma proprio tutti: anche quegli scrittori e quei giornalisti che fino quasi all’ultimo avevano sollecitato e ottenuto spazio nelle istituzioni culturali del regime, ma che poi, folgorati dalla luce della libertà sulla via di Damasco, fecero la cosa giusta ed entrarono a vele spiegate nella nuova vita nazionale, per la maggior parte intruppandosi nel Partito comunista che, come è noto, non sognava di veder giungere i carri armati del compagno Stalin, ma di veder sorgere un Paese libero e pluralista, ove ci fosse libertà per tutti e rispetto per qualsiasi opinione.
Che le cose non siano andate proprio così, ma in maniera ben diversa; che alla fine di aprile si sia scatenata, al termine di una feroce guerra civile durata quasi due anni, un’orgia di violenze indescrivibili, basate sulla giustizia sommaria, sulla sete di vendetta e sull’odio belluino, coinvolgendo anche numerosi innocenti o persone colpevoli soltanto di aver professato onestamente le proprie idee politiche e sociali, non lo si sapeva, non lo si ammetteva, non si voleva che fosse reso noto; lo si voleva semplicemente dimenticare.
Tanto, quei morti erano stati pochi, e poi si erano meritata la loro sorte: avevano militato dalla parte sbagliata ed era stato giusto che pagassero il loro debito con la storia.
Non si voleva riconoscere che, per la maggior parte, i “repubblichini” di Salò non erano i tronfi gerarchi del Ventennio e tutta la pletora dei profittatori di regime, ma dei giovani e dei meno giovani idealisti, che erano stati emarginati dai fasti del potere e, talvolta, persino perseguitati; che si erano fatti avanti nell’ora più buia, con la Patria doppiamente invasa, dai nemici diventati amici e dagli amici diventati nemici, per ridare onore all’Italia e per vedere realizzate le loro generose idee sociali.
Né si voleva ammettere che le uccisioni erano state numerosissime, selvagge, senza un’ombra di legalità e di giustizia; che moltissimi militi di Salò erano stati passati per le armi e gettati nei fiumi, dopo essersi arresi in cambio della promessa di ricevere il trattamento dovuto a dei prigionieri di guerra; che gli assassinii continuarono per mesi e mesi, fin oltre il 1946, assumendo non di rado la forma di miserabili vendette personali; che coinvolsero migliaia di persone che non c’entravano nulla con la politica e meno ancora col fascismo.
Allo stesso modo, per decenni si riuscì a far passare sotto silenzio, o quasi, il dramma degli Italiani infoibati dai partigiani slavi del maresciallo Tito, nelle grotte della Venezia Giulia: uccisi non in quanto fascisti, ma proprio in quanto Italiani; e, tra essi, perfino dei partigiani antifascisti che avevano avuto il torto di non ammettere che quelle terre dovessero venire annesse, “sic et simpliciter”, alla nuova Repubblica jugoslava.
A raccontare tutte queste cose in maniera organica, con notevole coraggio civile, è stato uno studioso schivo e intellettualmente onesto, Antonio Serena, che, nel suo libro I giorni di Caino, (1990) ha fornito una documentazione ricchissima e inoppugnabile di quella galleria di orrori, ivi compresa una consistente mole di materiale fotografico.
Non si tratta di screditare il valore morale della Resistenza (per coloro che ci credono); quello di Serena non era, in fondo, un discorso politico: la sua ricerca nasceva da una esigenza etica: ridare voce alle vittime, alle vittime innocenti, che furono tante, troppe. Perché il silenzio che era calato su di esse equivaleva ad averle assassinate una seconda volta. Voleva dire, anche, ridare dignità alla loro memoria e offrire un sia pur minimo risarcimento morale ai loro parenti: a quelle vedove, a quei figli, a quei nipoti.
No, I giorni di Caino non è un libro di odio, ma un libro di giustizia e di pietà: bisognava che qualcuno placasse i Mani delle vittime, offrisse un sacrificio di riparazione, raccontando la loro vera storia e liberandola dalle incrostazioni faziose e menzognere che la Vulgata democratico-resistenziale ci aveva costruito sopra.
Da quando l’ho letto (e ho letto anche gli altri di Serena, tra cui La cartiera della morte), forse anche perché, come lui, vivo nella regione in cui tali crimini avvennero e rimasero, per lo più, impuniti, c’è una immagine che non vuole andarsene dalla mia mente: quella della fotografia di copertina. Rappresenta un uomo condotto alla morte tra una folla di partigiani comunisti, con un frate che gli cammina al fianco per impartirgli l’assoluzione. Quell’uomo è un vecchio, e il suo volto appare tumefatto per le sevizie e le percosse ricevute: e tuttavia conserva una dignità sovrumana, una fierezza che traspare dallo sguardo fermo e dal passo deciso.
Quell’uomo è uno dei tanti che scomparvero nel vortice di cieca violenza di quei giorni: il professor Tullio Santi, educatore e benefattore, processato per direttissima da un autoproclamato “tribunale del popolo” e passato per le armi, a Mestre: come si è detto, dopo aver subito un indegno pestaggio, senza riguardo all’età. La sua colpa? Aver insegnato ai suoi studenti idee “colpevoli”: troppo di destra, troppo cattoliche.
A proposito: un altro mito da sfatare è che, nella cosiddetta Liberazione, i preti fossero tutti schierati con la Resistenza; la verità è che a decine vennero raggiunti, pure loro, dalla “giustizia” comunista e trucidati. Ma anche questa è una di quelle verità scomode che, a guerra finita, tutti volevano far dimenticare, a cominciare dalla Chiesa stessa; così come la borghesia industriale voleva far dimenticare i suoi ventennali intrallazzi col fascismo, che le avevano permesso di arricchirsi, talvolta persino incoraggiando i partigiani “rossi” a togliere di mezzo, con la scusa della “lotta di liberazione”, quei podestà e quegli uomini del fascismo i quali avevano levato la voce contro i profittatori di guerra e denunciato gli scandali di un ceto di affaristi senza scrupoli che aveva speculato su tutto, perfino sulle suole di cartone dei nostri alpini in Russia.
Ma tutte queste bugie, tutte queste mezze verità e tutte queste versioni di comodo sono figlie di un’unica ipocrisia di fondo: aver voluto negare tenacemente, pervicacemente, per decenni, il carattere di guerra civile agli eventi italiani del 1943-45.
Una volta rimossa questa verità, non restava altro da fare che eliminare anche i suoi corollari: ad esempio, che la Chiesa stessa si trovò spaccata fra una parte del clero che, nel Centro-Nord, simpatizzò più o meno apertamente con gli Alleati e collaborò con i Comitati di liberazione nazionale, e quella parte che, invece (formata specialmente da cappellani militari), rimase fedele agli ideali del Ventennio e che subì, al termine del conflitto, una dura repressione.
Ne abbiamo già parlato altrove, fra l’altro nell’articolo Don Tullio Calcagno, il prete che andò a morire con Mussolini e ci riserviamo di farlo ancora nel prossimo futuro, per cui non insistiamo oltre su questo aspetto della guerra civile italiana che, ad un certo punto, registrò persino la minaccia di uno scisma all’interno della Chiesa cattolica.
E la stessa spaccatura si verificò nelle file stesse della Resistenza, tra partigiani comunisti e partigiani di orientamento moderato, specie in quelle regioni del confine orientale ove, per la presenza delle aggressive rivendicazioni dei “compagni” sloveni e croati, il contrasto ideologico nello stesso schieramento antifascista si fece talvolta incandescente, sino allo spargimento di sangue fraterno.
Anche di questo abbiamo parlato, ad esempio nell’articolo L’eccidio di Porzûs del 1945 visto da un “osovano” e da un “garibaldino” (pubblicato sul sito di Arianna in data 21/02/2008); eccidio nel quale, fra gli altri, perse la vita il fratello maggiore del futuro scrittore Pier Paolo Pasolini. Ma, al di fuori del Friuli, ove poi il processo ai responsabili destò un certo clamore, quanti Italiani sapevano dei fatti di Porzûs, visto che i libri “canonici” sulla Resistenza non ne parlavano affatto, o ne cominciarono a parlare, ovviamente in chiave minimalista e giustificazionista, solo quando il revisionismo li portò nuovamente alla ribalta, in anni assai recenti?

Tornando al libro di Serena, c’è da restare impressionati davanti all’ampiezza della documentazione raccolta e all’estrema brutalità e faziosità dei “tribunali del popolo” che, sorti come funghi nelle città e nei paesi del Nord, dopo il crollo della Linea Gotica, impazzarono, con licenza di uccidere, per giorni e settimane.
A Oderzo, per esempio, cento fascisti che si erano già arresi, con promessa di avere salva la vita, vennero caricati sui camion, portati sulla riva del Piave, a Ponte della Priula, e fucilati sul posto, in quel caso senza nemmeno l’ombra di una inchiesta e di un processo; dopo di che, alcuni contadini vennero obbligati a seppellire in fretta i cadaveri.
A Mignagola, presso Carbonera, nell’hinterland trevigiano, un altro centinaio di fascisti vennero passati per le armi dopo essersi arresi.
Delle donne incinte vennero impiccate insieme al proprio marito, per la sola “colpa” di aver accompagnato quest’ultimo in visita presso parenti, ove lui si era lasciato sfuggire qualche frase politicamente imprudente.
Ci furono persino dei sedicenti comandanti partigiani che presiedettero la giuria, in cui venne condannata a morte e giustiziata la loro moglie infedele, insieme all’amante: è il caso di Sebastiano Pastrello, che mandò a morire la moglie Maria Bellato e l’amico di lei, un certo Macrì; anche questo episodio è documentato nel libro di Serena.
Non si tratta, lo ripetiamo, di un libro d’odio, di un libro fazioso; al contrario: il suo scopo non è quello di gettare fango sulla Resistenza, in cui, senza dubbio, militarono anche persone idealiste e in perfetta buona fede; ma squarciare il velo dell’ipocrisia e restituire visibilità e dignità alle vittime di una “giustizia” che, in moltissimi casi, fu solo vendetta o peggio, scatenamento dei peggiori istinti sanguinari o regolamento di conti privati. Ma l’amnistia Togliatti ha cancellato tutto….
Era ora che qualcuno raccontasse quelle cose, che rompesse il muro di omertà e di silenzio, a costo di attirarsi ogni sorta di denigrazioni.
Ed è quello che è avvenuto.
Oggi, finalmente, il velo è stato definitivamente squarciato e si comincia a guardare a quella stagione con maggiore verità storica e senso della giustizia. Si ammette che da entrambe le parti combattenti vi furono persone oneste e vi furono dei criminali; e si ammette che, negli ultimi giorni di guerra e nel periodo successivo, vi fu un bagno di sangue raccapricciante e ingiustificato, che nulla ebbe a che fare con la giustizia.
Anche se è giusto dire che Pansa non ha “scoperto” niente, ha solo proseguito, senza dargliene doverosamente atto, il lavoro intrapreso da Antonio Serena, pioniere solitario.
Chi vive al Nordest ha sempre saputo queste cose; ma non le si poteva dire, pena la scomunica e una sorta di gogna civile.
Chi scrive, ad esempio, da ragazzo si trovò a partecipare, in quanto speleologo presso la sezione C.A.I. di Vittorio Veneto, al recupero dei poveri resti di alcuni fascisti infoibati in una grotta delle Prealpi Bellunesi, sopra Revine Lago, per conto della locale stazione dei carabinieri, affinché si potesse dare loro cristiana sepoltura. Vi erano anche le ossa di una donna e, forse, di un feto.
Finalmente, di queste cose si può parlare un po’ più liberamente, anche se ciò continua a dar fastidio a qualcuno.
Perciò grazie, Toni, per il tuo coraggio e per la tua onestà intellettuale.
 
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